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SCUOLA E SOCIETA'

Post n°170 pubblicato il 01 Febbraio 2008 da educatrice2
 

Alzare l’età dell’obbligo. Non basta un decreto
 M
entre scadono i termini per le iscrizioni al superiore, ormai divenuto per tutti gli studenti italiani 'scuola dell’obbligo' (fino ai sedici anni), alcune considerazioni si impongono.
  La prima è che all’obbligo, in realtà, non corrisponde un’effettiva capacità, da parte di molti ragazzi, di assolverlo. Lo dicono in modo eloquente le percentuali di quelli bocciati al termine del primo anno, che nel 2004-2005 sono stati il 18,1%, e di quelli promossi con debito, che sono molti di più (alla fine dello scorso anno scolastico, nell’insieme, il 42%!). In queste condizioni, è spontaneo chiedersi se la scuola di massa, frutto della giusta esigenza di superare le antiche discriminazioni, non si traduca
in realtà in un gigantesco inganno, di cui le principali vittime sono i figli delle categorie sociali più deboli, ma che riguarda in larga misura anche gli altri.
  Dove non si sa se è più triste la sorte di chi fallisce in modo esplicito, oppure quella di chi viene illuso da promozioni solo nominali, senza che ad esse corrisponda una sostanziale qualificazione culturale.
  È chiaro, alla luce di ciò, che non avrebbe senso pensare di rimediare abbassando ulteriormente il livello della preparazione richiesta (già molto più basso che in passato) e spingendo le scuole a promuovere a tutti i costi. Il problema non è di 'far andare avanti', in un modo o nell’altro, ma di dare agli studenti, sul piano educativo e culturale, gli stimoli per una crescita reale della loro personalità. E qui certamente giocano numerosi fattori, non ultimo il contesto
sociale ed economico (significativo il fatto che gli insuccessi scolastici siano molto più numerosi al Sud). Ma non si può non mettere in primo piano la responsabilità di una scuola che spesso non riesce a trovare il modo di coinvolgere i ragazzi, di stabilire un reale dialogo con loro e con le loro famiglie, di realizzare un ambiente dove l’apprendimento non sia solo fatica e le verifiche non siano solo un giudizio inesorabile, ma dove sia l’uno che le altre rientrino in un più ampio processo relazionale volto alla piena realizzazione delle persone.
  Una seconda considerazione, peraltro strettamente collegata alla prima, emerge dai dati a nostra disposizione.
  Nel nostro Paese esiste, da sempre, un netto dualismo tra scuola e sistema d’istruzione professionale. Una tradizione umanistica in sé ammirevole ha avuto però, come suo risvolto negativo, una tendenza a valorizzare in modo unilaterale la cultura libresca, misconoscendo il valore educativo e culturale della dimensione operativa. Si è consolidata l’idea che l’unico modo per educare sia la trasmissione del puro sapere (che certo è molto importante), scartando la sfera (altrettanto importante) del saper fare. Ne è risultato un sistema in cui la scelta per l’istruzione professionale viene considerata un
ripiego, il frutto di una mancanza - e non del possesso - di specifiche attitudini, e comporta, a livello sociale, prospettive meno lusinghiere rispetto a coloro che frequentano i licei. Da qui l’affollamento di questi ultimi, che se ne abbiano o meno gli interessi e le capacità per quel tipo di studi superiori, con i conseguenti fallimenti, di cui parlavamo prima; da qui anche la corsa all’università – da noi tutti aspirano al titolo di 'dottore' – , dove però moltissimi restano 'posteggiati' senza mai riuscire a laurearsi.
  È urgente, se si vuole risolvere il problema dell’insuccesso scolastico, che la scelta corrisponda veramente alle attitudini dei ragazzi, e non alla loro classe sociale. Un sistema d’istruzione capace di far emergere il valore formativo, a livello umano, del saper fare, potrà vedere anche i figli dei professionisti scegliere questa strada, senza minimamente rinunziare alla loro giusta ambizione di avere un posto di primo piano nella società. Solo così, forse, si potrebbe evitare che tanti studenti restino bloccati per via o vadano avanti solo nominalmente. Ma per questo è necessaria una vera rivoluzione culturale. Ardua, peraltro, ma non impossibile, e soprattutto necessaria, se vogliamo superare le contraddizioni del nostro sistema scolastico.
 

 
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