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150° ANNIVERSARIO DELL'UNITÀ D'ITALIA

Post n°39 pubblicato il 14 Aprile 2011 da ninolutec
 
Tag: Storia

 


Una ricostruzione a grandi linee del processo di unificazione e di «Risorgimento» della nazione italiana con una particolare attenzione alla dimensione strutturale.

 

Giuseppe Brienza

Ombre e luci del processo risorgimentale italiano
(Ultima Parte)

 

[Relazione tenuta al convegno di studi La nascita dello Stato italiano, in occasione del 145° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, organizzato dalla Associazione Europea Scuola e Professionalità Insegnante (Aespi) di Milano, il 17 marzo 2006 a Palazzo Valentini di Roma, con il  patrocinio della Regione Lazio, della Provincia di  Roma e della Fondazione Ugo Spirito di Roma]

28. L’eccellenza amministrativa lombardo-veneta e il «ripensamento» di Cavour

 

Inizialmente, come ha evidenziato Roberto Ruffilli, Cavour parve intenzionato a rispettare e valorizzare l’esperienza amministrativa del Lombardo-Veneto asburgico, lasciando con il Regio Decreto dell’8 giugno 1859, n. 4325, alla Lombardia la sua organizzazione e la sua legislazione amministrativa tradizionale, sia pure con talune modifiche, sulla base della normativa piemontese.

Fattore determinante nella scelta cavouriana «[…] era la convinzione, chiaramente espressa all’interessato, della superiorità delle istituzioni lombarde rispetto a quelle piemontesi, sul piano della liberalità e dell’efficienza». È significativa, da questo punto di vista, l’estensione, realizzata da Cavour, col successivo Regio Decreto del 15 giugno 1859, dell’organizzazione amministrativa lombarda alle province modenesi e parmensi in via di annessione allo Stato sardo: «Ciò mette in luce come anche lo statista piemontese, là dove non avvertiva l’esigenza politica di evitare turbamenti della realtà in atto, tendesse a lasciar cadere l’apparato amministrativo tradizionale e a sostituirlo con uno ritenuto più idoneo a consolidare gli equilibri del nuovo regime, oltre che più conforme ai principi liberali e dell’efficienza amministrativa».

La gran parte dei successori dello statista piemontese, però, non perseverò nel riconoscimento delle particolarità amministrative dell’ex Stato, operando la definitiva estensione all’intero regno della legislazione «piemontese». La tendenza propria del primo governo successivo a Cavour, presieduto nel 1862 da Urbano Rattazzi, e in generale quella di tutta la Sinistra parlamentare, soprattutto per convinzioni derivanti dalla propria peculiare formazione ideologica e politica, fu senza esitazione per una unificazione amministrativa del Paese sulla base di leggi uniformi di conio piemontese: Scrive Roberto Ruffilli: «Contemporaneamente la tendenza rattazziana si ricollega anche ad una peculiare visione per così dire “liberal-autoritaria” dell’organizzazione dello Stato e della pubblica amministrazione. Si trattava in sostanza della visione cara a gran parte della Sinistra piemontese e fondata sulla lezione della rivoluzione francese, filtrata attraverso l’esperienza napoleonica anche italiana,[…] nell’ambito comunque sempre di una guida dall’alto delle masse popolari».

In tutto il Mezzogiorno fu quindi abrogato il diritto consuetudinario a favore del Codice di diritto civile piemontese. I contadini, che aveva­no favorito nella prima parte della guerra la caduta del regime borbonico, si accorsero che i vantaggi del nuovo regime andavano a quelle categorie borghesi, che ora si apprestavano a godere i frutti della vittoria. Tutti, infine, si accorsero che la tassazione era ben più esosa delle tassazioni esistenti prima dell’arrivo dei liberatori e alcuni cominciarono a rimpiangere l’antica situazione.

Poiché non fu previsto alcun gradualismo nell’integrazione delle varie regioni italiane, avvenne che un nord relativamente avanzato si trovò a espandere il mercato dei propri prodotti in un sud arretrato i cui prodotti non erano difesi da dazi protettivi.

A ciò si associò fin da subito una propagandistica rappresentazione idilliaca della nuova realtà e, per diametro, la sistematica denigrazione, oltre ogni immaginazione, di tutto quel che c’era prima. Come ha riconosciuto di recente anche uno storico meridionale, Giampaolo D’Andrea, attualmente senatore nelle fila della sinistra italiana, la «Sinistra storica», così facendo, «[…] ritenne di rafforzare il consenso allo Stato sabaudo attraverso l’impietosa delegittimazione di tutta l’eredità del regno Borbonico, persino per gli aspetti per i quali si era limitato a preservare gli effetti delle riforme introdotte nel decennio napoleonico».

  

29. Alcune luci nell’impianto amministrativo italiano dopo l’Unità

 

(a) Il controllo e la «giustizia nell’amministra-zione»

 

Fra le luci dell’unità d’Italia, nel senso delle buone prassi e culture amministrative introdotte nella gestione della cosa pubblica dai «piemontesi», si possono innanzitutto annoverare una maggiore attenzione alla buona amministrazione e all’esercizio rigoroso delle funzioni statali. Ciò, naturalmente, era assicurato con il mezzo che più era confacente alla classe dirigente sabauda: la sanzione e il controllo. La maggiore innovazione della Legge del 13 novembre 1859, n. 3746,  sull’amministrazione centrale, per esempio, che aveva essenzialmente il compito di ridefinire gli organici, fu infatti l’introduzione del «ruolo ispettivo», così da aumentare le aspettative di carriera da un lato e dall’altro rafforzare il controllo sistematico e capillare dell’azione amministrativa. Altrettanto rilevante è la legge del 30 ottobre 1859, n. 3706,  sul Consiglio di Stato, che ne allarga le competenze al contenzioso, riformando il vecchio sistema imperniato sulla Camera dei Conti, di cui eredita alcune competenze, lasciando quelle sulle controversie e il controllo contabile alla Corte dei Conti. Quest’ultima, istituita con la Legge del 30 ottobre 1859, n. 3707, sarà definitivamente istituzionalizzata nel 1862, con il compito di esercitare il controllo preventivo su tutti gli atti normativi comportanti spesa e sui decreti reali, riferendo inoltre al Parlamento sulla «parificazione» del rendiconto generale dello Stato.

 

(b) La pubblica istruzione

 

Altro elemento positivo portato nell’ordinamento italiano da quello precedente sardo riguarda la scuola statale. La Legge n. 3725/1859 sulla pubblica istruzione, passata alla storia con il nome del ministro, il già citato conte Gabrio Casati, creò infatti un sistema di istruzione su tutti i gradi, riprendendo i tratti del modello tedesco: una scuola elementare obbligatoria e, quindi, una biforcazione in ginnasio-liceo e scuola tecnica-istituto tecnico, o scuola normale, per la formazione dei maestri. Solo il ginnasio-liceo, da cui si accedeva a qualsiasi facoltà universitaria, era a carico dello Stato. Le altre scuole restavano a carico degli enti locali: l’onere e l’organizzazione amministrativa delle elementari erano affidati ai comuni. A parte l’inevitabile — in relazione al già descritto atteggiamento dei risorgimentali nei confronti della Chiesa e della religione cattolica — spinta laicizzatrice e anti-religiosa del nuovo regime scolastico, suoi apprezzabili punti di forza potevano essere identificati per un verso in «[…] un’estrema attenzione verso l’istruzione superiore, considerata la fucina delle future classi dirigenti; per altro verso il rilievo dato all’istruzione primaria con l’affermazione del principio dell’istruzione elementare obbligatoria gratuita. Il cardine dell’istruzione era costituito dalle materie umanistiche, latino e greco in primis, a immagine di quanto accadeva in Germania».

 

(c) La razionalizzazione e la codificazione nor-mativa

 

La legge del 2 aprile 1865, n. 2248, autorizzò a pubblicare «i codici e le leggi complementari», che si succederanno in rapida sequenza, a eccezione del Codice penale, che verrà pubblicato nel 1889.

 

(d) L’introduzione delle prime tecniche di gestione del personale e della «scienza dell’amministra-zione»

 

Il senso della gerarchia è «istituzionalizzato» con la riforma delle carriere amministrative — realizzata con vari provvedimenti all’inizio degli anni 1870 —, che sviluppò anche le prime tecniche di gestione del personale: Scrive Francesco Bonini: «Nelle prove concorsuali continua a prevalere la richiesta di un’ampia cultura generale, con attenzione anche alla conoscenza delle lingue. Nello spazio di poco meno di un decennio, tra la metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta si compie la stagione della “scienza dell’amministrazione” come tentativo di definire una disciplina autonoma, pensata come funzionale al processo di sviluppo dell’ammini­stra­zione e dunque dello Stato. Studiosi di formazione giuridica, come Carlo Francesco Ferraris [(1850-1924)], si pongono il problema di allargare gli orizzonti e disegnare una scienza dell’amministrativa come scienza generale dello Stato e della società».

 

(e) Un’amministrazione centrale «leggera» ed efficiente

 

I numeri dell’amministrazione centrale, ancora nel 1877 — quindi dopo diversi anni dal trasferimento della capitale a Roma —, sono più contenuti, 3.211 unità, che nell’insieme degli Stati preunitari dove assommavano a 3.245.

Per quanto riguarda invece gli impiegati pubblici nel complesso, al 31 dicembre 1877, gli organici dell’amministrazione del Regno d’Italia sono di 67.505 impiegati contro i 44.109 di tutte le amministrazioni preunitarie. L’amministrazione dell’unificazione — e della seconda unificazione — presenta quindi organici contenuti, «[…] sostanzialmente inferiori, evidentemente in termini percentuali comparati, non solo a quelli della Francia (che resta il Paese più amministrato), ma anche ad esempio del Belgio. La qualità della documentazione prodotta da questa burocrazia dei piccoli numeri, che oggi diventa fonte non solo e non tanto di storia amministrativa, ma della storia generale dell’Italia unita, resta di prim’ordine, offrendo un contributo essenziale all’unifi-cazione».

  

30. Conclusione: la ricchezza che residua è la «nazionalità spontanea»

 

L’Italia, dopo l’Unità, ha patito un violento attacco al suo ethos da parte di forze intenzionate a costruire un potere culturale e tendenzialmente «religioso», da contrapporre all’autorità spirituale, da sempre incarnata dalla Chiesa cattolica, e alla tradizione civile degl’italiani. Queste forze, però, benché dotate di tutti i mezzi propagandistici e pedagogici dello Stato moderno e sulla distanza di ormai quasi un secolo e mezzo, non sono ancora riuscite a realizzare il loro proposito, pur determinando un esito che si può definire quanto meno «confusionale». Oggi residua quella senso di «nazionalità spontanea», di cui ho fatto cenno e che — in una fase caratterizzata da un abbassamento del rilievo del momento territoriale, e in cui il rapporto fra uomo e uomo è destinato a diventare di nuovo primario — necessita di essere «rivestita» politicamente in modo nuovo e adeguato. Il superamento dello Stato burocratico e accentratore non implica soltanto la demistificazione dell’idea di nazione affermatasi negli ultimi due secoli, ma anche la rinascita, o il rinvigorimento, delle forme di nazionalità spontanee che lo Stato nazionale moderno soffoca o riduce a strumenti ideologici al servizio del potere politico, e quindi, bisogna auspicare il ritorno di quegli autentici valori comunitari di cui l’ideologia nazionale si è appropriata trasformandoli in sentimenti gregari.

Del resto le contraddizioni e anomalie insite nel recente dibattito sul federalismo confermano «[…] che in causa non è solo “la forma di organizzazione” del Paese, bensì la “forma di unità”» . Perciò, senza indulgere a nostalgie fuori luogo, da parte di chi, a livello culturale, ha un ruolo, anche se non immediatamente visibile, come può essere quello di un insegnante o di un saggista, occorrerà prima di tutto conoscere la storia di tutti gli italiani. Solo così, infatti, sarà possibile porre le premesse di quella riconciliazione nazionale, di cui, a partire dal secondo dopoguerra, si va ancora in cerca.

Facendo ciò ci si potrà rivolgere anche alla lezione di quei «vinti» del Risorgimento che, pur essendo passati tanti anni, non cessano di essere i contemporanei di chi non si accontenta del conformismo e dell’incultura dominante nella nostra sradicata e sradicante società consumistica e di massa. Così scriveva — e sarebbe bene far nostre oggi le sue parole — il conte Solaro della Margarita a proposito dell’antico regime: «Serve la patria chi pacatamente descrive i fatti di una epoca, al dir d’ogni gente, per noi gloriosa, non adoperando ingiurie contro chi ne malmena i fasti, non attizzando gli odii, ma tentando preservar gli incauti dalle funeste aberrazioni di chi contamina il nome di libertà, ed è capital nemico di ogni forma di civil governo» .

 
 
 
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