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Il Processo - di Franz Kafka per Boccaccini

Post n°24 pubblicato il 29 Marzo 2005 da LuvelioJUSA
Foto di LuvelioJUSA

In dicembre (2003), al teatro Sala 1 di Porta San Giovanni è andato in scena il Processo di Franz Kafka, diretto dal Claudio Boccaccini. Dopo il successo per la rappresentazione in Campo de' Fiori, del suo Giordano Bruno, il regista raccoglie nuovi consensi di pubblico, trattando la materia narrativa non certo di facile lavorazione di uno dei maestri della letteratura del secolo appena scorso. Portare Kafka in scena significa comlplicarsi la vita già per l'ambito prettamente scenografico, e Boccaccini è riuscito ad affrancarsi da gravi oneri affidandosi alla scelta del Sala 1, teatro endemicamente affine alle esigenze del rigore alla fonte letteraria; è questo un dato importante se si tiene conto che Kafka è passato alla Storia della Letteratura grazie ad uno stile che non permette ai lettori mai di discernere tra reale ed immaginario, e ancora meno di fissarne universalmente una univoca significazione letterale, per quanto insigni esegeti -come Theodor Adorno nei suoi Appunti su Kafka del '53-, abbiano difeso una simile eventualità.

L'atmosfera del Sala 1 è dominata dalle volte romaniche del complesso della Basilica di San Giovanni, e ciò ne rende ottimo l'utilizzo per la rappresentazione del capitolo nono Nel Duomo; la platea un pò infelice nella sua sistemazione, per un pubblico pagante, è perfettamente funzionale al senso di claustrofobia che nel romanzo ragna; le volte, gli archi, e le colonne creano formidabili coni e zone d'ombra simili a quelli da cui, tra le righe di Kafka sbucano d'improvviso personaggi improbabili come il cancelliere capo. La scelta topica della rappresentazione è del tutto esente da leggi che possano definirsi casuali, e, addirittura il pubblico è inserito in scena come inconsapevole comparsa a rappresentare quegli astanti che nel romanzo assistono alle udienze in tribunale del protagonista Joseph K.; Kafka li ritrae come spettatori angariati con le spalle al muro e il soffitto sulla testa. Le condizioni affini sono non casuali e di forte suggestione, capaci di far eco a quel discorso di affettività - che sempre Adorno rimarcava - secondo il quale il processo d'identificazione dei lettori con i personaggi, va oltre ogni limite nel caso kafkiano e dove per inciso, sostiene Adorno, il lettore o lo spettatore tramite l'estro di Boccaccini, "teme che ciò viene narrato gli si possa avventare contro, per quello stesso investimento affettivo che in cinematografia può esser dato dall'effetto filmico della locomotica". Il disappunto dell'uomo e il suo scombussolamento dinanzi ai mostri che l'era moderna ha ingenerato è ciò che Kafka ha evidenziato nel suo romanzo, ma essendo la sua un'arte e non una scienza esatta, anzi proverbialmente umana, è pure possibile scorgervi innumerevoli angoli di dubbio, di contraddizione, di vera e propria -riferendosi in particolare alla tecnica stilistica del romanzo - antinomia letteraria. In alcuni momenti della narrazione Joseph K., che pure dall'origine è consapevole d'essere vittima di un crudele e sibillino Leviatano, di inestricabile e viziato sistema burocratico che dovrebbe servire l'uomo e invece lo perseguita, giunge quasi a giustificarne la legittimità, in un processo di autocolpevolizzazione; è ciò che accade anche all'etica sociale dell'autore praghese, compressa e alternativamente diluita tra il caldeggio delle nuove libertà moderno-borghesi, ed un socialismo, al tempo stesso eroico e puerile, molto affine a quello del nostro Italo Svevo.

In comune con l'autore del romanzo psicologico italiano, Kafka conserva e dosa con genio l'ironia, che è un pò come il cucchiaino di miele propinato al bimbo malato prima dell'amaro sciroppo, per lenirne l'assunzione. Francesco Pannofino lascià nel pubblico un bel ricordo, con l'interpretazione del monologo di rammarico di Joseph Kappa, costretto in quell'asfissiante spazio tra i muri dell'industrializzazione e dello stato moderno; una realtà che recide di netto l'individuo dalla comunicazione con se stesso in quello stato meglio conosciuto dalla tradizione marxista come alienazione, o hegelianamente come oggettivazione. La società quindi come alterazione viziata e alogena, quando non diabolica dei rapporti umani.

Pannofino commuove quando rivela quanto Joseph K. abbia sete di semplice e diretta comunicazione con i suoi simili, siano essi colleghi, predicatori, inquisitori o donne; il suo struggimento angoscioso di maggiore portata risiede in quest'atto di disillusione, e non appena accortosi di come sia impossibile comunicare faccia a faccia con chi gli cheide conto di qualcosa, arriva quasi ad accettare quell'insensata accusa pendente irragionevolmente sul suo capo, forse perché si convince, esortato dalle parole del sacerdote nel Duomo, che egli non sia in grado di vedere oltre più di due passi il suo naso, e Joseph Kappa muore certo che la società e quel sistema di uomini a lui simili e pari- che Kafka cita sovente col sostantivo allegorico di Castello - , non permetta all'uomo di vedere oltre quel limite. Il nome del nostro attuale guardasigilli vorrà essere solo lo scherzo della suddetta kafkiana ironia della sorte.

Lj

 
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