Creato da: LaChambreDesAmis il 15/07/2006
Riflessioni sull'amicizia e l'amore... e non più solo

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« Un pianto dirottoUna lettera stracciata »

Un brusco commiato

Post n°21 pubblicato il 07 Novembre 2006 da LaChambreDesAmis

Al termine dei lavori, decisi d’attendere che la signora xxxxxxx congedasse la gran parte dei relatori e degli altri ospiti, prima d’avvicinarla anch’io per chiederle ciò di cui avessi bisogno: nel frattempo, continuai ad osservarti cercando di fare in modo che ciò non sembrasse, per quanto desiderassi che fossi soprattutto tu a non accorgertene.

E’ molto difficile provare a spiegare quante e quali emozioni mi suscitassi, dunque, quanto mi sentissi turbato in quei momenti, tuttavia, posso affermare su qualsiasi altra, prevalesse la sensazione di non appartenere in alcun modo alla tua vita: agli inizi della mattinata, prima che cominciassero i lavori, avevi trovato qualche minuto da dedicarmi, ma in quei momenti, semplicemente sembrava ch’io non esistessi, che non fossi presente nella stessa sala, quasi che fossi un fantasma che non potesse in alcun modo attirare l’attenzione altrui.

Mi rendo conto, però, che anche qualche ora prima mi trattasti in maniera molto diversa, rispetto al nostro precedente incontro Venerdì pomeriggio, quando, entrando in sala, sembrava che mi cercassi tra la folla e fossi felice nel vedermi seduto molto vicino al palco: ti confesso, nei giorni seguenti, qualche volta, abbia avuto l’impressione che mi fissassi ed abbozzassi un sorriso, ch’io solo avrei potuto cogliere, ma ho anche presente quanto fossi innamorato di te all’epoca e la misura in cui potessi travisare degli atteggiamenti probabilmente casuali e dei segnali altrimenti insignificanti.

Fatto sta, che quella prima sera, mi chiedesti di tenerti un po’ compagnia mentre fumassi e non sarei sincero, se non ammettessi mi sentissi un po’ in imbarazzo, ma fossi anche felicissimo del fatto stesse rinnovandosi il piacere d’una chiacchierata, mai banale o noiosa, con te: ricordo anche che non volli rientrare a prendere il cappotto, che avevo lasciato incustodito su un divano della hall, per non privarmi nemmeno un istante della gioia suscitatami dalla tua presenza, e quasi avessi paura di poter riuscire e scoprire t’avessi sognato ad occhi aperti, malgrado battessi i denti per il freddo e cercassi di mascherarlo accuratamente.

Mi chiedo cosa sarebbe accaduto se ci fossimo trovati al riparo da occhi indiscreti nel tuo antro: forse, avrei avuto meno cura di mascherare i brividi di freddo, mentre tu, regalandomi un nuovo sorriso, che m’avrebbe commosso fino alle lacrime, m’avresti chiesto di potermi scaldare tra le tue braccia, approfittando d’un inconveniente per concederti qualcosa di cui avessi voglia.

Sapessi che voglia abbia ancora io di poter posare dolcemente il mio capo sul tuo petto!

Quella prima sera sembravi intimidito, quasi che ti rendessi conto quanto dolore dovesse avermi procurato il tuo improvviso allontanamento estivo e della necessità di porvi rimedio: purtroppo, gli uomini che io ami si rivelano invariabilmente in grado di trascurare i propri propositi riparativi, senza che il rimorso li assalga e tu non costituisti l’eccezione che avrebbe potuto ridarmi un po’ di fiducia nel mio genere.

Ad ogni modo, la giornata peggiore fu, per l’appunto, quella prima Domenica dicembrina, allorché decisi di verificare se ti saresti spinto fino al punto d’andar via senza nemmeno degnarmi d’un saluto.

Continuavo ad osservarti e non saprei bene dire se crescesse maggiormente l’odio che provassi nei tuoi o nei miei riguardi, benché, in quei momenti, avessi l’impressione di provare pietà per me stesso e lo stato in cui versassi: contavo quante persone presenti in sala dovessi ancora salutare e, nonostante il numero si riducesse progressivamente, non aumentavano le speranze che potesse giungere il mio turno, anzi, dovevo ripromettermi che sarei stato in grado di respingere le lacrime, non appena avessero tentato di rivelare quanto stessi male in quei momenti.

Ti odiai quanto riesca ad odiarti ogniqualvolta ti veda affaccendato nell’elargizione di saluti e complimenti tutt’attorno e mi venga da pensare alla tua ipocrisia, al fatto siano davvero pochi coloro che ritenga alla tua altezza e debba trattarsi d’affettazione, mero bisogno di non scontentare coloro che ti servano per alimentare incessantemente il tuo prestigio sociale ed il tuo ego tronfio.

Esattamente come previsto, il giro terminò prima che giungesse il mio turno ed a me non restò che volgermi un’ultima volta verso l’uscita della sala per osservarti di schiena, mentre mi sembrasse che i fili invisibili che c’avessero uniti fino a quel momento si spezzassero bruscamente uno dopo l’altro, come avveniva allorché le navi abbandonassero i porti, ed a bordo e sul pontile ci fossero persone liete del viaggio appena intrapreso, ma anche tante altre che sperimentassero la dolorosità degli addii.

Ancora oggi, mi chiedo come sia potuto riuscirmi di reggermi in piedi in quei momenti, cosa possa aver tenuto insieme i mille pezzi in cui mi sembrava andasse scomponendosi la mia anima e che potessero lacerare il corpo: ciò che so, è che stessi sforzandomi di sopravvivere a quell’immane dolore ed alla tua cattiveria, che se avessi potuto tramutare in un fluido venefico e nauseabondo, avrebbe annerito la splendida distesa d’acqua marina che ancora potessi fissare per trarne un senso di pace e rassicurazione, quasi che si trattasse della prova, fuori, la vita continuasse a scorrere e non dovessi avvilirmi del gelo che sembrava fosse calato in quella stanza e nel mio cuore.

Attesi all’incirca mezz’ora prima di ridiscendere a mia volta e tu stavi ancora chiacchierando con la biondina con la quale t’avevo visto andar via, vicino l’entrata principale dell’hotel: a quel punto, accadde una cosa insolita, poiché, mentre scendevo le scale, non potendo ignorarti, e poiché, se solo avessi provato a dire qualunque cosa sarei scoppiato in lacrime, ti salutai con un cenno della mano, cui ha rispondesti, con voce squillante quanto suadente, "ciao, R……", quasi scandendo le parole.

Non m'avevi m'hai chiamato per nome, almeno non salutandomi, ma, soprattutto, non seppi trattenermi dal risponderti, benché silenziosamente, "addio, G........"... poi passai oltre, presentendo tutte le lacrime che avrei versato quel giorno, avendo come l'impressione che stessero strappandomi il cuore, nel contempo, sentendomi, per la prima volta dopo mesi, straordinariamente... leggero, ecco sì, come se finalmente avessi riaffermato la mia individualità rispetto ad un uomo che mi sembrava avesse solo condotto un esperimento sulla mia pelle, senza nemmeno portarlo a termine.

Feci in modo di mantenere il controllo dei miei movimenti, poiché avevo l’impressione di camminare come debbano fare gli astronauti sulla superficie lunare, esibendo una falcata incerta, innaturale, per alcuni versi, ridicola; alcuni istanti, invece, avevo la sensazione che le gambe divenissero incredibilmente pesanti e dovesse costarmi una fatica inumana muovere un passo dopo l’altro, quanto meno per evitare di rimanere fermo in quel punto, esposto ai tuoi sguardi ed alla tua compassione o derisione, non riuscendo a stabilire cosa avrei tollerato meno.

Non appena mi fui allontanato un pochino, chiamai una delle mie amiche più sincere e devote, la quale, fortunatamente, quel giorno era in città ed anzi, avrei dovuto incontrare qualche ora più tardi per cenare insieme: le descrissi quali emozioni mi tenessero in ostaggio in quei momenti, ma, nel complesso, riuscii a sorridere ed a sembrarle molto più di calmo di quanto non fossi tornato ad essere.

Il peggio venne quando giunsi a casa, poiché, non dovendo più temere che qualcuno mi giudicasse male, esplosi in un pianto dirotto, che lasciò subito intendere a mio padre dovesse essere accaduto qualcosa di molto grave e fosse utopistico che mi riavessi per l’ora di pranzo; effettivamente, preferii ritirarmi nella mia camera, sebbene dover tenere la porta chiusa e smorzare i singhiozzi mi facesse sentire come un animale che fosse stato crudelmente recluso in uno spazio angusto, che dovesse presto cadere al suolo tramortito.

Nella mia mente, passavo in rassegna l’intera agenda telefonica, per cercare di stabilire chi potessi immediatamente chiamare e costringere ad una lunga sessione consolatoria, malgrado la giornata festiva e l’orario m’inducessero a non tralasciare una condotta decorosa ed educata: fortunatamente, mi riuscì almeno questo, del resto, l’unico che avrei dovuto immediatamente ricontattare, perché si rendesse conto d’essere un bastardo eri tu, che, presumo, avessi già libato abbondantemente, invece, ed a quell’ora fossi a poltrire sotto le coperte.

Non sono mai stato irragionevole, non t’ho mai chiesto di promettermi nulla che non dovessi desiderare o poter mantenere, quindi, quel giorno, avrei potuto accettare di buon grado che ci salutassimo in maniera cordiale, ma sobria; sapevo tu non m’amassi e, quand’anche ciò fosse stato vero, che mai e poi mai avresti compiuto alcuna azione che servisse a consolare o gratificare me, piuttosto che consentirti di salvare le apparenze, del resto, in questo modo avrebbe potuto esprimersi un amante ed io non mi consideravo il tuo: ciò che avrei voluto rappresentasse soltanto un timore dettato dalla mia insicurezza, era la tua cecità al mio dolore, allo strazio che avresti, ed hai provocato dileguandoti in silenzio, ignorando che, qualche giorno più tardi, t’avrei ugualmente augurato buon Natale inutilmente, cullando il tuo nome e la tua immagine austera e possente nei miei pensieri, sapendoti affezionato a chiunque altro, fuorché a me.

Potevo tollerare che non m’amasse l’uomo, ma fu tragico doversi arrendere all’idea non mi volesse bene neppure l’amico, od almeno, non fino al punto di convincersi che avrei saputo amarlo senza esigere null’altro in cambio che rispetto per i miei sentimenti.

 

 
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