Creato da giovannaferrari_1988 il 06/10/2014
 

La Scienza

La Scienza, questa sconosciuta

 

 

La scoperta di otto galassie nane apre nuovi scenari sulla materia oscura

Post n°14 pubblicato il 19 Marzo 2015 da giovannaferrari_1988

 

La scoperta di otto galassie nane apre nuovi scenari sulla materia oscura

 

Le galassie nane, ad oggi le più piccole galassie conosciute, potrebbero rappresentare la chiave per comprendere la materia oscura e il processo con cui si formano galassie di dimensioni maggiori. Si ritiene, infatti, che le galassie nane siano composte da una quantità di materia oscura di gran lunga maggiore rispetto al loro contenuto di materia stellare, visibile. Inoltre, gli scienziati si aspettano che la presenza considerevole di materia oscura, composta da particelle che annichilano nell'urto le une con le altre, sia associata a una intensa emissione di raggi gamma, di fotoni, generati nei processi di annichilazione. Non ospitando altre fonti di raggi gamma, le galassie nane sarebbero quindi laboratori ideali per la ricerca di segnali di materia oscura.

Un'eventuale rivelazione di raggi gamma emessi da queste galassie nane costituirebbe un'evidenza convincente della presenza di processi di annichilazione in atto al loro interno, e una chiara evidenza di segnali di materia oscura. Appare quindi molto rilevante che, contestualmente alla scoperta delle otto nuove candidate nel primo anno di dati di DES, la collaborazione Fermi-LAT (Large Area Telescope, il telescopio spaziale per raggi gamma, in orbita dal 2008) abbia reso pubblici oggi due lavori distinti sulla ricerca di emissione gamma da galassie nane sferoidali: un'analisi combinata di quindici oggetti noti in precedenza e una focalizzata sugli otto appena scoperti. Entrambe utilizzano sei anni di dati forniti dal rivelatore LAT del satellite Fermi. Anche se non vi è evidenza di emissione gamma da nessuno di questi oggetti, i limiti sui processi di annichilazione che ne derivano sono oggi più stringenti.

DES è un programma di ricerca quinquennale che ha come obiettivo primario lo studio d'indizi sulla natura dell'energia oscura, che costituisce circa il 70% dell'universo e che potrebbe spiegarne l'accelerazione. L'interesse per questo risultato, che pone nuovi limiti alla materia oscura (circa il 25% dell'universo) va quindi oltre gli obiettivi di ricerca cosmologica dell'esperimento. I risultati che hanno portato a questa scoperta sono il prodotto del primo anno di attività. Le galassie nane che DES scoprirà da qui al prossimo futuro saranno fondamentali per la ricerca di materia oscura e per la verifica dei modelli che oggi ne descrivono la natura.

 

 

 
 
 

Quelle strane stelle che pulsano al ritmo della sezione aurea

Post n°13 pubblicato il 05 Marzo 2015 da giovannaferrari_1988

La sezione aurea si può ritrovare nella conchiglia del nautilus, nel Partenone, nei dipinti di Leonardo e ora anche nelle stelle. Un nuovo studio condotto con il telescopio spaziale Kepler ha, infatti, scoperto quattro stelle variabili che pulsano a frequenze il cui rapporto è vicino al numero irrazionale 0,61803398875..., indicato anche con la lettera greca phi, o sezione aurea, o ancora come inverso del numero 1,61803398875....

La sezione aurea non era comparsa nelle sfere celesti finché l'astronomo John Linder del College of Wooster, in Ohio, e colleghi non hanno analizzato i dati di Kepler. I ricercatori hanno considerato una classe di stelle chiamate RR Lyrae, note per la loro variabilità. A differenza del Sole, che brilla con intensità costante (una buona cosa per la vita sulla Terra!), queste stelle aumentano e diminuiscono la loro luce seguendo l'espansione e la contrazione della loro atmosfera, dovute a variazioni periodiche di pressione.

Ogni stella pulsa con una frequenza primaria propria e mostra anche fluttuazioni di luminosità più piccole, caratterizzate da una frequenza secondaria. "I rapporti tra queste due frequenze sono molto importanti", ha spiegato l'astronomo Róbert Szabó dell'Osservatorio Konkoly, in Ungheria, che non era coinvolto nello studio, "poiché dipendono dalla struttura interna delle stelle: se una stella mostra molti 'modi' di oscillazione, l'osservazione delle frequenze fornisce limiti molto stringenti ai modelli stellari".

Per quattro delle sei stelle RR Lyrae analizzate dai ricercatori, il rapporto tra le frequenze primarie e secondarie era vicino al valore aureo, per esempio entro un 2 per cento del suo valore nel caso della stella KIC 5520878.

La sezione aurea affascina matematici, scienziati e artisti fin dai tempi di Pitagora ed Euclide, anche se è ancora da stabilire se sia effettivamente presente in tutti i luoghi in cui è stata trovata.

"La sezione aurea ha una lunga storia in diverse discipline, dalla fisica dei cristalli alle arti visive", commenta l'astrofisico Mario Livio, dello Space Telescope Science Institute di Baltimora, che nel 2002 ha scritto La sezione aurea. Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni (Biblioteca Universale Rizzoli, 2012).

Due numeri formano una coppia aurea se il loro rapporto è pari al rapporto tra la loro somma e il maggiore dei due (in termini geometrici, si tratta di un rettangolo in cui il lato lungo sta al lato corto come il semiperimetro sta al lato lungo).

"La sezione aurea è speciale perché in un certo senso è il più irrazionale dei numeri irrazionali", spiega Livio. Alcuni numeri irrazionali sono facili da approssimare usando numeri razionali, altri meno.

La connessione tra la sezione aurea e queste stelle variabili potrebbe avere un significato oppure essere una semplice coincidenza. "Molte affermazioni su fenomeni naturali e sezione aurea sono esagerate", afferma il matematico e informatico George Markowsky. "Mi rifiuto di accettare un valore 'vicino' alla sezione aurea qualora se ne discosta per più del 2 per cento. Dopo tutto, intorno a un numero reale esiste un'infinità di altri numeri reali. Non mi sembra che qualcuno scriva articoli sulle proprietà mistiche di 0,6 (che è molto vicino a 0,618....)."

L'astronomo Szabó, che guida il gruppo di lavoro che studia i dati di Kepler sulle stelle RR Lyrae, spiega di non essere ancora convinto che la vicinanza alla sezione aurea in questo caso sia una coincidenza, e che la caratterizzazione delle frequenze di oscillazione delle stelle è importante. "Questo articolo è un contributo significativo su questo tema", dice Szabó.

Anche se il campione di questo studio era molto limitato, i ricercatori hanno notato una caratteristica interessante nelle quattro stelle con rapporti di frequenze prossimi alla sezione aurea. Queste stelle, infatti, mostrano tutte un comportamento frattale, hanno cioè uno schema che si ripete sempre uguale a ogni scala dimensionale, mentre nel caso delle stelle senza sezione aurea questo schema non si presenta. "Ciò porta a ipotizzare che possa trattarsi di una correlazione, ma per dirlo occorrono più dati", aggiunge Linder.

Un esempio di frattale è una linea di costa frastagliata, che rivela sempre nuove insenature via via che s'ingrandisce l'immagine, da qualunque punto di vista si parta. "La stessa cosa vale con le frequenze di queste stelle: se ne rilevano sempre di nuove", sottolinea Linder.

Le stelle auree in realtà sono i primi casi di sistemi, al di fuori del laboratorio, in cui si manifesta una "dinamica non caotica strana". L'aggettivo "strano" qui si riferisce allo schema frattale, e "non caotico" significa che lo schema è ordinato e non casuale. La maggior parte degli schemi frattali in natura, come il tempo meteorologico, è di tipo caotico; perciò questa caratteristica delle stelle variabili è una sorpresa.

"Se si cerca nella letteratura, si trovano molti esempi di comportamento caotico strano", ha spiegato Linder. "Ritengo che il nostro articolo stia portando in primo piano questo tipo di dinamica finora ignorata". Se lo stesso schema fosse rilevato in diverse stelle con frequenze caratterizzate dalla sezione aurea, ciò potrebbe portare gli astronomi a comprendere e prevedere meglio la fisica delle pulsazioni stellari. "In termini dinamici", conclude Livio, "è molto interessante comprendere perché i sistemi sarebbero attratti da questo rapporto".

 

 

 
 
 

L'influenza della temperatura sulle strisce delle zebre

Post n°11 pubblicato il 24 Febbraio 2015 da giovannaferrari_1988
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E' la temperatura ambientale a determinare lo "stile" delle strisce del mantello delle zebre. A scoprirlo è un gruppo di ricercatori dell'Università della California a Los Angeles.

Il singolare disegno del mantello delle zebre ha sempre suscitato la curiosità dei biologi evoluzionisti che hanno proposto svariate ipotesi per spiegarle. Fra le più recenti e accreditate vi è quella che l'alternarsi di righe bianche e nere (che polarizzano la luce in modo diverso) crei un effetto ottico che le rende meno identificabili da mosche cavalline e tafani, che possono portare pericolose parassitosi. Non tutti gli scienziati però sono convinti che questa sia la spiegazione definitiva, soprattutto perché non dà conto delle notevoli variazioni nell'intensità e nella distribuzione delle strisce che si riscontra nelle popolazioni di zebre delle diverse regioni.

In alcune zone, infatti, le zebre - il cui areale si estende dall'Etiopia meridionale fino al Sud Africa - hanno strisce fortemente marcate e spesse su tutto il corpo, mentre altrove sono più deboli e sottili e quasi o del tutto assenti sulle zampe.

Brenda Larison e colleghi, che propendono per un'origine multifattoriale delle strisce, hanno quindi preso in esame 29 possibili fattori ambientali - fra cui il tipo e la densità della copertura vegetale, la densità di predatori e parassiti, le temperature medie e le variazioni stagionali, la piovosità, e così via - per vedere se vi fosse una correlazione con le differenze nei disegni del mantello delle zebre.

Dall'analisi dei dati è apparsa significativa l'associazione fra la temperatura e l'intensità ed estensione delle strisce: quanto più basse sono le temperature tanto più deboli, sottili e meno estese sul corpo sono le strisce.

I ricercatori avanzano anche un'ipotesi che può spiegare questa correlazione: grazie alla differente riflessione della luce, le aree bianche e quelle nere del mantello scaldano l'aria soprastante in modo diverso. Questo provoca piccoli vortici d'aria che permettono un raffreddamento dell'animale più o meno efficiente a seconda dell'intensità del contrasto e dell'estensione delle bande.

 

 

 
 
 

Un nuovo modello geologico per la dinamica "veloce" delle placche

Post n°10 pubblicato il 16 Febbraio 2015 da giovannaferrari_1988
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Per quale motivo una placca, che normalmente è caratterizzata da movimenti tettonici che richiedono centinaia di milioni di anni, a volte invece può muoversi in modo brusco e (relativamente) veloce, con fenomeni che si svolgono in pochi milioni di anni?

Un nuovo studio effettuato da David Bercovici della Yale University e colleghi dell'Università della California a Los Angeles e dell'Università di Lione, in Francia, sembra dare una risposta all'interrogativo, rimasto finora uno dei più grandi enigmi della geologia.

Nella teoria della tettonica delle placche, le zone di subduzione sono delineate dalle fosse oceaniche del pianeta, dove gli strati più freddi e più pesanti della litosfera affondano nelle profondità del mantello. In virtù di questo processo, s'ipotizza che le placche siano attirate verso le zone di subduzione secondo un processo noto come slab pull (trascinamento dello slab, la porzione della placca direttamente interessata dalle forze di subduzione).

Diversi studi hanno però evidenziato che le forze in gioco nelle zone di subduzione non sono sufficienti di per sé a muovere le placche in modo continuo: in sostanza, le forze di subduzione dovrebbero rompere la litosfera che trascinano, in corrispondenza degli slab, producendo un cambiamento nella dinamica di subduzione.

A innescare la frattura degli slab sono probabilmente le tensioni prodotte dall'arrivo nella zona di subduzione di una crosta più spessa associata alla placca inferiore, che impedirebbe la subduzione stessa, producendo un "effetto tappo". L'improvvisa variazione della dinamica di subduzione dovuta alla rottura di uno slab sarebbe all'origine di movimenti repentini - sempre in termini geologici - della placca superiore: il distacco degli slab, per esempio, è il fenomeno che secondo alcuni studi teorici avrebbe sollevato le Alpi e gli Appennini.

I rapidi movimenti della placca, richiedono tuttavia una rottura dello slab a sua volta molto veloce, e ciò richiede che esso sia molto più freddo e rigido di quanto non lo sia in realtà.

Secondo il nuovo modello di Bercovici e colleghi, il distacco è accelerato da un processo complesso in cui ha un ruolo determinante la diminuzione delle dimensioni dei minerali contenuti nello slab sottoposto alla tensione della subduzione, che perderebbe resistenza.

 

 

 
 
 

La prima misura diretta della curvatura del campo gravitazionale

Post n°9 pubblicato il 20 Gennaio 2015 da giovannaferrari_1988
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I mattoni con cui è costruito l'edificio della teoria della relatività generale sono ora noti con una precisione senza precedenti grazie a una serie di esperimenti finalizzati nell'anno che si è appena chiuso da Guglielmo Tino e colleghi del Laboratorio Europeo di Spettroscopia non Lineare (LENS) dell'Università di Firenze e dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN).
L'ultimo risultato in ordine di tempo è la prima misurazione diretta della curvatura del campo gravitazionale prodotta da masse vicine.

"In termini più precisi abbiamo misurato per la prima volta la derivata seconda, cioè la variazione del gradiente, del campo gravitazionale rispetto alla posizione, che corrisponde alla curvatura: questa quantità fisica è sensibile alla presenza di masse vicine", ha spiegato Tino. "Il 2014 è stato un anno particolarmente proficuo per il nostro gruppo che, avendo sviluppato dei nuovi sensori quantistici atomici, ha misurato dapprima il valore della costante di gravitazione universale G con una precisione senza precedenti, poi verificato il principio di equivalenza, cioè l'uguaglianza tra la massa inerziale e la massa gravitazionale, e infine rivelato la curvatura del campo gravitazionale: si tratta essenzialmente di misure di precisione che verificano la nostra conoscenza della fisica della gravitazione, e quindi sostanzialmente della relatività generale, che attualmente è la teoria che descrive  meglio l'interazione gravitazionale".

In quest'ultimo esperimento, l'apparato sperimentale era sostanzialmente un'evoluzione dell'apparato MAGIA, utilizzato nella misurazione di G. In esso, nuvole di atomi di rubidio ultrafreddi, cioè raffreddati alla temperatura di pochi milionesimi di grado sopra lo zero assoluto utilizzando luce laser, vengono lanciate verso l'alto nel vuoto all'interno di una "fontana atomica". In cima a quest'ultima, è posta una massa di tungsteno di circa 500 chilogrammi, che ha la funzione di "massa sorgente", che produce la curvatura cercata.

Grazie alla tecnica d'interferometria atomica, in modo analogo a quanto si fa con le tecniche interferometriche ottiche, si può rilevare l'interferenza tra due onde di materia di un atomo, precedentemente separate tra loro da impulsi laser. La presenza del campo gravitazionale modifica il segnale di interferenza atomica.

"Con l'apparato MAGIA è possibile misurare l'accelerazione degli atomi durante la caduta nel vuoto: la differenza rispetto al passato consiste nel fatto che in questo caso abbiamo lanciato tre nuvole invece di due", ha continuato Tino. "Così abbiamo potuto misurare simultaneamente l'accelerazione dei loro atomi: sottraendone a due a due i valori si elimina il contributo di g, cioè dell'accelerazione di gravità, che è uguale per tutti, trovando il contributo della sua derivata prima, cioè del gradiente, mentre sottraendo tra loro le tre differenze si elimina anche l'effetto del gradiente, evidenziando così il contributo della derivata seconda, cioè del gradiente del gradiente, legata alla curvatura". Il risultato dimostra ancora una volta come questi nuovi sensori quantistici atomici consentano di misurare con estrema precisione i parametri fondamentali della gravitazione, e Tino e il suo gruppo hanno già in mente ulteriori sviluppi su questa linea di ricerca.

"Uno dei possibili esperimenti che ho proposto da tempo è la verifica della dipendenza dall'inverso del quadrato della distanza della legge di gravitazione di Newton, che è una legge fondamentale della fisica classica: con gli stessi strumenti di base, cioè atomi ultrafreddi e interferometria atomica, si potrebbe verificare se vale in modo rigoroso a piccole distanze o se ci sono delle deviazioni, o spingere ancora oltre la verifica del principio di equivalenza; stiamo anche studiando la possibilità di rivelare le onde gravitazionali con interferometri atomici a terra o nello spazio", ha aggiunto Tino. "Da non sottovalutare inoltre che con i nostri esperimenti stiamo testando il campo gravitazionale con misurazioni quantistiche: potrebbero emergere utili indicazioni sul rapporto tra la fisica quantistica e la relatività generale, due teorie che notoriamente risultano impossibili da mettere insieme".

Ma s'intravedono anche possibili applicazioni pratiche dei nuovi risultati.

 

 

 
 
 

Marte, l'acqua antica, l'idrogeno delle profondità e la vita

Post n°8 pubblicato il 06 Gennaio 2015 da giovannaferrari_1988
Foto di giovannaferrari_1988

L'eccitazione per il recente annuncio che il rover Curiosity ha rilevato un "picco" di metano atmosferico localizzato - e durato per un paio di mesi - è perfettamente giustificata. È, infatti, possibile che si tratti di un autentico indizio di vita passata o presente su Marte. O meglio, di vita all'interno di Marte.

La grande maggioranza di metano che troviamo sulla Terra (sia in aria sia in giacimenti sotterranei) è di origine biologica, chiaramente indicata dalla preferenza dei sistemi biologici per gli isotopi leggeri, per esempio per il carbonio-12 rispetto al carbonio-13. Questo metano è prodotto per metanogenesi, un processo metabolico che sembra essere limitato ai membri del dominio di organismi unicellulari chiamato Archaea.

C'è più di una via chimica per la produzione del metano, ma il più ovvio è la combinazione di anidride carbonica con idrogeno molecolare, ed è proprio questa la reazione sfruttata da un gran numero di Archea metanogeni. L'idrogeno molecolare è una potente fonte di energia chimica, e anche altri organismi, come i batteri solforiduttori, lo utilizzano. Ma dove trovano l'idrogeno?

Una fonte è la compresenza di roccia e acqua. La radioattività che proviene dalle rocce che contengono uranio può scindere le molecole di acqua (processo di radiolisi), e il successivo processo geochimico di serpentinizzazione [processo geologico che in presenza di calore e acqua altera e trasforma alcuni tipi di rocce] crea in abbondanza anche idrogeno molecolare. I sistemi idrotermali attivi sui fondali oceanici, le cosiddette fumarole nere, sono un ambiente in cui l'idrogeno viene costantemente prodotto, e dove gli organismi metanogeni prosperano.

E per quanto riguarda le profondità dei continenti, le parti più antiche della litosfera?

Le recenti scoperte in miniere sudafricane e canadesi di sacche isolate di acqua fortemente salina a straordinarie profondità - fra 1 e 2 chilometri - hanno rivelato che questi bacini hanno un'età che va dalle decine di milioni ai miliardi di anni; il record attuale è di un bacino formatosi tra 1,5 e 2,6 miliardi di anni fa.

Luoghi come questi sono, in termini relativi, ricchi di energia chimica che la vita può sfruttare, e lo fa. Ma estrapolare da un produzione locale di idrogeno molecolare in quei bacini una produzione planetaria non era certo qualcosa per cui esaltarsi.

 Un nuovo studio condotto da Lollar, Onstott, Lacrampe-Couloumé, e Ballentine, suggerisce che le zone continentali profonde (cinque chilometri) potrebbero effettivamente essere un'importante fonte di idrogeno. In particolare, la parte più antica del sottosuolo continentale risalente al Precambriano (roccia di età superiore ai 540 milioni di anni circa), potrebbe generare l'idrogeno molecolare a una velocità dalle 40 alle 250 volte maggiore di quanto si pensasse: si tratta di una produzione pari a quella associata alla litosfera marina, che è molto più giovane. Questo materiale precambriano è presente nel 70 per cento circa della superficie continentale della Terra, e potrebbe contenere più acqua di tutti i fiumi, paludi e laghi presenti in superficie.

La conclusione è che la produzione mondiale d'idrogeno molecolare va rivista al rialzo e - punto critico - almeno la metà di essa proviene dall'antico e profondo sottosuolo continentale, che non appare arido e inerte ma decisamente vitale.

 Il collegamento fra queste scoperte e il metano su Marte è forse, oggi, una forzatura. Ma non è irragionevole supporre che l'antico sottosuolo marziano possa somigliare all'ambiente terrestre sotterraneo di origine precambriana, dove acque indisturbate si estendono in profonde fratture, e c'è un'autentica produzione d'idrogeno molecolare.

Se vita c'è stata o c'è, deve sicuramente aver sfruttato una fonte di energia di questo tipo, e i suoi prodotti potrebbero aver trovato la strada fino alla superficie.

Se il tempo, le riserve di energia e la fortuna consentiranno a Curiosity di trovare e analizzare un altro picco di metano e i suoi rapporti isotopici, potremmo fare una valutazione critica della sua eventuale origine biochimica, disponendo di una pronta spiegazione grazie alle profondità del nostro pianeta.

Su una scala molto più grande, è importante anche l'idea di una "abitabilità" puramente geofisica di esopianeti lontani, di biosfere controllate unicamente dal funzionamento interno di un mondo senza vita di superficie. Può essere un atto di estrema presunzione pensare che la biosfera visibile all'esterno della Terra sia un modello per la maggior parte della vita nell'universo.

Riuscire a immaginare quali possano essere le "firme" identificabili di una vita cavernicola che proviene dal profondo potrebbe indurci a prendere in considerazione mondi che altrimenti saremmo portati a ignorare. E lo stesso si dica per una migliore comprensione della generazione dell'idrogeno molecolare nella crosta planetaria, dove gli ingredienti originali di un mondo - dalla miscela di elementi alla disponibilità di nuclei radioattivi - sono ancor più legati ai ritmi cosmici della vita e della morte delle stelle.

Le tracce di metano su Marte e l'idrogeno delle profondità della Terra possono sembrare indizi tenui e indiretti, ma le loro implicazioni potrebbero essere enormi.

 

 

 
 
 

Dalla bistecca all'ischemia, la colpa è della flora intestinale

Post n°7 pubblicato il 19 Dicembre 2014 da giovannaferrari_1988
Foto di giovannaferrari_1988

 

L'abbondante consumo di carne rossa può minacciare la salute: studi epidemiologici hanno mostrato in particolare che espone al rischio di malattie cardiovascolari. Un nuovo studio pubblicato sulla rivista "Cell Metabolism" a firma di Stanley Hazen, della Cleveland Clinic, di Cleveland, in Ohio, e colleghi chiarisce ora il meccanismo fisiologico alla base di questa correlazione, che coinvolge la L-carnitina, una proteina abbondante nella carne rossa, e la flora batterica intestinale.

 

In una precedente ricerca, Hazen e colleghi avevano chiarito il legame tra carne rossa e aterosclerosi, il processo d'indurimento delle arterie che può determinare un ridotto afflusso di sangue in diversi tessuti e nei casi più gravi un'ischemia. L'aterosclerosi è, infatti, promossa da un composto chimico denominato trimetilamina-N-ossido (TMAO), che viene sintetizzato da un precursore, la trimetilamina. Quest'ultima è prodotta dai batteri dell'intestino a partire dalla L-carnitina, una proteina contenuta in grandi quantità nella carne rossa.

 

In questo nuovo studio, condotto su topi, Hazen e colleghi hanno identificato un altro metabolita, la gamma-butirrobetaina, che viene prodotta in quantità ancora maggiori dalla flora batterica a partire dalla L-carnitina, e contribuisce anch'essa all'aterosclerosi.

 

Gli autori hanno scoperto in particolare che la gamma-butirrobetaina è prodotta dai batteri come metabolita intermedio a un tasso mille volte più elevato rispetto alla trimetilamina: si tratta quindi del metabolita più abbondante generato nell'intestino a partire dalla L-carnitina introdotta nell'organismo con la dieta. Inoltre, la gamma-butirrobetaina può essere convertita anch'essa in trimetilalamina e TMAO. Si tratta quindi di una sostanza notevolmente più pericolosa per la salute cardiovascolare.

 

Lo studio ha mostrato un altro dato interessante: i batteri che producono la gamma-butirrobetaina a partire dalla L-carnitina sono diversi da quelli che producono la trimetilamina. L'esistenza di un nuovo cammino biochimico di trasformazione della proteina ha conseguenze importanti perché potrebbe essere sfruttato come nuovo bersaglio terapeutico per la prevenzione dell'aterosclerosi. Una possibile via potrebbe prevedere per esempio l'inibizione di diversi enzimi batterici o il cambiamento della composizione della flora batterica intestinale con probiotici e altri trattamenti.

 

 

 
 
 

Una dieta globale insostenibile

Post n°6 pubblicato il 09 Dicembre 2014 da giovannaferrari_1988
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Via via che i paesi del mondo si sviluppano, aumentano urbanizzazione e reddito pro capite, si assiste anche a una trasformazione delle abitudini alimentari, che si spostano maggiormente verso cibi ricchi di zuccheri e grassi raffinati e prodotti come la carne di manzo, che richiedono uno sfruttamento intensivo dei terreni agricoli.


Questa correlazione, osservata più volte, potrebbe presto diventare insostenibile, sia per i danni alla salute della popolazione mondiale sia per l'eccessivo sfruttamento di risorse del territorio. Ma c'è una soluzione in grado di evitare entrambi questi fenomeni, ed è illustrata su "Nature"da David Tilman, dell'Università del Minnesota. L'ecologo statunitense, uno delle figure di spicco a livello globale nel campo della sostenibilità, propone di spostare il consumo alimentare su vegetali e pesce o adottare la dieta mediterranea su scala globale.

 

Insieme con il suo collaboratore Michael Clark, Tilman ha analizzato in modo approfondito i costi ambientali e umani delle attuali abitudini alimentari nel mondo e le correlazioni tra dieta, salute e crescita della popolazione.

 

Secondo i dati raccolti, con l'aumento del reddito pro capite mondiale avvenuto tra il 1961 e il 2009, le persone hanno consumato una maggiore quantità di proteine animali, di calorie "vuote", cioè alimenti che non forniscono altro nutrimento oltre all'apporto calorico, ed è quindi cresciuto il numero di calorie totali per persona.

 

Se si prolunga verso il futuro questa tendenza, incrociandola con i dati relativi alla crescita demografica e all'aumento del reddito, si scopre che nel 2050 le diete conterranno una quota di porzioni di frutta e verdura significativamente inferiore, ma il 60 per cento in più di calorie "vuote" e dal 25 al 50 per cento in più di porzioni di maiale, pollame, manzo, prodotti caseari e uova.

 

Questi cambiamenti saranno prevedibilmente legati a un incremento di diabete di tipo 2 (già considerato dall'Organizzazione mondiale della Sanità come un'epidemia globale), malattie coronariche e alcune forme tumorali. Sul fronte dell'impatto ambientale, le analisi del ciclo di vita di diversi sistemi produttivi alimentari, dimostrano che se prevale l'attuale trend, nel 2050 le emissioni di gas serra dovute a questo comparto produttivo saranno più elevate dell'80 per cento rispetto ai livelli attuali, con una contemporanea distruzione degli habitat per fare spazio ai terreni agricoli.

Le stime sono invece di segno opposto per la dieta mediterranea tradizionale, per la dieta vegetariana e per quella "pescetariana", in cui si evita il consumo animale con l'eccezione di pesce e frutti di mare. Con queste diete alternative adottate a livello mondiale, rispetto alla dieta onnivora si avrebbe una riduzione del 25 per cento nell'incidenza del diabete di tipo 2, del 10 per cento per i tumori, e di circa il 20 per cento per le morti per malattie cardiovascolari. Inoltre, l'adozione di queste diete o di alternative simili consentirebbe di prevenire la maggior parte dell'incremento previsto delle emissioni di gas serra e della distruzione degli habitat.

 

Chiaramente, non si tratta di misure facilmente adottabili, soprattutto su scala globale, considerando i numerosi fattori che influenzano le scelte alimentari, ma le previsioni di Tilman e Clark valgono a definire i rischi degli attuali trend alimentari in modo da sensibilizzare l'opinione pubblica.

 

 

 
 
 

Philae è arrivato sulla superficie della cometa

Post n°5 pubblicato il 16 Novembre 2014 da giovannaferrari_1988
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Dopo una discesa di sette ore, il lander Philae, rilasciato dalla sonda Rosetta, è arrivato sulla superficie della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko e ha stabilito le comunicazioni con il centro di controllo sulla Terra. Ora Philae inizierà un'intensa raccolta di dati che potrebbero fornire utili indicazioni sulla formazione del sistema solare e sulla possibile presenza di amminoacidi, i costituenti fondamentali della vita.

Ottenere nuovi dati che possano chiarire importanti particolari sulla formazione del sistema solare, sull'origine dell'acqua sulla Terra e forse anche della vita: è questo l'ambizioso programma della missione Rosetta dell'Agenzia spaziale europea (ESA), che in 10 anni di viaggio ha percorso 6 miliardi e mezzo di chilometri alla rincorsa della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko.

Il 12 novembre era il giorno cruciale per la missione: a 22,5 chilometri dal centro della cometa, Rosetta ha rilasciato il lander Philae che, poco dopo le 10.00 ora italiana, ha iniziato la discesa verso la superficie del nucleo cometario.

Dopo un viaggio di sette ore, è arrivato il tanto atteso segnale: poco dopo le 17.00, Philae è arrivato sulla superficie della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko e ha stabilito le comunicazioni con il centro di controllo di Darmstadt, in Germania.

L'atterraggio di Philae non è stato privo d'incertezze né di rischi: la cometa ha una forma molto irregolare, con due grossi lobi, e si muove a una velocità di 18 chilometri al secondo, compiendo una rotazione completa su se stessa ogni 12,6 ore. Un particolare importante è che il lander non ha una propulsione propria, e quindi, dopo la separazione dall'orbiter, la sua traiettoria non poteva essere modificata dal centro di controllo. Ciò implicava che una piccola imprecisione nelle condizioni di rilascio avrebbe potuto compromettere completamente la missione di Philae, le cui probabilità di successo erano state stimate del 70/75 per cento.

Inoltre, la superficie appare molto corrugata, con pendenze e crepacci, ciascuno dei quali avrebbe potuto minacciare il corretto ancoraggio di Philae al suolo e l'assetto previsto per le attività scientifiche. Per questo motivo, i ricercatori e gli ingegneri che seguono la missione hanno scelto con cura il punto esatto in cui è avvenuto il contatto, individuato nel settembre scorso, quando Rosetta è arrivata in prossimità della cometa e ha iniziato a orbitare intorno a essa.

Il punto, identificato inizialmente come Sito J e successivamente battezzato Agilkia - come l'isola del Nilo su cui fu trasferito il complesso di templi di Philae, inondata per l'allargamento della diga di Assuan - si trova sul lobo più piccolo, in una posizione in cui le condizioni di illuminazione sono ottimali quando il lato in cui si trova è rivolto verso il Sole: questo permette a Philae di ricaricare le batterie a pannelli solari nelle ore di luce e di raffreddare i sistemi nelle ore di buio.

"Ci vorrà un po' di fortuna per arrivare effettivamente in un buon punto", aveva spiegato Paolo Ferri, a capo delle operazioni della missione.

Dopo che si è posato sulla superficie della 67P/Churyumov-Gerasimenko, Philae ha iniziato un intenso programma di esperimenti scientifici che potranno fornire una serie d'indicazioni importanti sull'epoca primordiale del sistema solare: le comete sono, infatti, aggregati della materia che formava il disco protoplanetario del Sole, da cui si sono successivamente formati i pianeti.

Appena dopo l'atterraggio, il compito del lander è stato quello di catturare foto panoramiche di ciò che aveva intorno utilizzando le micro-camere di bordo. Un'ora dopo, ha iniziato invece la prima serie di esperimenti scientifici previsti, che hanno avuto la durata di circa 60 ore. Una serie di perforatori, sensori e camere hanno raccolto dati sulla composizione e la temperatura della superficie, verificando in particolare la possibile presenza di amminoacidi, i "mattoni elementari" delle proteine e quindi della vita.

Infine, quando si è trovato sulla faccia opposta della cometa, Philae ha inviato onde radio verso Rosetta: il segnale ricevuto ha potuto fornire informazioni sulla costituzione della 67P/Churyumov-Gerasimenko.

 

 
 
 

La scoperta di nuovi vettori per la terapia genica

Post n°4 pubblicato il 08 Novembre 2014 da giovannaferrari_1988

È stata pubblicata di recente su Angewandte Chemie International edition e ripresa in Nature highlights nel numero di novembre di Nature Chemistry la ricerca sullo sviluppo di nuovi nanovettori per terapia genica. Lo studio è frutto di una collaborazione internazionale consolidata che coinvolge, oltre al laboratorio MOSE dell'Università di Trieste, un team intercontinentale che include la Francia, gli Stati Uniti, e la Cina.

I cosiddetti small-interfering RNAs (ovvero piccoli RNA di interferenza o siRNA) sono frammenti di RNA a doppio filamento che possiedono eccellenti attività terapeutiche in campo antivirale o antitumorale, silenziando l'espressione di geni specifici che presiedono all'insorgenza e allo sviluppo di importanti patologie umane. Purtroppo, i siRNA come tali non possono essere usati quali agenti terapeutici in quanto vengono immediatamente riconosciuti dal sistema immunitario come materiale esogeno e, come tali, distrutti. Inoltre, qualora riuscissero a giungere indenni alle cellule bersaglio, essendo molecole ad alta densità di carica negativa, il loro passaggio attraverso la membrana cellulare, anch'essa a polarità negativa, risulterebbe fortemente sfavorevole. Di conseguenza, per essere impiegati efficacemente in terapia, i siRNA richiedono un meccanismo a effetto stealth, ovvero un sistema nanovettore che li protegga lungo il viaggio verso il tessuto/organo obbiettivo e che, una volta raggiunto, li aiuti a penetrare all'interno delle cellule per poter esplicare la loro azione biologica. Tra i nanovettori utilizzabili allo scopo, in questo lavoro è stato messo a punto un sistema "metamorfico" costituito da molecole dendrimeriche autoassemblanti che in assenza dei frammenti di acido nucleico danno origine a strutture di tipo vescicolare (battezzate dendrimerisomi) con dimensioni attorno ai 200 nm ma, una volta in presenza dei siRNA, spontaneamente si trasformano in piccole micelle sferiche del diametro di 6-7 nm, che ottimizzano sia l'effetto protettivo sia quello di trasporto e rilascio dei siRNA.

«Questo nanovettore è stato preparato e proposto per la prima volta dal nostro team», dichiara la Prof.ssa Pricl «e la sua efficacia è stata dapprima testata con grande successo su diverse linee cellulari tumorali, risultato non scontato in quanto la fase di uptake cellulare e di rilascio rappresentano dei fattori fortemente limitanti e spesso dipendenti dalla linea cellulare. I risultati più importanti della ricerca, tuttavia», aggiunge Sabrina Pricl «consistono nel fatto che tali "nanovettori camaleontici" sono particolarmente efficaci nel veicolare i siRNA sia a cellule primarie che a cellule staminali ma anche, e soprattutto, sono indiscutibilmente efficaci in vivo, come testimoniato dalla drastica riduzione della crescita tumorale in modelli murini. Da ultimo, e non per questo di minore importanza, tutti i test eseguiti hanno dimostrato l'assoluta sicurezza e l'assenza di tossicità da parte di questi nanovettori».

Conclude la ricercatrice: «Tutte queste proprietà dei nuovi nanovettori per RNA di interferenza, assieme alla loro semplice formulazione, aprono nuove speranze per un processo di trasporto e rilascio di siRNA efficiente e sicuro a livello terapeutico».

 
 
 

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