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Il Risorgimento edulcorato di Aldo Cazzullo.

Post n°30 pubblicato il 13 Marzo 2011 da ltedesco1

 

Giorgio Agosti, partigiano azionista, in una lettera dei primi anni Sessanta a Lucilla Jervis, scriveva che tra le funzioni degli storici vi fosse quella «di creare in un certo modo il “mito della Resistenza”, così come fecero gli Abba, i Settembrini, i D’Azeglio, i Bandi, i Nievo, e quanti altri crearono il mito del Risorgimento, depurarono cioè quella che fu una grande giornata della nostra storia dalle scorie che ogni grande avventura storica non può non contenere».

L'obiettivo di rimuovere, così, in occasione del 150° anniversario dell'Unità d'Italia, quanto non si presti alla narrazione edificante delle nostri origini viene oggi entusiasticamente perseguito da Viva l'Italia del giornalista del Corsera Aldo Cazzullo, che lega anche lui idealmente Risorgimento e Resistenza.

Checché ne dica, infatti, Stefano Folli sul Domenicale del 6 marzo scorso, anche qualora si volesse convenire con la lettura del revisionismo antirisorgimentale quale frutto <<di approssimativa negazione dei fatti e dei loro protagonisti>>, di sicuro il da lui celebrato volume di Cazzullo di un'opera di negazione rappresenta manifestazione massima.

Il fastidio del giornalista del Corsera nei confronti delle <<infinite denigrazioni di cui i padri della patria>> (p. 13) sarebbero vittime è esplicito. In queste denigrazioni Cazzullo fa rientrare non solo gli strali leghisti, ma qualsiasi opera storico-letteraria non filorisorgimentale. Il lavoro della storica non accademica Angela Pellicciari, Risorgimento da riscrivere, diventa così un <<libello>> (p.13), quello dei registi che presentano impudentemente <<i briganti con trombone e cappellaccio come eroi>> (p. 17) e Mazzini come un “terrorista” solo <<invettive>> non degne di riposta (p. 14).

Tutti coloro che non aderiscono alla visione cazzulliana del <<Risorgimento di popolo>> vengono tacciati di coltivare un'idea d'Italia <<piccola, meschina, ripiegata sul dialetto, sul mugugno, sulla logica di campanile>> (p.14).

E proprio sul brigantaggio Cazzullo rischia veramente , con la sua foga di dissimulare quanto non sia funzionale alla lettura apologetica del Risorgimento, di passare per il servo del Principe (ci domandiamo se a questo carattere di ortodossia patriottarda Paolo Mieli si riferisca quando definisce sulla pagina culturale del Corsera dell'8 marzo<<convincente>> il volume del collega).

A leggere le pagine di Cazzullo, infatti, il lettore non sarebbe mai colto dal dubbio che il brigantaggio, oltre ad essere opera di papalini e borbonici nostalgici, sia stato anche espressione di malcontento sociale e che per reprimerlo il neonato Stato italiano sia dovuto ricorrere al regime di guerra, con tanto di tribunali militari, processi sommari o addirittura fucilazioni immediate degli insorti. Come non saprebbe mai che il bilancio finale della mattanza, pur incerto, ma dell'ordine di diverse migliaia di morti, fu certamente superiore a quello dei caduti in tutti i moti e le guerre risorgimentali dal 1820 al 1870.

Il 'lealismo' risorgimentale di Cazzullo cade poi nel grottesco quando arriva a prendersela con Pasquale Squitieri, reo, nel suo Li chiamarono...briganti!, di presentare Enrico Cialdini <<nella parte del generale cattivo>> (p. 17).

Bene, si rassegni Cazzullo, ché tutti ma proprio tutti coloro che si sono occupati del ruolo svolto da Cialdini nella repressione del brigantaggio non hanno potuto tacere della durezza della sua azione, ben esemplificata dalla rappresaglia scatenata nell'agosto 1861 nel beneventano in seguito all'uccisione di 45 soldati. <<Che di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga pietra su pietra>>, avrebbe ordinato Cialdini. Così, secondo le stime del filogovernativo <<Popolo d'Italia>>, e quindi probabilmente in difetto, le vittime del massacro furono 164, vale a dire quattro meridionali per ogni soldato dell'esercito regolare; <<la metà scarsa - ha notato con maligna provocazione Pino Aprile nel suo Terroni - di quanto fecero i nazisti per l'attentato di via Rasella a Roma (un italiano ogni dieci tedeschi)>>. Sarà lecito obiettare che non era possibile rinunciare all'uso, anche intensissimo, della forza nel neonato Stato italiano ma non occultare la voce di coloro che già allora, come il deputato della Sinistra Giuseppe Ferrari, ebbero a dire in Parlamento che <<non così s'intendeva da noi la libertà italiana>>.

Luca Tedesco


 
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