Creato da Marvelius il 21/08/2012

Marvelius

Elrond lands :dove il mito e la fiaba, la realtà e la fantasia si incontrano al crocicchio del vento

 

La Madre delle fate

Post n°109 pubblicato il 16 Marzo 2016 da Marvelius
 

 

 

 


L'orizzonte era un trionfo di fiamme,

sparsi qua e la ciuffi di nembi bianchi

con pennellate rosa e lame di sangue

che pugnalavano il cielo.

Le rondini volteggiavano basse sulle rive

limacciose come in una danza estenuante

che le riportava indietro nel tempo ,

su quelle rive dove si erano date commiato.

Lei se ne stava irta su un sasso bianco, sul ciglio

del fiume nel silenzio rotto solo dal vento che

agitava le fronde di betulle ondeggianti, mentre

l'erba filuta come onda di mare si fletteva

ripetutamente tra riflessi di un verde cangiante.

Era vestita con un peplo di canapa color

melograno stretto da un laccio d'organza appena

sotto i seni che già rigogliosi scolpivano una

vertigine tra le loro anse.

 

 

I capelli ritorti in piccole trecce sulla testa

ingentiliti da sottili nastri di ginestra ...

due riccioli ai lati della fronte ricadevano sulle

tempie come colonne intarsiate di onice.

Il crine nero come la notte e le labbra tumide

e rosse su bianche guance rendevano i suoi

lineamenti schegge di una bellezza antica,

finanche l'acqua del fiume sembrava attardarsi

sull'immagine di lei per rapirne la luce e i tratti

splendidi e trasportarli via con sé.

Quell'immagine di dea, come una statua gloriosa,

la consegnava ad un immortalità precoce,

così tutta la natura prese a ruotare intorno a lei.

Come una lancia infissa nel cuore della terra per

segnare lo scorrere del tempo lei era assisa su quel

cippo di pietra, ossa di terra e sangue pulsante in

mezzo al respiro dell'aria e al suono del vento.

Era stata felice un tempo su quelle candide rive,

era stata fiore e farfalla, aveva assaporato

l'inebriante polline dei rossi papaveri

s'era librata nello zefiro caldo del tramonto

fino a mutare in lucciola e vagare nel tepore

di notti insonni.

 

Era stata colibrì e falco, ape e muschio grigio

abbarbicato ai greppi lungo le anse di quel

fiume gorgogliante.

Ricordava ancora quando vestita di rugiada

scivolava sulle lucide e tumide foglie, quando

si scioglieva come neve sui prati puntellati di

bucaneve.Era stata vento tra i rami nodosi degli

ulivi, e coccinella sui bianchi petali di achillee

impettite.

Quando il sole d'agosto riposava sulle

rosse spighe di grano ella si incuneava

tra di loro simile al soffio vespertino, poi

come pesci agili d'argento guizzava tra

le anse del fiume e si inabissava fino al

greto per mormorare tenere parole alle

pietre del fondo.

Saliva fino a vertiginose altezze con le

sue ali cangianti, disegnava colonne di

ametista nel cielo radioso e con le nubi

dal bianco manto tesseva zucchero filato.

Ora era li, ferma sul suo cippo a guardare

il mondo mutare ancora una volta.

 

 

Una lacrima le scorreva sul viso e subito

un'altra era pronta a seguirne il flusso.

Gocce di rugiada sui greppi delle ciglia

illuminavano gli occhi di un azzurro cinereo.

Quando cadevano a terra,sposando il suolo

scuro, foglie di acanto germogliavano d'incanto.

Da lontano si udiva l'eco di tuoni giungere di

la dai monti, su antiche vette innevate il

vento si inerpicava e ne scendeva

gelido come il fiato di un fantasma.

I suoi piedi presero a mutare forma e

sostanza, prima tralci di siepe come radici

multiformi abbracciarono la pietra dove

era assisa da tempo, poi i virgulti nati dalla

sua carne divennero legno .

Ampie striature verdastre si colorarono

di linfa e sangue , poi la corteccia dura

inaridì e alla fine pietrificò nel lucido

scintillare del quarzo .

Le sue lacrime ora erano perle d'elettro,

le sue labbra un tempo come un fico spezzato

scurirono come morse dal gelo e finanche

la sua pelle sbiadì come se alla neve

dell'incarnato fosse sottratta l'intima cella

della sua vita.

 

(clicca sul video e continua )

Le braccia lungo i fianchi sembrarono

flettersi come giunchi per arrivare alla

terra, per sentire ancora il calore che ad

essa la legava, per ascoltare il cuore della

foresta parlargli teneramente, carezzarle i

capelli accompagnandola nelle triste stanze

del suo eremo.

Nelle orecchie il suono di mille violini,

negli occhi miriadi di farfalle azzurre

come le stelle del firmamento la

traghettarono alla fine del suo tempo.

Un brezza secca si levò da tergo e un

mulinello di foglie gialle e rosse le danzò

intorno poi lentamente anche il vento

cessò e le foglie caddero a terra

rinsecchite. Un leggero drappo di

neve iniziò a cadere come coriandoli

nel silenzio di una natura che le diceva

addio.

 

 

La luce del giorno fu solo un ricordo e

la notte scese ad ammantare ogni cosa.

Gli alberi smisero di ondeggiare, gli

animali si rinserrarono spaventati nelle

loro tane, le acque fermarono il loro corso,

tutto cessò di vivere per un istante mentre

la statua di lei imbiancava sotto un

mantello di neve, rilucendo sotto la

bianca folgore di luna .

Quando tutto si arrestò un tuono si

fece strada tra le colonne del tempo

e un fulmine squarciò le tenebre

rischiarando il bosco di una luce vermiglia.

Le acque del fiume che erano rimaste

ferme come uno stagno d'argento si incendiò

di riflessi turchesi e presero a scorrere come

se solo adesso sorgesse dal loro fondo la

sorgente e la fonte svanita , poi l'abbrivio

divenne corsa e infine rullìo di cascata.

 

 

Turbini fragorosi tra le linfe e i sassi

smorti e un biancheggiare gorgogliante

che tutto trascinò via. Gli animali uscirono

dalle loro tane, i lupi si radunarono sulle

alture e le rocce affioranti i pendii per

ululare alla luna il loro ritrovato coraggio.

Anche il vento rinacque da ostro fino a

garbino per cantare lode alla Signora delle

acque, alla ninfa del bosco, alla dea

candida delle rocce .

Sui rami delle querce si ritrovarono

stormi di capinere e fringuelli dal becco

rosa, tra gli ilici ombrosi il canto degli

usignoli resero più gentile il fischio del

vento che come uno sciacallo urlava tra

i buchi e i nodi delle ceratonie con i frutti

che scampanellavano ad ogni sussulto.

Quando tutto sembrò prendere vita, la coltre

di ghiaccio che ricopriva la statua scricchiolò,

il bianco ghiaccio prese vita colorandosi

di un oltremare che sfumava in mille riflessi

luminosi.

Poi accadde ... un fulmine balenò nel cielo

come una sottile arteria pulsante e dopo

aver attraversato tutta la volta celeste si

infisse ai piedi della statua avvolgendola

di un rosso fulgore di fiamme.

Ancora una volta tutto si arrestò, finanche

le biglie della memoria congelarono

l'attimo e le sabbie del tempo sfumarono

le gialle terre di un ricordo andato.

L'alba giunse su un carro trainato

da bianchi leoni dalle nere criniere,

fosche pennellate pervinca striarono il

cielo agonizzante, le cime degli alberi

furono irradiate dalla sua luce e presero

a vibrare come scosse da un fremito

d'ansia.

 

 

La stessa terra si ritrasse percorsa da un

energia invisibile e le acque del fiume si

condensarono in miliardi di gocce che

come pioggia si librò nell'aria risalendo

al cielo.

Quando tutto passò il giorno era rinato

e il sole si affacciò timido sulle cime

dei monti carezzando i verdi prati e le

grandi distese di mangrovie, i canneti

tornarono ad ondeggiare dolcemente

tra le acque placide e i pesci a guizzare

tra i corsi del fiume, timidi pettirossi

zampettavano curiosi tra il fogliame

e gli stecchi dei peschi in fiore e i

tordi picchiettavano sulle pietre come

a romperne il guscio . Il ronzio delle

api si fece rombo di tuono e le

cascate tintinnarono nello spumeggiare

delle acque , gli gnomi si destarono

dai loro giacigli e tornarono ai

campi mentre folletti dispettosi

presero a rincorrersi e giocare tra le

fronde di alberi millenari.

Nel cuore della foresta restava un

grande masso di pietra bianca, lì sul

ciglio del fiume come un altare nel cuore

di un tempio, un piedistallo orfano

della sua colonna infisso nella terra a

ricordare che la Fata del Bosco era rinata,

che l'alito della sua anima era ancora

sopra le creature della foresta, che lo spirito

delle sue grazie avrebbe ancora infuso

gioia e speranza in tutti i loro cuori

fino a quando l'ultimo di loro l'avrebbe

tenuta viva nel ricordo.

 

 

Marvelius

 

 

 

 
 
 

Amore...

Post n°108 pubblicato il 14 Febbraio 2016 da Marvelius
 

 

 

Perché l'Amore non ha età,

non ha tempo ...

 ci attraversa tutti nelle forme diverse

che toccano l'anima.

Una carezza sfiorata, una mano cercata,

un bacio sussurato o anche solo un sorriso accennato

sono il piu grande miracolo che possiamo donare,

per le persone che hanno bisogno di poter credere

che l'Amore non li ha dimenticati ...

Buon San Valentino

Marvelius

 
 
 

L' Urlo

Post n°107 pubblicato il 31 Gennaio 2016 da Marvelius
 
Tag: L'Urlo

 


Sull'orlo di una rupe un urlo ...

sul ciglio di un fiume uno sguardo fisso nel profondo,

 nel sonno vecchie parole biascicate tra i denti.

La lingua si insinua nei recessi della mente e scava

simile a un segugio che sterra nel midollo d'una falena.

Un veltro rifugge comodi serragli

e tra antiche olle nasconde i resti del suo peregrinare.

Ancora un urlo sugli sbecchi del dongione ...



si affettano  fili dei pensieri e con essi si impastano

le emozioni di cuori ancora palpitanti.

In fornaci guizzanti d'aliti di fuoco

si immergono i ricordi di eroi  infanti,

poi cessa il vento,

si placano le acque dei laghi e smuta l'onda del mare,

così tornano a dormire le ombre nel silenzio delle fronde.

E sopra il torrione la luce della luna imbianca,

pietre e anime inquiete,

cessa il tremore e i ghiacci della carne,

quiete ovatta ora il castello,

e dalle froge di un cavallo imberbe spuma bruma

simile ai vapori della terra.

Dal cielo scende neve  come coriandoli incolori

a mutare il verde dei prati,

ha il colore della cenere e  un tepore l'ammanta.

Ne raccolgo un poco

immergendo le dita nel solco che  va ricoprendo

e serro gli occhi,

vestigia di popoli  appaiono nelle loro vesti bianche,

bambini scalzi e sorrisi persi raccolti in mani piene di calore.

 


Occhi su cui scorrono i lieti passi di ore senza inganno,

giochi tra orizzonti sterminati

e sogni chiusi tra palloncini d'ogni colore.

Poi una bimba si avvicina e mi sfiora la guancia,

ha il viso dolce di chi nutre sempre una speranza,

ed io sorrido chinando il capo

mentre il suo volto sfuma oltre le lacrime della notte.

Simile è questa oscurità  a un urlo che riempie il vuoto

e la svuota di ogni umanità

poi...

dopo tanto sanguinare

tutto tace ... nel buio che inghiotte.

MARVELIUS

 

 

 
 
 

Per Non Dimenticare...(Ripubblicato)

Post n°106 pubblicato il 27 Gennaio 2016 da Marvelius

 

 

 

 

Tenera è la mano

 che disegna tratti d'orizzonte

lieve come  vento tra i capelli

nei meandri della sua memoria

Nulla distoglie il pensiero

che penetra la coltre dei suoi lamenti

Come  un fiume che sgorga e scorre  

lento si inoltra sulla strada polverosa

un filo di uomini dagli sguardi senza pieghe

dove nascondere un cenno di speranza

Donne dai cuori senza più sangue

si inondano di un ultimo sforzo

tra  vestiti di  strisce incolori

Così nel dolce abbandono della resa

stringono esili mani di bambino

 nel futuro che va sparendo

Passi si confondono con  polvere e sudore

verso un destino che rimorde se stesso

Lacrime senza più sale si impastano

 all'aria sterile che  brucia   

come le fiamme di un averno

Carnefice è il tempo

e chi lo misura avido

 nella brama del possesso

Tiranno è il silenzio che non scuote

col suo urlo che fa tremare il tempio

Ma chiusi restano i varchi

e serra le oscure  porte

finanche l'amico che piega il capo

nel pianto del cuore

che non trova pace.

Morta è l'alba nella notte eterna

Così giace la vita che non'è vita

fino al canto che annuncia un altro algore

che miete le messi su quei rossi campi ...

Schiere di elmi si mostrano a parata

tra opposte legioni vestite di paure

Spogliata è la dimensione di un intimità violata

deriso è il corpo ... dilaniata l'anima innocente

nella feroce ansia della distruzione

che sfila l'umanità dal suo alburno ceppo

Così nel ciclo eterno della sua infermità

ogni uomo ha perduto

quel briciolo di luce

e va errando senza meta

nel buio incerto della sua oscurità ...

MARVELIUS

 

 

 
 
 

Nebbiosi Monti Gelati

Post n°105 pubblicato il 16 Gennaio 2016 da Marvelius

 

(Ascolta il brevissimo dialogo di Thorin e

Balin come antefatto del racconto nel

video ...poi continua a leggere sotto

il mio racconto)

... gli occhi Thorin  scintillarono come spilli

arroventati mentre il ricordo si fece

 vivido e una fitta gli lacerò

il petto.

Le grandi vette innevate gli apparvero

maestose scaldandogli il cuore e togliendogli

il respiro.

Gettò sulle braci un altro ceppo di quercia e le

scintille  mulinarono nel camino rischiarandolo.

Gli altri nani si unirono idealmente nel silenzio

che li teneva  avvinti come fasce di una corda

indistruttibile.

Lo sguardo del loro capo era una maschera di

ferro nel balenare delle ombre ... fu allora che

 la voce di Thorin Scudodiquercia si

spandette nel chiuso della casa.

Un profondo lamento plasmò la stanza

condensando di nostalgia e fitte di un dolore

 mai dimenticato ogni asse, ogni legno

penetrando nei cuori di ogni cosa .

Le voci degli altri nani , uno dopo l'altra si

unirono alla sua ricordando la loro dimora,

il  popolo distrutto, smarrito, disperso nei

 rivoli di un mondo a cui non appartenevano

 più.

Lo scorrere dell'acqua gelida dei fiumi negli

antri oscuri gli martellava nelle tempie, il rumore

degli uccelli che cantavano invisibili nel folto dei

 boschi resinosi li irretiva, le albe nebbiose e i

tramonti che bruciavano il cielo erano ancora

chiusi nelle loro menti, la neve che ghiacciava

le ossa e ricopriva il mantello delle montagne

 con una coltre di meraviglia potevano ancora

 toccarla se solo chiudevano gli occhi ..

Il pianto del vento che gemeva nella notte gli

ricordava il loro triste lamento e in esso ancora

si rifugiarono come faville e torce di luce

 disperse nel buio della notte.

E il canto si fece dolce come sidro e scivolò

dentro i loro cuori riempiendoli di melanconia

 ma una  forza nuovo iniziava a sorgere dentro

 di loro, la voglia di ritornare tra le grandi

 arcate del loro regno, tra le rocce affioranti

 delle loro stanze e il canto si fece pietra e

sangue , lacrime e rabbia per ritrovare il

sentiero che conduceva alla porta della loro

patria perduta per stringere ancora il loro

mondo ... tra gli ori incantati.

 


  MARVELIUS

 

 
 
 

Madre..

Post n°104 pubblicato il 14 Gennaio 2016 da Marvelius
 

 

 Danzava come un  soffio su spilli d'erba

rotolando tra gli aghi d'alberi informi

Tra le fronde del bosco spiegava  il sorriso

mulinando  per i  prati in fiore.

Finanche la neve si sciolse al suo passaggio

come rugiada  di lacrime bianche.

 

 

Poi vide sua madre  come un sasso inerme

rotolato dal fianco della montagna.

Le si accostò smarrita con lacrime d'ambra

e ne sfiorò il corpo punto da un dardo.

Dal cuore sbrecciato gocce di sidro giallo

sgorgavano suggendone il sangue.

Di lei nulla batteva come filute d'erba

 la dove regna la calma e il muto silenzio.

Nulla palpitava nel mantice del petto

neanche un sibilo tra le rosse labbra,

solo il bianco rilucire della pelle

nel corpo infisso come un chiodo 

sull'alburno ramo dell'inverno.

Madre ... esclamò la  fata guardandola negli

occhi e i suoi erano l'alba che scuce i drappi

della notte, erano le fiamme che scacciano le

 tenebre, che sciolgono in rosse cadenze l'alba

e il freddo suo pungente.

 

 

Madre ... ripeté con voce calda piena d'una

commozione ardente, quasi adagiasse quel lemmo

 sul morbido mantello della terra, come se l'acqua

 d'una cascata ingente ne rallentasse il crollo

e al tocco sulle rocce ricordasse d'esser snella,

lieve come l'aria immota che al molesto incedere

 del vento spiega le anse e i gli smossi argini

silenti,  così soffia e soffia senza rumore  tra le

 forme delle cose stanche, come tra  gli spigoli

 d'angolo e le dure pietre divelte.

Madre ... fu l'ultima parola che spiccò tra labbra

 tremolanti, tenendo il capo suo nel molle grembo.

Così il filo delle emozioni si piegò su quelle corde,

il suono della voce si ruppe precipitando in fondo

e fu raccolto dal pianto e dal rimorso .

Giunse il vento correndo amaro fino al mare

e il bosco serrò il cuor suo infranto

in dure lamine d'argento.

Rimase un sordo singulto in mezzo alla foresta

a rischiarare l'ombre e il cupo riposo delle fronde.



MARVELIUS

 

 
 
 

Bordeline III ...

Post n°103 pubblicato il 14 Maggio 2015 da Marvelius
 

Vago in questa notte che odora di muffa e di pioggia come in una spelonca grondante stille di montagna, non un alito di vento a scuotere le fronde di alberi che sembrano carcasse spolpate da denti affilati come lame e appesi nell’aria ferma e stantia di questa landa tetra e silenziosa. Le stelle le ha rubate il carro di uno zingaro, un uomo avvezzo all’arte oscura di maghi venuti da oriente coi loro loschi armeggi.

Ho brividi in ogni angolo del corpo, fremiti che sembrano piccoli terremoti, finanche le gambe tremano e mi è difficile camminare, un ubriaco si abbandonerebbe sulla corda di un  abisso con più equilibrio di quanto non abbia io  e dire che non tocco una bottiglia da anni.

Mi aiuto con una torcia per farmi strada e maledico la luna per la sua assenza e le nubi per la loro presenza come  in un simposio di raminghi  rabdomanti, ma cammino seguendo la fetta di luce gialla di una pila che mi illumina la strada .

Polvere e un po’ di fango e maledizione  nessuno che mi dia un indicazione, sono sperduto  in questo bosco  che sembra non finire mai come il buio che mi inghiotte.

 Impreco contro un miliardo di cose, se avessi una bottiglia la svuoterei in un respiro ma mi restano solo i pensieri e questi non dissetano ma creanono solo altre domande  … ho sete, ho freddo e ho voglia di tornare a casa, stendermi sul letto con i vestiti addosso e ubriacarmi di pensieri.

E’ notte fonda, l’ora delle streghe ma non conosco streghe e credo che neanche loro vorrebbero un lupo come compagno … un licantropo che ha dismesso i panni di un gentile e raffinato gentiluomo per indossare una maschera trovata nel fondo della sua anima corrotta …  l’unica maliarda che ci assomiglia mi abita accanto, porta rossa di acero canadese, numero 69 e che strega Occhi verdi e taglio all’orientale, capelli di un morbido setoso e neri come l’ala di un corvo, un culo da far resuscitare i morti , che vista l’ora sarebbero pesti e neri furibondi, due seni da riempire mani e bocche di lussuriosi quanto inconsci ricordi di fanciullo.

 Eh sì, ricordo bene quand’ero appena un ragazzo, sono passati begli anni … mi siedo su uno sperone di roccia mentre la torcia inizia a dare i primi segni di cedimento .

 Passa in fretta il tempo, ieri ero un cazzutello con una faccia d’angelo, ora sono un uomo un po’ bastardo, un po’ maledetto e perché no uno che se la vive e che ogni tanto si perde nei ricordi come un ubriaco nei fumi della sua bottiglia.

Sono cresciuto in mezzo al profumo di donna,  femmine e compagne sempre molto più grandi di un ragazzino curioso e mordace .

 Eh si … tanta  bella gioventù stesa al sole di un epoca irripetibile, tra cambi di vestiti, di reggiseni  e mutandine , pizzi neri svolazzanti , trini e merletti e chi notava quel ragazzino di 8 anni con la bocca aperta su quei mondi di una rotondità imperfetta vagare con lo sguardo su colline, montagne e valli lussureggianti.  Smalti per unghie oggi signore, massaggi snellenti,  ciglia e creme sui seni … fianchi e docce da cui uscire seminude, tanto quel bimbo non si emoziona certo, ha solo 8 anni, e poi c’era sempre qualche ragazza più maliziosa in vena di esperimenti per  provare a stimolare l’ignaro e inebetito fanciullo,  farsi aiutare a stringere una pinzetta, un laccio o l’elastico del reggiseno.

Uhm … ricordi  la Stefania ?    Eh già … ora mi metto a parlare anche da solo,lo sto facendo da un po’ in effetti e ciò mi preoccupa non poco.

Vent’anni un viso candido con degli occhi grandi come due grosse mandorle

 “ Vieni qui” mi disse quel giorno  con un tono marziale che non ammetteva rifiuti e io tra una timidezza ben celata e un presentimento inconscio mi  avvicinai, avvertivo in quel tono un senso di sospesa malizia e nell’inquietudine dei miei anni provai un piacere interiore simile a una profferta di delizie proibite ma non ancora conosciute e così obbedii  con piacere misto a un timore allucinato.

Avevo dei bianchi calzoni  corti e una camicia a quadri di un azzurro intenso, sandali e calzettoni bianchi … uno schifo insomma …  o forse solo l’immagine di un tempo lontano che oggi sembra non appartenermi. Ero un piccolo boy scout che correva ancora dietro a lucertole da accalappiare con lunghe caule d’erba filuta.

 “Sai spalmare un po’ di crema?” chiese piegando la testa e i suoi capelli arruffati mi sembrarono la criniera di un leone,   la guardai come se il mondo dovesse finire lì , in quel preciso momento,  lei  sorrise disegnando con la bocca un mare di promesse che ancora non conoscevo ma che intuivo essere l’antro di un giardino segreto, così percepivo sprazzi di un futuro acerbo e dolce come si intuisce il sapore dai profumi di un frutto ignoto.

 Mi prese per un braccio e un po’  infastidita borbottò scuotendomi

Dico a te… se metto della crema la sai passare sul corpo?”Risposi di si,  ma le parole mi uscirono di bocca come il sibilo di un serpente, più per comando e un sottile desiderio non ancora declinato ma forte e potente come un richiamo ancestrale di sensi misto a l’impulso suadente di voglie che si condensavano informi in quel preciso momento. 

Uhm mormorò  accigliando lo sguardo mica tanto convinta

 Vabbè dai …prova  disse sbuffando come se non gli importasse più di  tanto e io annuii assecondandola nuovamente.

 Si tolse l’asciugamano che le serrava il seno e cadeva in tubino di cotone fino a metà delle cosce e rimase nuda nello splendore del corpo. Due gambe tornite e ben fatte che a me sembrarono colonne svettanti, l’incarnato bianco e liscio mi mozzò il fiato in gola e gli  occhi mi si riempirono di lei mentre tutta la stanza diveniva evanescente.

Si sdraiò sul petto appena accennato e feci in tempo a fissare nella mia mente i suoi capezzoli di un rosa acceso, deglutii  accorgendomi di quanta saliva mi affollasse la bocca mentre lei metteva le braccia sotto il mento

 “Vai bello” mi esortò con una voce che mi martellò le tempie

Riempiti  le dita di crema e mettila sulla schiena, poi ti dico io cosa fare... e attento al vasetto  di ceramica è piccolo ma costa un mucchio di soldi, mia madre mi uccide se glielo rompo e chiuse gli occhi ad aspettare col sorriso appena accennato sulle labbra tornite ma già in viaggio sui mondi di un piacere che l’avrebbe trasportata sulle nuvole  .

Rimasi fermo ad osservare quel corpo che a me pareva di una statua, qualche giornale di nudi lo avevo visto e mi ero divertito a menarmi insieme ad altri compagni più grandi fino a provare un impeto di  leggiadra sofferente estasi , ma quel corpo davanti a me, immobile e ieratico era tutta un'altra cosa, mi morsi le labbra prima che lei potesse protestare e feci come mi aveva detto, mi impiastricciai le dita di crema bianca come latte e lentamente la spalmai sulla sua schiena posando con cura il barattolino sul mobiletto a fianco.

Al contatto con la crema lei sobbalzò lievemente e la pelle le si accapponò come scossa dai fremiti di un attesa scabrosa, era fresca e profumata  al cedro, ma io riuscivo a sentire altri odori, più pungenti che si staccavano dagli effluvi della crema , odori di fluidi e umori nascosti nei labirinti del suo essere, aromi di pelle giovane e setata, fragranze di capelli lavati e di una patina di un sudore non ancora versato.

Mano a  mano che la toccavo la sentivo crogiolarsi in un piacere genuino e piccoli rumori provenienti dalla sua bocca mi intorbidivano i sensi, non erano continui né forti sospiri ma leggeri ansiti ritmati coi movimenti appena percettibili delle gambe, gemiti appena sussurrati tra i formicolii dei fianchi,  mentre le mie mani andavano da sole sui glutei, le anche e le cosce, disegnando arabeschi tra le pieghe della pelle e circoli irregolari con i polpastrelli accaldati come fusi immersi nelle fiamme.

 Trattenevo il respiro come a contenere un ossigeno consumato ma impregnato di sensazioni vissute mentre il cuore mi batteva così forte che avevo paura che lei sentisse, avrei voluto fermarlo, toglierlo dal petto e chiuderlo in una cassa perché non battesse in quel modo, ma lei sembrava non sentire, non avvertire l’emozione che mi attanagliava la gola e il petto.

La pelle bianca si stendeva come marmo sotto la luce del sole che filtrava dalla finestra tra tende agitate dal vento caldo proveniente dal mare. Serrai le tende come a voler celare il sole e i rumori d voci lontane. Accostai la finestra per isolare tutto quel mondo oltre noi due e annegare nell’intimità di sguardi che volevo solo per me , con delicatezza quasi per non interrompere quell’atmosfera magica  aprii un lume nella penombra della stanza e lei rimase in silenzio  … mi lasciò fare ... lasciò che timidamente osassi.

Azzurre creste d’onda si infrangevano sugli scogli del litorale di  Amantea e nella mia testa le onde imbiancavano di spuma, mentre lei , ancora riversa davanti ai miei occhi era come  creta informe nelle mani di uno scultore, un levigato biancore che si rifletteva alla luce di una lampada dal colore caldo che dava alla camera riflessi ambrati e un alone che rapiva i miei sensi confinandoli nella regione dei  pensieri che si confondono in  torbidi rimestii scandagliati da un asticella che punge e lenisce un bollore che non da pace.

 Scivolavo tra le pieghe della pelle lucida e oleosa, con gli occhi serrati di chi non vuol vedere solo con lo sguardo ma con tutti i sensi, così mi immaginai immerso nell’acqua , rotolare nell’erba  e respirare nei fumi di voglie che traevano origine in una parte nascosta di me che non riuscivo a localizzare con certezza ma che sentivo esplodere in mille rivoli offuscandomi la mente.

Mi piaceva procurare piacere e cosi studiavo con certosina pazienza, tra ogni centimetro di pelle, quello che più dava appagamento, quello che più contorceva i muscoli e accapponava la pelle, aiutato anche dal ritmo e dall’intensità di gemiti  donati alle ombre e rauchi respiri che sembravano uscire direttamente dalla carne di quella ragazza. Fu un esperienza che ripetemmo più volte e non fu l’unica così  intensa e misteriosa, così magica e esoterica da intorpidire i sensi nell'estasi della scoperta.

 Il corpo nella moltelicità delle forme divenne il mio banco di prova, corpi su cui far scivolare mani, umori e sguardi intensi, inseguendo una  lussuria ancora tutta da conoscere, comprendere e dominare.

Nei miei occhi si alternarono le visioni di universi dissimili eppure uguali nella loro grazia multiforme. Così impressi nei miei occhi le delizie di un mondo cangiante, sul palcoscenico di una vita delicata e turbinosa, seni debordanti ai lati del petto ergersi contro ogni legge di gravità turgidi e pingui come mammelle gonfie di latte e altri piccoli come noci guardarmi impettiti come due occhi di nera femmina che ti bucano l’anima.

 Accarezzai fianchi con i palmi fino a farmi dolere i polsi, fui delicato come seta nel modellare olle e vasi di morbida creta e giunti intorno all’abisso del mondo, quell’ombelicus vicino al quale tutto sembra confluire come un immenso gorgo, sfiorare con le labbra le sue rotondità, le pieghe e i bordi, sussurrargli una lingua ormai perduta nei rimandi del tempo e giu giu con le dita sfiorare le cosce, i loro angoli più nascosti, un ticchettio di polpastrelli come il seguitare di una musica tra le corde di un arpa  avvinta all’arco della  schiena.

Quella casa, come altre dimore, era divenuta un luogo ospitale dove inscenare rappresentazioni viventi di voglie assuefatte al genio della natura ma mai dome alla frusta della noia.

 Maschere si alternavano tra i sipari di un vissuto che riprendeva a scorrere come i cicli delle stagioni, sbranavo i giorni come il tempo spolpa i secondi ma con un avidità da locusta, un avido susseguirsi di appetiti … e ancora corpi, creme e oli profumati, capelli da sciogliere e annusare come fili di un intreccio di fiori, corone di acanto da sistemare con la cura di un giardiniere e mani da carezzare, sguardi da comprendere, respiri corti tra gli affanni del mattino come rorida rugiada e lacrime di luna sui campi incolti di giardini segreti.

E le mie mani divennero me stesso e altro  da me, arti di un prestigiatore dotati di un anima silente, conobbero il linguaggio dei corpi, i profumi della pelle farsi musica e incanto, la luce degli occhi imparai a discernere nel lento mormorare delle ciglia, al battito di palpebre anelanti, una lingua nuova e sconosciuta si alternava a idiomi gia masticati e il suo frugare divenne quello di uno scaltro ladro, il suo cercare quello di uno scopritore di tesori e le sue carezze simili al refolo che giunge dal mare tra le ciocche spoglie dei capelli e la voce bassa che viene dal ventre.

La pelle dei palmi divenne un morbido panno capace di scivolare sul corpo come un raggio di sole di cui si avverte il calore del tocco e ti penetra dentro facendoti sussultare, ebbi una buona educazione tra le stanze di quel mare, tra le viuzze di quei porti e ciò mi fu utile per quella vera, tra i banchi delle medie, o quelli più maturi del liceo.

 E il mutamento ci fu, si perse quel capriccio, quel mutevole sbandamento, l’incredibile palpitazione di un immagine mai definitivamente impressa nella mente, tutto divenne più stabile, continuo, si stemperò la meraviglia per i corpi, per le scoperte più incredibili dell’anatomia umana e incominciai a scrutare le reazioni e  i fremiti della carne, le torsioni dei muscoli, il muoversi di un corpo tra le variabili incognite del suo sentire, l’impulso interno nella sua manifestazione fisica così perennemente dissimile e non catalogabile, e accanto a esso ebbi certezza del pulsare del cuore, del moto universale di ogni cellula di quel mondo fatto di spirito e materia.

 E giunsero gli anni dell’università, intensi come i fumi di torba e le nebbie  tra i laghi di montagna, quel flusso interminabile di cicli e stagioni del vivere quotidiano, immerso nello studio del corpo e della mente più incredibile di questo mondo.

Ciò che imparai è che l’amore muta il modo di amare e tra due amanti se muta l’amore muta il modo di intrecciare i loro corpi, di abbandonarsi all’amplesso. Quasi come se dovessi donare un lascito scientifico all’umanità mi sorpresi ad indagare la natura umana nell’esplicarsi dei suoi intrecci amorosi, delle sue conquiste nelle alte vette di un coagulo di umori, tra corpi caldi e arsi dalla sete di una voluttà primigenia, ma lo feci con la volontà di capire cosa ancora stava mutando col crescere e il perfezionarsi di una curiosità invadente e priva di un limite e cercando di comprendere  la mente semplice di un uomo e quella più complessa di una donna passata l’età dell’innocenza, del dubbio e giunti a quella della consapevolezza, quel limbo oltraggioso che piega l’inconsistenza di un oggettiva voglia di possesso, di dominio.

Scoprii che i dubbi e l’innocenza sono solo dei veli che come un mantello lascia scrutare tra le maglie dei suoi lacci e ci protegge da una realtà insapore che dona tutto al peccato e priva l’essenza della polpa, oltre il quale, svelato l’arcano, spesso rimangono solo corpi in fugace compendio che sfiora l’estasi solo per un soffio di tempo e lascia svuotati dal mistero della compenetrazione e dalla gioia della scoperta , dal gusto di tenersi tra scarni lembi di felicità.

Ventre che spinge su ventre e nella fusione della pelle umida e pungente immaginarsi nell’altro, nei suoi pensieri, nel suo corpo, nel disegno divino di una sola carne,  sentirsi natura ribelle e selvaggia, chicchi di grano nell’impasto di un pane fragrante , lievito che genera lievito nella calma di un ritmo che non conosce fretta.

Ricordi … si solo ricordi di un tempo che sembra ieri, come quelli di un ramingo tra morsi di carne intinta negli oli fumigati di un bordello, tra stanze rosse adombrate di damaschi e arabeschi, luci soffuse e specchi utili a perpetuare l’immagine di corpi sempre uguali a se stessi nella monotonia di rimandi licenziosi. Mani che frugano lembi di pelle nascosta dalle ombre e mai sguardi che si incontrano, lingue addomesticate ai piaceri di una voluttà canonizzata e mai sguardi che parlano fino in fondo di se stessi.

Amori vissuti come orpelli fugaci e stracci bisunti ... ma amori ... sprazzi di un intimità rubata tra lenzuola ingiallite e i fumi che annebbiano stanze decadenti di periferia .
Ora sono stanco ... stanco di sentire il peso dei ricordi, stanco di cercare negli sguardi un desiderio che non si spegne, deluso dall'ego che consuma e dalla fragilità che soccombe tra i bordi di strade sempre più deserte.
Mi alzo e riprendo il cammino, ma la testa è un calderone fumoso che continua a bollire come un crogiolo di un mago, riesco a sentire il profumo della donna che abita sul mio pianerottolo anche in questa notte rancida, diamine, lo sento attraversare le siepi di ligustro e i ciuffi di rosmarino come un aroma che si espande nella radura e mi sento come un segugio che ha fiutato la pista.
Cammino tra i sassi e penso al suo seno che monta sotto l'onda del respiro, saprei descriverne ogni lembo , i  turgidi contorni, le morbide anse e le pieghe della  pelle tra le costole tese come archi di un transetto, la  voce da bambina che scioglie le mie asprezze in un lago di pensieri, i modi affettati da gran signora nel fiore delle sue primavere, i suoi glutei che stirano le sua gonna come a volerne strappare i finimenti, le  gambe disegnate da calze di un nero solenne che lascia immaginare il colore di una carne liscia come il marmo.
Vorrei scalare quei giunchi fino alle loro estreme vertigini, la dove l'oblio mi attende tra labirinti inesplorati e li respirare i profumi del mare, tra ciuffi d'erba e stille di rugiada mi negherei al mondo, tra i suoi frutti porporati aprirei il desco e insieme aspetterei l'albeggiare per risorgere con lei fino al tramonto che mi da una morte apparente.
La vedo aprire la porta col suo nero di bistro appena accennato, lo sguardo impalpabile che si nega alla terra per evaporare nell'aria del mattino e il suo incarnato ambrato tra labbra di melograno, rotondità scabrose ai miei occhi ma so trattenermi e nel vederla sono un falco che scruta una colomba ... solo il sorriso inganna entrambi.
La incontro senza un saluto sul pianerottolo delle scale, solo un lieve malizioso sorriso, un sornione rimandare che lacera le viscere e da un piacere nell'immaginario di un tempo di là a venire, lo stesso rituale si ripete da tempo, uno sguardo all'ascensore e entrambi abdichiamo, io rimango sull'uscio e lei scende le scale, un giorno ci incontreremo in quella scatola di ferro per uscirne coi vestiti a brandelli , così nell'attesa di quel che sarà evitiamo di entrarci .
Troverò questa maledetta strada o una casa in questo posto dimenticato da Dio ... maledizione ... appiedato in mezzo a un bosco in una notte senza stelle e una luna vigliacca che si nasconde dietro un muro di nuvole, ci manca solo che venga a piovere ... Lo penso da meno di un secondo ed ecco un bel lampo e fra poco un bel tuono ... mentre sugli alberi arrivano le prime gocce trasportate dal vento, tra il frusciare delle foglie e l'ululato cupo dei miei compagni ...

 

MARVELIUS

 

 
 
 

Borderline II ...

Post n°102 pubblicato il 09 Maggio 2015 da Marvelius
 

 

 

 

 

 

Giro tra le mani un libro di Terzani , dentro di me ho una gran nausea per come va il mondo, così lo  poso su un tavolo  come un sasso che non rotola ed esco all’aria aperta tra i profumi della notte.

Mi aggiro come un ladro tra le viuzze di pensieri molesti, ascolto i venti e i gelidi bisbigli di parole dimenticate dal tempo, ed’ è come un refrain tra le nebbie di uno spazio sempre uguale a se stesso . Mi siedo afflosciandomi sull’erba come un sacco vuoto, i latrati dei cani infestano la notte squarciandone il silenzio mentre una luna assisa in un cielo nero come una lastra di carbone ne ruba la scena come una gran dama sicura del suo splendore. Tra pietre spigolose e bianche  mi rintano come un animale smarrito e mi scopro granulo  di sabbia che  ha perso il suo mantello d’oro.

Tredici son gli ospiti, porterà mica iattura? E tredici su una bimba che non sa cosa sia la sventura ma solo un dolore che lacera e muta il suo vivere per sempre, un vuoto abisso che mai riempirà svuotando amari ricordi, mentre il sudore si mischia a un sordo piacere di sodali bestie  i cui alibi restano appesi alle loro cintole come stracci putrescenti.

 Una voce echeggia tra i  tartari e le gole dei monti come una reclame pubblicitaria che ha perso i suoi clienti, “è sempre lo stesso mondo dice  e cambia canale, “è un mondo putrido e violento ripete e torna indietro invitando a guardare quel lago tra verdi foreste e fiori pastello immersi tra caule d’erba ondeggianti nel  vento.

È sempre lo stesso mondo… gli rispondo sussurrando tra i denti con lo sguardo emaciato di chi ha visto l’orrore attraversare i secoli e rimpinguarsi d’odio e ferocia, tra  l’indifferenza dei grandi  e l’incapacità dei piccoli , ma sono solo un grano di sabbia e mi affido al vento, così lo prego di portarmi lontano, tra macchine infernali e i tavoli lucidi di raffinati maggiorenti  .

I miei anni sono un vecchio cumulo di battaglie e il mio braccio tornito da vene grosse come giunchi sa ancora afferrare, stringere in una morsa che piegherebbe il ferro,  tu  invece un giovane virgulto, invecchiato osservando nuvole alte nel cielo limpido dell’estate, sordo ai richiami dei papaveri che rossano i campi dell’Ovestfalda  e cieco alle spighe che non ancora mature sono recise  dalle falci messorie di chierici dimoranti sul monte Fato

e intanto un sidro vermiglio  scorre in lindi calici di cristallo.

Svuoto olle fumigati d’unguenti nauseanti e guardo a ostro sui bianchi simulacri del tempo l'immagine di noi sfolgorare tra spire del vento.

 

 

 


 Scheletri rilucono al sole che ne ha spolpato i tendini e la sanguigna carne, finanche la loro storia ora è bruma che si alza muta nel buio di una notte orfana di stelle.

Cosa rimane del nostro stupore, dov’è finito lo sdegno di un tempo, i busti impettiti di rabbia, i pugni stretti nell’attesa di un impeto d’ira furibonda, solo rimandi a un passato gravido di conquiste e laidi oltraggi, eppure un uomo sa scrutare nell’animo dei suoi simili e una donna riconoscere ciò che alberga nel cuore di un figlio , il marcio che rode e consuma gli usberghi  della specie.

 Un ofide striscia tra volute di torba e spire vellutate si attorcigliano ai nostri virgulti, splendide gemme che non fioriranno, occhi diafani e voci stridule strappate anzitempo dal  furore del giorno e dal ghiaccio biancore di una notte d’ argento 

e …  ancora sversa un sidro cinabro in unti calici d’elettro.  

Ho visto sventolare bandiere rigate di bianco e rossi drappi sulle vie dei martiri, scuri sudari mondati dalla pioggia, e al mattino sotto le sferzate del vento i chiari vessilli del potere ghermire il vento come fauci di leoni.

Ho visto tra la sabbia che fa sanguinare gli occhi, schiere di forzati trascinare i corpi donandosi alla morte sui carri di un sole nascente e  popoli dal basso sguardo chinare il capo e con gli occhi in un pelago di rugiada volgere a mancino per non morir vivendo.

Diruti villaggi e pance gonfie di bambini dagli sguardi sparuti, tristi dolenze nella cieca rettitudine di un falcidiante destino e poi …  tavoli d’avorio e bianchi incarti su cui tagliuzzare neri confini  e pingui bottini di malasorte, cupi forzieri di tenebra e specchi di alabastro senza più un  riflesso, tra  spenti fari di un cupo lascito.

 



 

 E ora cosa resta di quel vino in coppe ageminate ... cosa resta nelle mie mani e nel vuoto calco dei miei occhi se non l'inutile fiamma di un commento o l’arsa sete del tetro  Campo di Etrom?

 

MARVELIUS

 

 
 
 

Borderline I

Post n°101 pubblicato il 01 Maggio 2015 da Marvelius
 

 

 

 

Entro in un bar di terz’ordine, un sudicio locale dove ogni avventore sembra un otre pieno di pensieri malconci, finanche il cameriere al di la del bancone ha un viso lungo che invita a bere per non guardare. Poche sedie rattoppate e tavolini di formica rossa, un bancone di legno marcio laccato d’un verde spento su cui si è depositata la polvere di vent’anni e un lercio pavimento oleoso, scuro come il bitume.

Il fumo sale in volute e spirali annebbiando ogni cosa e nell’angolo dove mi sono nascosto anche la luce fatica ad arrivare, un cono d’ombra che rinserra sotto la sua coperta la mia intimità bisognosa di quiete. Seguo con lo sguardo l’uomo che serve dietro al banco dei liquori,  una maschera di un cupo marcio e un corpo smilzo avvolto  nell’ampio grembiule in cui sembra navigare, cercando un appiglio per non lasciarlo andare dietro alla corrente degli spifferi che sibilano tra le commensura del tavolato.Capelli unti e corti striati di bianco . Avrà quarant’anni ma ne dimostra più di cinquanta con quelle sue occhiaie cadenti, le guance smunte e la pelle emaciata di chi non vede il sole da una vita.

 

 

 

 

E il fumo sale come i miei pensieri, si perdono sul soffitto annerito e ridiscendono pesanti come gocce d’ afa che ti si appiccicano alla pelle. La mano  ruota un bicchiere troppo vuoto per alzarlo ancora e  la bottiglia  riflette uno spicchio del mio viso e  lo deforma come uno specchio bislungo, lo penetra coi suoi riflessi tra la luce smorta del locale. Sulla mia destra due uomini rubizzi parlano sottovoce e mi guardano in cagnesco in fondo al locale una giovane donna nei suoi vestiti discinti danza su un cubo che sembra un sasso giunto alla fine della sua esistenza, si agita senza passione  tra movenze lascive e sguardi non troppo convinti di altri uomini sprofondati su sedie bislenghe.

Sorrido di tutto questo, della donna che muovendosi sembra pensare alle sue cambiali, degli spettatori immersi nei fumi dell’alcool e dei due uomini che mi stanno a fianco facendo calcoli su quanto possa avere nel mio portafogli. Potrei sbatterli al muro senza difficoltà e riempirli di bastonate senza sporcarmi di una goccia di sangue e senza smettere di  bere, se fosse ancora pieno il mio bicchiere, e continuare a osservare la decadenza che mi circonda e di cui io stesso sono parte.

Ma non ho voglia di alzarmi e godo nel lasciarli ai loro conti, così piego il capo e i capelli lunghi  mi ricadono sul collo, mentre sfioro il viso con le dita e l'ispido graffiare  della barba incolta da qualche giorno mi ricorda il tempo passato a pensare alla banalità dell'esistenza e alla sua meravigliosa inconsistenza.

 

 

 


L’unico di cui mi interessa è l’uomo col grembiule, il suo sguardo fisso come una maschera di argilla, le sue spalle raccolte sotto il peso di chissà quali ricordi e la sua capacità di lasciarsi attraversare da tutta questa rovina. Mi chiedo come ci sia arrivato qui dentro, cosa ci sia venuto a fare in questa morte che si  trascina tra parvenze di vita, lasciti di speranze infrante sugli scogli delle esperienze, scommesse perse ai dadi col destino beffardo.

Così, tra questi stolti pensieri di un uomo percorso dai dubbi nella certezza del mio essere pensante  lascio cadere due monete accanto al mio bicchiere vuoto, raccolgo il mio bastone d’avorio e  mi alzo come un angelo stanco chiuso nel suo abito elegante.

Prima ancora che i due al mio fianco possano fare lo stesso pianto i miei occhi nei loro come pugnali roventi, li fisso immobile come a scrutarne ogni abisso, ogni più nascosto sentore, e vedo abominio e tristezze turpi rozzezze da disperati  senz’anima, ma i miei occhi sanno ammansire perche in essi ho trasferito ogni mia ferocia, la rabbia di un vissuto che spaventa e  che attraversa i secoli di una vita che ha bandito la morte.

Vedo le loro mani abbandonare una decisione che si spegne tra i fumi di un arrendevolezza troppo presto giunta nei conati della disperazione e i loro sguardi pian piano piegarsi e acquattarsi negli angoli della sala come docili creature dimenticate da Dio . Riprendono a sussurrare dei loro affari ma ogni calcolo su di me  è svanito dalle loro intenzioni e tornano ad affogare le loro inutilità nel rancido lezzo di un liquore che  ucciderebbe un elefante.

 Giro tra i tavoli come un fantasma tra le cripte di un cimitero e mi fermo dinnanzi alla donna, la guardo come se la vedessi solo ora veramente, all’inizio sembra non accorgersi di me, poi pian piano alza lo sguardo e i nostri occhi iniziano a dialogare. Mi fa un sorriso come tanti, ma non ho voglia di carezze ne spiccioli in un cappello, la musica è un massacrante ritornello che strazia le orecchie  e lei un odalisca che ha imparato poche movenze come una straniera la lingua in un corso serale . Mi avvicino a lei fin quasi a sfiorarla, è bella e ha un corpo prorompente, diamine non starebbe li a ballare se così non  fosse. Usa un trucco dozzinale e un profumo di rose che stordisce i sensi, odio entrambe le cose, quel suo rossetto rosso e l’ombretto azzurro lucido e pesante, avrei voglia di toglierglielo col polsino della mia camicia, ma continuo a osservarla e lei a muoversi tra la musica che mi ricorda Samarcanda.

 

 

 


È eccitata dalla mia presenza e finalmente si muove come sa fare una donna e non come un automa che ha reso l’anima per un tozzo di pane, sa ondeggiare i fianchi accovacciarsi come se sentisse il bisogno di urinare e nel farlo mi guarda con occhi pieni di voglie, apre leggermente la bocca e la sua lingua si affaccia per brevissimi attimi sull’uscio delle sue labbra che i denti mordono con lussuria misurata. Le sue mani accarezzano il suo corpo con eleganza, i suoi fianchi con ondulato piacere seguono il bacino smanioso e il suo seno si espone alla vista come una profferta di delizie in un mercato orientale.

Mi accorgo che  anche gli altri uomini sembrano aver dimenticato l’ebbrezza che spezza le gambe, l’alcool che li ha resi ciechi e recuperano ciò che la natura gli ha impresso nella notte dei tempi. Alzo il mio cilindro sulla fronte e asciugo i miei sudori col polsino della giaccia, l’aria è rovente , un afoso vaporio che leva il respiro inebriando i sensi . Quando la voglia ha raggiunto l’apice del mio desiderio le giro dietro e la stringo tra le braccia,la musica si ferma e tutto sembra sospendersi nel tempo scandito dai battiti del nostro petto. Tra respiri affannosi giunge l’ attimo che tutti aspettano , anche l’uomo del bar smette per un attimo di roteare bicchieri intorno a un panno liso e consunto … la bacio e lei sembra perdersi dentro di me … ogni cancello si apre, ogni steccato si infrange sotto l’onda dei nostri odori e tra gli sguardi morbosi degli avventori la porto via, nel silenzio di chi vorrebbe protestare e nella voce mozzata di chi sa che è meglio non fiatare .

 

 

 


 

 

MARVELIUS

 

 
 
 

L'ORFF...

Post n°100 pubblicato il 28 Aprile 2015 da Marvelius
 

 

 

 

 

Eppure… qualcosa indugia sul confine dell'attimo

nel batter d’una ciglia quando tutto si ferma

e li … v’è quella timida dimensione

che pochi sanno riconoscere

Così chi immagina L'Orff

non può che vederlo così

con questa tinta cangiante

che nel suo maestoso divenire

profuma di vita e si colora  di morte …

 

 

 

 

 

Tra sterpi di sarmenti ho abitato

e nei canneti ondeggianti ho eretto la mia dimora

Nel deserto ho bivaccato

tra strappi di carne

e una sete implacabile

Con umiltà ho indossato l'aria del mattino

sulla pelle d'ambra

e nei fili recisi della memoria

 ho tessuto le ragnatele del tempo.

Ora ...  giunto sulla vertigine di un attimo

mi scopro stanco ...

così mi piego dinnanzi al mare

come scheggia di cuoio intinto nel fango

Osservo gli aghi dei ricordi

torcersi come spilli di carta

 e di essi ne faccio una corona di spine

per trarne la rossa linfa

sulle mie rive  bianche...

 


 

MARVELIUS

 

 
 
 

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