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Al convegno “La professione docente oggi nella scuola che educa” sottolineate le difficoltà nel trasmettere determinati valori alle nuove generazioni
Riscoprire la comunità per affrontare l’emergenza educativa. E’ questa la conclusione a cui è giunto il convegno “La professione docente oggi nella scuola che educa” al quale hanno partecipato i direttori diocesani e regionali di pastorale della scuola. “Nella società attuale” ha ricordato nelle conclusioni monsignor Bruno Stenco, direttore dell’Ufficio nazionale della Cei per l’educazione, la scuola e l’università “c’è una grave difficoltà di tipo educativo. Ci troviamo di fronte a una generazione adulta che non riesce a trasmettere alle nuove generazioni determinati valori. Se questo non avviene c’è un distacco della narrazione”. Come riallacciare un rapporto significativo? “Per quanto riguarda il docente”, ha osservato monsignor Stenco “all’aspetto istruttivo occorrerà connettere l’aspetto educativo. Cioè si dovrà realizzare una collegialità e insieme con gli studenti una forma di comunità”. Da parte sua la comunità può dare un contributo decisivo al superamento dell’emergenza attraverso i docenti cattolici che insegnano nelle scuole e le loro associazioni professionali. Per portare una proposta comunitaria dentro una scuola laica è la conclusione “si dovrà da parte dei docenti elaborare insieme ai genitori un progetto non frammentato nelle singole materie ma capace di dare ai ragazzi punti di riferimento in grado di rispondere alla domanda di significato sulla vita”.
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Internet, lavagne di pixel, classi virtuali: la scuola diventa digitale
Non c’è bisogno di essere troppo anziani per considerare il blog o la posta elettronica come utilissimi strumenti. Per lavorare, comunicare o divertirsi. Bisogna invece essere “nativi digitali“, cresciuti a pane e Internet, per considerarli parte integrante del proprio sé e delle proprie relazioni sociali.
I digital native - l’Ocse definisce tali i nati dopo il 1985 - sono abituati a interagire attraverso computer e cellulari, a intrecciare relazioni via web, a far coincidere la propria identità personale con quella digitale. Un approccio radicalmente diverso dai “figli del libro”, da quelle generazioni di genitori e insegnanti cresciuti in un’epoca di “diffusione della produzione industriale di massa, dei mezzi di comunicazione di massa (in primis la televisione, ma anche la radio e il cinema) e da una modalità di relazioni sociali e comunicative” per molti aspetti passive. Almeno in confronto al modello di questi ultimi anni, caratterizzato da “un ruolo sempre più attivo dei consumatori, degli utenti dei media e anche degli studenti e dei formandi rispetto ai decisori: da un modello pochi-molti a un modello tutti-tutti”. In questo processo hanno giocato un ruolo fondamentale i “personal media digitali”.
Su questi presupposti si sviluppa il saggio di Paolo Ferri (La scuola digitale, Bruno Mondadori), che affronta il problema di quale linguaggio comune possa mettere in relazione le generazioni pre e post rivoluzione Internet.
Il libro, molto documentato, si tiene giustamente alla larga dalle facili generalizzazioni in cui spesso inciampano i mass media (il web come fonte di ogni male). E spiega, racconta e accoglie le dimensioni della cooperazione e della condivisione in rete che caratterizzano il cosidetto web 2.0, per provare a capire quale potrebbe essere la scuola di domani. O anche di oggi, se si guarda per esempio all’Islanda o agli Stati Uniti (e solo in casi eccezionali all’Italia).
Da una parte, un’ottica educativa (quella dei “figli di Gutenberg”) lineare e omogenea, che ha un inizio e una fine (il libro) e si basa su un rapporto frontale tra insegnante e studenti. Dall’altra un percorso formativo a rete, un continuum modificabile e modulabile all’infinito: una scuola digitale, appunto, capace di uscire - anche fisicamente - da se stessa. “Internet, Ipod, lavagne digitali e classi virtuali si affiancano e trasformano” le modalità di apprendimento ne ridefiniscono secondo Ferri i tempi e gli spazi. Basti pensare a prestigiose università come quelle di Harvard e Stanford, che permettono ai loro studenti di scaricare i podcast delle lezioni, per ascoltarle in differita e “continuare” la formazione in metropolitana o nella propria stanza.
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Messaggio N°568 Tags: pederastia, PEDOFILIA, perversioni sessuali, rapporti sex minori/adulti, sesso a 13 anni, sessualità in preadolescenti, STUPRO, violenza sessuale, vita sessuale dei ragazzini | 06-02-2008 - 18:34 |
COMMENTO
Un baldo e palestrato macellaio vicentino di trentaquattro anni (VEDI IL PRECEDENTE POST) si è incapricciato di una ragazzina tredicenne. L'ha fatta salire in macchina e ha avuto un rapporto sessuale con lei. Poi l'ha nuovamente incontrata e , "clandestinamente" ha tenuto in piedi con la ragazzina ( frequentante la seconda media) una "storia" di quattro mesi. SCOPERTO, DENUNCIATO E PROCESSATO si è appellato ... all'AMORE.
E, alla fine, ci ha creduto pure il tribunale di Vicenza. Così, invece dei dodici anni previsti dal codice per stupro o i cinque e mezzo richiesti dall'accusa il focoso playboy ha subito una pena ( si fa per dire ) di un anno e quattro mesi e la condanna a versare 20mila euro di risarcimento alla piccola vittima. Perchè, in fondo, «era amore». Un «vero, autentico, sentito e irresistibile sentimento d'amore». Che dire?
A noi sembra tutto folle.
Non conosciamo la tredicenne in questione e non commetteremmo mai l'errore di sottovalutare il potere di una lolita. Nè quello di una madre distratta. Specialmente oggi che, secondo una ricerca da poco pubblicata, il primo rapporto sessuale avviene proprio verso i tredici anni. Quando è solo dai quattordici in poi che si è considerati legalmente "maturi" da quel punto di vista. Per carità, sono tutti quesiti interessanti e tutt'altro che secondari. Che ci appassionano un po' meno solo perchè, oggi, dall'altra parte, c'è un "bamboccione" ( il macellaio) economicamente evoluto, socialmente evoluto che ritiene che tra lui e la bambina di ventun anni più giovanedi lui fosse «vero amore».
Per carità, nella vita tutto può succedere. Ne siamo drammaticamente consci. Ma scambiare il sembiante dell' amore per amore, è una cosa che smette di succedere quando si entra nell'età adulta. E’ una cosa che, appunto, succede agli adolescenti con loro passioni bollenti scambiate per ultime quando in realtà sono solo le prime, scambiate per uniche quando, in realtà, ne seguiranno a dozzine. Sono pulite e assolute.
Rese eterne dai poeti come quella di Giulietta e Romeo raccontata da Shakespeare. Che non a caso erano adolescenti, che non a caso erano coetanei. E' quello che succede quando si è piccini, appunto. Se accade dopo, tocca dargli un altro nome. Oppure, tocca darsi un'altra vita. Cercarsene una. Come dovrebbe fare, indipendentemente dalla sua pena "low cost", il signor Antonio Di Pascale di anni trentaquattro. Macellaio e vicentino. Capace di grandi conquiste e di ancor più grandi convincimenti. Perchè ha fatto capitolare una tredicenne e perchè in tribunale ha tirato fuori il cellulare, come in un libro di Moccia. Come in una scena girata da Muccino, come un sabato sul ponte Milvio tra lucchetti e motorini. Messaggi e messaggini, con parolette e paroline ricevute da lei. A dimostrazione del fatto che... Vedete? «Era amore».
Sì, signor Di Pascale. Magari quello è pure amore. Solo che non è a lei che deve arrivare addosso. E’ lei che fa pena e , mi scusi, repugnanza. E’ lei che per certi "amori" è scaduto, come un prodotto avariato.
Inviato da: psicologiaforense | Trackback: 0 - Commenti: 38 |
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Messaggio N°567 Tags: attenuante "amore", diritti dei minori, rapporti sex adulto-ragazzina, sesso con 13enne, violenza sessuale | 06-02-2008 - 17:31 |
Macellaio Trentenne
condannato con sconto:
«Era amore»
L'accusa: lei succube. La difesa: consenziente, gli inviava messaggini. Escluso lo stupro su minore
VICENZA - Condannato per aver fatto sesso con una tredicenne ma non per stupro e con uno sconto di pena perché fra lui, 34 anni, e quella ragazzina tanto più giovane era «amore». Questa in sintesi la motivazione con cui il Tribunale di Vicenza ha condannato a un anno e 4 mesi Antonio Di Pascale, un macellaio vicentino per il quale l'accusa aveva chiesto cinque anni e mezzo di reclusione per violenza sessuale. I giudici - come riportano i quotidiani locali dopo il deposito delle motivazioni - hanno accolto la tesi difensiva dell'avvocato Teresa Ferrante, riconoscendo la «minore gravità».
I GIUDICI - Per i giudici quindi la tredicenne era consapevole e consenziente. Del resto, lo stesso Di Pascale al processo ammise tutto e continuò ad affermare di essere follemente innamorato della giovanissima. I giudici hanno anche accertato che la relazione si era svolta in una atmosfera normale, se così si può dire, in cui il fidanzato colmava di attenzioni e gentilezze la sua ragazza. Una sentenza comunque che fa discutere, tanto che sono molte le posizioni contrarie alla decisione dei giudici tra cui quelle di psicologi e avvocati di associazioni per la tutela dei minori. Si attende ora l'appello per vedere se la sentenza sarà nuovamente ribaltata.
VEDI IL NOSTRO COMMENTO NEL POST SUCCESSIVO.....
Inviato da: psicologiaforense | Trackback: 3 - Commenti: 0 |
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Alzare l’età dell’obbligo. Non basta un decreto
M entre scadono i termini per le iscrizioni al superiore, ormai divenuto per tutti gli studenti italiani 'scuola dell’obbligo' (fino ai sedici anni), alcune considerazioni si impongono.
La prima è che all’obbligo, in realtà, non corrisponde un’effettiva capacità, da parte di molti ragazzi, di assolverlo. Lo dicono in modo eloquente le percentuali di quelli bocciati al termine del primo anno, che nel 2004-2005 sono stati il 18,1%, e di quelli promossi con debito, che sono molti di più (alla fine dello scorso anno scolastico, nell’insieme, il 42%!). In queste condizioni, è spontaneo chiedersi se la scuola di massa, frutto della giusta esigenza di superare le antiche discriminazioni, non si traduca in realtà in un gigantesco inganno, di cui le principali vittime sono i figli delle categorie sociali più deboli, ma che riguarda in larga misura anche gli altri.
Dove non si sa se è più triste la sorte di chi fallisce in modo esplicito, oppure quella di chi viene illuso da promozioni solo nominali, senza che ad esse corrisponda una sostanziale qualificazione culturale.
È chiaro, alla luce di ciò, che non avrebbe senso pensare di rimediare abbassando ulteriormente il livello della preparazione richiesta (già molto più basso che in passato) e spingendo le scuole a promuovere a tutti i costi. Il problema non è di 'far andare avanti', in un modo o nell’altro, ma di dare agli studenti, sul piano educativo e culturale, gli stimoli per una crescita reale della loro personalità. E qui certamente giocano numerosi fattori, non ultimo il contesto sociale ed economico (significativo il fatto che gli insuccessi scolastici siano molto più numerosi al Sud). Ma non si può non mettere in primo piano la responsabilità di una scuola che spesso non riesce a trovare il modo di coinvolgere i ragazzi, di stabilire un reale dialogo con loro e con le loro famiglie, di realizzare un ambiente dove l’apprendimento non sia solo fatica e le verifiche non siano solo un giudizio inesorabile, ma dove sia l’uno che le altre rientrino in un più ampio processo relazionale volto alla piena realizzazione delle persone.
Una seconda considerazione, peraltro strettamente collegata alla prima, emerge dai dati a nostra disposizione.
Nel nostro Paese esiste, da sempre, un netto dualismo tra scuola e sistema d’istruzione professionale. Una tradizione umanistica in sé ammirevole ha avuto però, come suo risvolto negativo, una tendenza a valorizzare in modo unilaterale la cultura libresca, misconoscendo il valore educativo e culturale della dimensione operativa. Si è consolidata l’idea che l’unico modo per educare sia la trasmissione del puro sapere (che certo è molto importante), scartando la sfera (altrettanto importante) del saper fare. Ne è risultato un sistema in cui la scelta per l’istruzione professionale viene considerata un ripiego, il frutto di una mancanza - e non del possesso - di specifiche attitudini, e comporta, a livello sociale, prospettive meno lusinghiere rispetto a coloro che frequentano i licei. Da qui l’affollamento di questi ultimi, che se ne abbiano o meno gli interessi e le capacità per quel tipo di studi superiori, con i conseguenti fallimenti, di cui parlavamo prima; da qui anche la corsa all’università – da noi tutti aspirano al titolo di 'dottore' – , dove però moltissimi restano 'posteggiati' senza mai riuscire a laurearsi.
È urgente, se si vuole risolvere il problema dell’insuccesso scolastico, che la scelta corrisponda veramente alle attitudini dei ragazzi, e non alla loro classe sociale. Un sistema d’istruzione capace di far emergere il valore formativo, a livello umano, del saper fare, potrà vedere anche i figli dei professionisti scegliere questa strada, senza minimamente rinunziare alla loro giusta ambizione di avere un posto di primo piano nella società. Solo così, forse, si potrebbe evitare che tanti studenti restino bloccati per via o vadano avanti solo nominalmente. Ma per questo è necessaria una vera rivoluzione culturale. Ardua, peraltro, ma non impossibile, e soprattutto necessaria, se vogliamo superare le contraddizioni del nostro sistema scolastico.
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Inviato da: shadotre
il 22/12/2010 alle 20:15
Inviato da: shadotre
il 17/12/2010 alle 10:51
Inviato da: educatrice2
il 12/12/2010 alle 06:24
Inviato da: unvolooltrelenubi
il 09/12/2010 alle 22:26
Inviato da: educatrice2
il 08/12/2010 alle 19:59