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150° ANNIVERSARIO DELL'UNITÀ D'ITALIA

Post n°38 pubblicato il 14 Aprile 2011 da ninolutec
 
Tag: Storia

 


Una ricostruzione a grandi linee del processo di unificazione e di «Risorgimento» della nazione italiana con una particolare attenzione alla dimensione strutturale.

 

Giuseppe Brienza

Ombre e luci del processo risorgimentale italiano
(Parte Quarta)

 

[Relazione tenuta al convegno di studi La nascita dello Stato italiano, in occasione del 145° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, organizzato dalla Associazione Europea Scuola e Professionalità Insegnante (Aespi) di Milano, il 17 marzo 2006 a Palazzo Valentini di Roma, con il  patrocinio della Regione Lazio, della Provincia di  Roma e della Fondazione Ugo Spirito di Roma]

 

 

21. La Chiesa e l’atavica accusa machiavelliana sulla mancata unificazione italiana

 

Per la «nuova storiografia», di cui ho parlato all’inizio, il Risorgimento è rappresentato anche — e questa è la quinta ombra — come la realizzazione di una vera e propria aggressione contro la Chiesa cattolica, che ribalta l’antica tesi machiavelliana di una Chiesa ostacolo alla unificazione italiana. La mancata unità, secondo il «segretario fiorentino» Niccolò Machiavelli (1469-1527), era indubitabilmente da imputarsi all’influenza della Chiesa cattolica, che, per mantenere il suo Stato, aveva sempre diviso e imperato in Italia, impedendo di prevalere a qualunque «agente di unità» che fosse emerso nella storia. Accusa ripresa dalla leadership laicista del Risorgimento e spinta fino a desiderare di limitare quell’universalità, che faceva della Chiesa l’erede di Roma, e la sua capacità di tenere insieme le diversità.

Non tutti i grandi storici e pensatori italiani moderni, comunque, avevano condiviso tale lettura negativa del ruolo della Chiesa. Secondo Ludovico Antonio Muratori (1672- 1750), per esempio, il riferimento di tutti i popoli italiani alla Chiesa consentì di evitare storiche spaccature, che avrebbero visto l’Italia divisa irrimediabilmente fra un nord sotto l’influenza protestante e un sud sotto quella musulmana, oppure dato fondo a estremismi capaci di violenza e di distruzione reciproche — la storia politica del Novecento può aiutare a capire quanto possa essere distruttiva la perdita di una identità comune.

Anche ai nostri tempi, e da parte non cattolica, è stata rilevata — per esempio da Galli della Loggia — la continuità fra l’eredità di Roma e l’operato della Chiesa nel salvare l’identità italiana.

 

 

22. Le premesse della persecuzione contro la Chiesa: la soppressione degli ordini religiosi dei governi sardi Cavour-Rattazzi

 

Ma l’aggressione laicista ebbe inizio ben prima, almeno dal 1796-1799, durante cioè quel Triennio Giacobino che diede inizio ufficiale allo scontro fra Stato e Chiesa nel nostro Paese. E dato che, come universalmente riconosciuto, i giacobini di quegli anni furono i padri ispiratori di molti dei futuri patrioti risorgimentali, non è possibile non intuire il legame ideologico e politico fra i due successivi momenti e forme di aggressione anticattolica che caratterizzarono il movimento risorgimentale.

La Chiesa cattolica del tempo era da esso descritta come una forza oscurantista, che ostacolava il progresso e la libertà dell’Italia. Eppure la fede nella religione tradizionale e l’attaccamento all’ordine politico e sociale costituitosi in un ambiente docile all’influsso del cattolicesimo erano penetrati così profondamente nella cultura popolare italiana che alla fine del 1700 solo pochi «illuminati» accolsero con entusiasmo la Rivoluzione francese: «Il fenomeno dell’Insorgenza, vale a dire la reazione spontanea, fisiologica, all’inoculamento nel corpo sociale dei virus provenienti da Oltralpe reazione avente sempre gli stessi caratteri in presenza di popolazioni differenti, rette da istituzioni diverse, situate in contesti geoeconomici non uniformi è un’ulteriore prova dell’esistenza della nazione italiana, con un suo profilo ben delineato e una sua cultura specifica».

Come nel 1700 con la Francia, così anche nel secolo successivo la Chiesa in Italia non poteva ovviamente rimanere indifferente all’egemonizza­zio­ne dell’intera Penisola da parte di uno Stato, il Regno di Sardegna, che fin dall’indomani del 1848 si era distinto per una dura legislazione anti-cattolica e anti-ecclesiale. Soprattutto i gesuiti denunciarono, su La Civiltà Cattolica, la gravità di quello che stava succedendo, mettendo in guardia i cattolici sull’impossibilità di diventare seguaci delle nuove idee. Fin dal 1854-1855 il governo Cavour-Rattazzi aveva infatti presentato un progetto di legge contro gli ordini mendicanti — francescani e domenicani soprattutto — e contemplativi — monache di clausura —, accusati di essere inutili quindi dannosi. Cavour si preoccupava anche, con questa legge, di conservare l’appoggio di gran parte dei governi europei liberal-massonici. La legge toglieva la personalità giuridica a 34 ordini religiosi, sopprimendo 331 case religiose con circa 4.500 religiosi, più della metà di quelli esistenti in Piemonte. Centinaia di edifici e di opere d’arte di inestimabile valore, più di 2 milioni e mezzo di ettari di terra, vennero espropriati.

Non poteva non seguire, fatta l’unità d’Italia, una estensione su scala nazionale della politica di secolarizzazione esemplificata dalla legge citata, prima con le leggi del 1867 di soppressione degli ordini e delle congregazioni religiose di vita contemplativa, di incameramento dei loro patrimoni, poi di la sistemazione unilaterale della «Questione Romana» con la legge cosiddetta «delle Guarentigie» del 1870.

 

 

23. Le violenze e gli abusi durante la «dittatura democratico-garibaldina» delle Due Sicilie

 

Le camicie rosse — o garibaldini — sono sempre stati raccontate come guerriglieri generosamente intenti a fare l’Italia. Non se ne ricordano, però, ben altre gesta, come la depredazione di conventi e d’istituti e la cacciata di religiosi e religiose. In ciò i garibaldini superarono in ogni sorta di abusi le truppe regolari dell’esercito piemontese, il cui ordine e la cui regolarità formale confliggevano non poco, per esempio, con le promozioni scandalose volute da Garibaldi durante la sua dittatura «delle Due Sicilie». Sotto questo profilo, anche Cavour non poteva non nutrire nei confronti di quest’ultimo e dei suoi irregolari che una spessa diffidenza. Scrive Ettore Passerin d’Entrèves (1914-1990): «Ai garibaldini il Cavour non può pensare con simpatia, quando tutti i suoi collaboratori e informatori dal Mezzogiorno gli inviano dei rapporti assai severi sulla condotta dei volontari, sulla loro cattiva volontà nei confronti del governo, sugli scandali politico-amministrativi della dittatura democratico-garibaldina in Napoli e in Sicilia» [33].

Intemperanze e assalti veri e propri furono anche il frutto di una capillare propaganda, finanziata da Torino e da Londra, che diffondeva una vera e propria «leggenda nera» contro il potere temporale e gli abusi degli ecclesiastici.

 

 

24. Fra «Terza Roma» e potere temporale

 

Se il Risorgimento fosse stato solo contrario al potere temporale dei Pontefici, un compromesso si sarebbe forse trovato. In realtà esso, come visto, fin dal 1848 fu decisamente anti-clericale e anti-cattolico, rifiutando in toto la tradizione civile e religiosa dell’Italia, per cercare di costruire una «terza Roma», quella del positivismo e dello scientismo, idealmente ricollegata all’antica Roma pagana e incarnata dalla massoneria. L’obiettivo era quello di sovvertire la costituzione medesima della Chiesa, indicata da alcuni come un «vecchio cancro» dell’Italia, e sradicare il cattolicesimo dall’Italia, progetto che trova continuità nelle forze laiciste attive dopo la Seconda Guerra Mondiale. Anche il ritorno di atteggiamenti anticlericali — l’anti-clericalismo è sempre il preludio dell’anti-cristianesimo — nel dibattito politico nazionale di questi ultimi tempi con un inquietante crescendo di toni e anche di azioni contro la Chiesa e il suo insegnamento, pone la domanda spontanea di si trovi nella nostra storia la sorgente di questo veleno apparentemente mai esaurito…

La risposta è facile: proprio in quello spirito anti-cattolico, di cui era colma l’ideologia e la prassi politica delle élites liberal-giacobine che hanno realizzato l’unificazione italiana.

 

 

25. L’unificazione amministrativa e la «piemon-tesizzazione»

 

Le leggi di unificazione amministrativa del 1865, i cui temi essenziali sono ripresi nelle riforme crispine del 1889-1890, passate alla storia come «seconda unificazione amministrativa», determinano un periodo lungo, di quasi trent’anni, in cui si definiscono e si stabilizzano gli assetti istituzionali dell’Italia unita e le sue caratteristiche. L’unificazione amministrativa operata sulla base delle leggi del 1859-1865 è stata criticata — e siamo così alla sesta ombra — da alcuni storici dell’amministrazione per non aver tenuto in nessun conto la legislazione e la fisionomia istituzionale non piemontese, giustificando così le accuse di autoritarismo e d’incomprensione degli interessi veramente nazionali.

Qui si colloca il controverso tema della «piemontesizzazione»: la modernità è identificata infatti dai nuovi governanti esclusivamente con il modello del Piemonte sabaudo e l’unificazione amministrativa è risultata quindi il prodotto di un’iniziativa dall’alto insensibile alla ricerca di una nuova sintesi costituzionale dei molteplici apporti delle diverse Italie.

Del resto la già citata formula tutta ideologica secondo cui «fatta l’Italia» occorreva «fare gli italiani», certificava propriamente «[…] una funzione pedagogica attribuita allo Stato (e in concreto ai suoi apparati) di fronte a un giudizio senza appello sull’arretratezza del corpo sociale. Di fronte alle emergenze la classe dirigente di governo si auto-investe in quella che è stata definita “dittatura dei savi” o, più propriamente (sempre Stefano Jacini) un “lungo governo provvi-sorio”». Simbolico, in tal senso, è il destino di certi liberali napoletani che, dopo il 1861, «[…] si sentono come estraniati dal loro stesso paese, una volta ritornati dall’esilio».

 

26. «Il Piemonte ha più da apprendere che da insegnare» 

 

Ma anche diversi patrioti settentrionali della prima ora, come Cesare Giulini della Porta (1815-1862), ben presto non omisero di accusare di centralismo livellatore il nuovo Regno d’Italia. Il conte Giulini, che era stato membro del governo provvisorio di Lombardia, costituito il 22 marzo 1848 durante le Cinque Giornate di Milano, insieme a Gabrio Casati (1798-1873), presidente, e a Carlo Cattaneo (1801-1869), segretario, e nel 1862 era diventato senatore del Regno, «[…] nominato a Torino alla testa di una inutile commissione per i nuovi ordinamenti locali, scriveva alla moglie che, negli ordinamenti amministrativi, “il Piemonte ha più da apprendere che da insegnare”. Ma finiscono col prevalere le ragioni dell’emergenza».

È bene ribadire che l’interesse per le vicende dalle quali questo paese ha tratto l’assetto amministrativo ancor oggi vigente, come ebbe a scrivere Gianfranco Miglio, non muove certo «[…] da una curiosità puramente storica, ma dalla convinzione che appunto tali ordinamenti non abbiano fatto buona prova e che la comunità statuale allora costituita sia tutt’altro che stabile e radicata».

 

 27. La legislazione del 1859, cardine dell’unifi-cazione amministrativa centralistica

 È opinione largamente diffusa fra gli storici dell’amministrazione che le grandi leggi di unificazione amministrativa, perfezionate intorno al 1865, costituiscano soltanto il corollario di scelte e di decisioni maturate fra il 1859 e il 1861. E la legislazione del 1859, destinata a regolare uno Stato ampliato a tutta la Lombardia — con prospettive di ulteriore espansione all’Emilia e alla Toscana —, si caratterizza proprio «[…] per l’assenza di un tentativo di ripensamento istituzionale, che tenga conto delle diverse esperienze degli antichi Stati. Si detta così in qualche modo lo stile della successiva legislazione di unificazione, lasciata, sotto la spinta dell’emer­gen­za, all’iniziativa del governo, senza alcun dibattito parlamentare o ripensamento istituzionale».

La caratteristica della vicenda italiana è tuttavia che quello che appare prima facie contraddittorio tende poi ad «aggiustarsi» e a «comporsi» in sede di applicazione, in un «pratico miscuglio istituzionale», caratterizzato da una molteplice e informale serie di relazioni fra governo, parlamento e amministrazione, fra centro e periferia, fra politica e amministrazione, che disegnano un equilibrio che ha la caratteristica di essere sempre percepito come precario, quando non denunciato come «corrotto».

La legge del 20 marzo 1865, n. 2245, sulla unificazione amministrativa del Regno reca sotto forma di allegati le leggi: (a) comunale e provinciale; (b) di pubblica sicurezza; (c) sulla sanità pubblica; (d) sul Consiglio di Stato; (e) sul contenzioso amministrativo; e (f) sulle opere pubbliche. La legge comunale e provinciale del 1865 poco innova rispetto al 1859: viene confermato il quadro delle circoscrizioni, archiviando qualsiasi velleità razionalizzatrice e il sistema di designazione dei vertici e di elezione dei consigli: si ha solo un modesto allargamento del suffragio. La conferma della presidenza dell’esecutivo delle amministrazioni provinciali da parte del prefetto, e il rafforzamento dei poteri del sindaco, sempre di nomina regia, sono funzionali al controllo e al circuito dell’accentramento.

 

 
 
 
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