Siamo in un regime neofascista

Post n°25 pubblicato il 27 Luglio 2008 da ivanfi

La breve stagione delle illusioni sul "nuovo clima di dialogo" nel Paese e su un Berlusconi "cambiato", quasi "veltronizzato", addirittura assurto al rango di "statista", accreditata dalla "opposizione di sua maestà" del PD, dal rinnegato Napolitano e dai mass media del pensiero unico di regime, è già finita. Spazzata via dagli attacchi forsennati del neoduce alla magistratura, dalle nuove leggi ad personam, dall'uso anticostituzionale dell'esercito per militarizzare il territorio, dalla scandalosa e liberticida legge sulle intercettazioni e dai tanti altri provvedimenti fascisti già varati o in gestazione nel ventre putrido del governo nero-verde.
Di fronte all'evidente fallimento di questa visione edulcorata della realtà, che fino a ieri spandeva a piene mani sul conto del neoduce e sul clima politico nel Paese, la "sinistra" borghese sembra essersi risvegliata dal torpore in cui si cullava e manifestare segni di inquietudine, ma senza avere ancora il coraggio di chiamare le cose col loro vero nome e trarne le debite conseguenze. Non ha cioè ancora il coraggio, e probabilmente non l'avrà mai, di chiamare regime neofascista quello che si è instaurato in Italia e di riconoscere che Berlusconi è il suo nuovo Mussolini. Tutt'al più alcuni settori della "sinistra" borghese arrivano a parlare di "deriva antidemocratica", di "dittatura dolce", di "regime leggero" o anche di "governo del Re Sole", istituendo un parallelo con la monarchia formalmente costituzionale ma di fatto assoluta di Luigi XIV in Francia.
Quest'ultima è la tesi intellettualoide e fuorviante del fondatore de La Repubblica, Eugenio Scalfari, che mentre ieri sosteneva entusiasticamente Veltroni e la sua linea del dialogo col cavaliere piduista, mettendo a disposizione del PD il suo quotidiano per tirargli la volata elettorale, e dopo le elezioni inneggiava al bipartitismo, alla "semplificazione" parlamentare e al dialogo per le "riforme", adesso scopre improvvisamente che se questo non è fascismo "certamente è un allarmante 'incipit' verso una dittatura che si fa strada in tutti i settori sensibili della vita democratica, complici la debolezza dei contropoteri, la passività dell'opinione pubblica e la sonnolenta fragilità delle opposizioni" (editoriale su La Repubblica del 15 giugno dal titolo La parrucca del Re Sole che governa il bel paese). Da notare l'opportunismo di questo preteso moralista della "sinistra" borghese, che se la prende con la "passività dell'opinione pubblica" che anche lui ha contribuito a cloroformizzare, inculcandogli in testa che ormai con la terza repubblica non ci devono essere più "nemici".

Eufemismi, reticenze, ambiguità
Sullo stesso terreno ambiguo e opportunista si mette l'ex ministro della Difesa Parisi, ora ai ferri corti con Veltroni, che in un'intervista a La Repubblica del 16 giugno dice di condividere in pieno l'editoriale di Scalfari e parla di "corto circuito dei processi democratici", ma esclude analogie col ventennio fascista. E avverte il segretario del PD: "Se la maggioranza è debordante e l'opposizione è inadeguata è evidente che la democrazia, come noi la conosciamo, è a rischio. C'è una degenerazione. Se non una dittatura della maggioranza, una distorsione profonda".
Un po' meno reticente l'editoriale su l'Unità del 16 giugno di Furio Colombo, in cui il giornalista e deputato PD ricorda quando nel 2002 lui e il condirettore Padellaro furono convocati dai senatori DS con l'accusa di estremismo perché il giornale usava la parola "regime" nei confronti di Berlusconi e del suo governo, che il partito definiva invece una "sciocchezza". Ed oggi - nota Colombo - "eccoci arrivati alla nuova prova mortale a cui è sottoposta adesso la democrazia italiana".
Ma chi passa ogni limite in fatto di eufemismi e reticenza, considerando anche la provenienza, è l'imbroglione trotzkista Bertinotti, che nella sua interminabile e fumosa relazione al convegno romano organizzato dalla sua rivista Alternative per il socialismo per spiegare "le ragioni della sconfitta", è arrivato addirittura a definire il regime neofascista in camicia nera-verde a cui il PD del neonazionalista e presidenzialista Veltroni e la Sinistra arcobaleno da lui capeggiata hanno spalancato davanti una comoda autostrada, nientemeno che un "regime leggero". Ecco come il narcisista gandhiano e monaco mancato argomenta questa stupefacente scoperta: "Ci sono parole che vanno maneggiate con cura, in politica, perché possono produrre, se si affermassero, quando sbagliate, guai molto seri. Tanto più sono pesanti, tanto più vanno vagliate con particolare attenzione.
Una di queste è la parola regime (...) perciò non ci convinse il ricorso al suo uso di fronte al precedente governo Berlusconi, quando, pur in presenza di elementi assai preoccupanti, grandi contraddizioni animavano, più in generale, il quadro del paese. Ben diversa è la condizione attuale. Credo si debba ora azzardare la tesi, in prima approssimazione e sottoponendola a verifica critica, che quello che sta prendendo corpo è un nuovo regime, il regime leggero. Prendendoci una qualche licenza, si può dire che lo connota l'a-privativa; privativa della stessa politica, se intesa in senso forte come, cioè, idea di società. Nessun terreno è escluso dalla privazione, nell'organizzazione della democrazia, della rappresentanza, del governo".
Il fatto è che questi opportunisti e imbroglioni della "sinistra" borghese - e il caso di Bertinotti è il più emblematico - girano intorno al problema e sono costretti a inventarsi le tesi più ambigue e ingannevoli per non dover ammettere il loro fallimento, il loro immobilismo e il loro totale abbandono del campo alla protervia della destra borghese. Tutto ciò non può che depotenziare la reazione delle masse al dilagare del regime neofascista e del nuovo Mussolini.
 
Napolitano, il nuovo Vittorio Emanuele III
Tutti costoro, invece, rovesciano le loro responsabilità sulle masse stesse, evitano di chiamarle a scendere in piazza e si affidano e si appellano a Napolitano, come a un nuovo Vittorio Emanuele III, per fare "argine" a questa nuova ondata di berlusconismo. Allora stiamo freschi! Scalfari arriva addirittura a raccontare la favola che egli "sta impersonando al meglio il suo ruolo di custode della Costituzione". Ma quando mai? L'unica preoccupazione dell'inquilino del Quirinale è che non vada definitivamente in fumo il dialogo tra PdL e PD sulla controriforma costituzionale per completare il trapasso dalla seconda alla terza repubblica. Non a caso Veltroni, subito dopo aver dovuto annunciare a malincuore a un PD sempre più depresso e allo sbando la sospensione del dialogo con la maggioranza e (udite, udite!) una "grande manifestazione di piazza" (ma in autunno), è corso al Colle per rassicurare Napolitano di non voler comunque tornare alle "contrapposizioni del passato" e di voler lasciare uno "spiraglio" alla ripresa del dialogo sulle "riforme" se Berlusconi si adatterà ad accettare qualche compromesso. E infatti già Fassino dichiara disponibilità al nuovo "lodo Schifani" che il neoduce intende presentare a giorni alle Camere, se il premier "promette" di lasciarsi processare alla scadenza del mandato. Senza contare che intanto va avanti alla chetichella il dialogo in parlamento su altre misure fasciste del governo, come per esempio il decreto rifiuti, dove il PD non si vergogna di fare volta a volta asse col PdL, con la Lega o con L'UDC a seconda degli emendamenti, come del resto aveva annunciato in occasione del voto di fiducia.
È necessario perciò che come nel 2001-2002 gli antifascisti, gli antiberlusconiani e tutti i sinceri democratici rompano ogni indugio e scendano direttamente in lotta, e subito, rompendo con le tergiversazioni soporifere dei leader imbelli e falliti della "sinistra" borghese, che nascondono alle masse la gravità della situazione e coprono di fatto il regime neofascista e il nuovo Mussolini. Abbattere questo regime e questo governo neofascisti è un dovere democratico e antifascista, per tutti coloro che vogliono difendere la libertà, i diritti e le condizioni di vita e di lavoro del nostro popolo.
Bisogna impedire al IV governo Berlusconi di fare un macello sociale, di lanciare l'Italia in nuove avventure militari e di realizzare la terza repubblica capitalista, neofascista, presidenzialista, federalista e interventista".

 
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Piu' di 10 milioni hanno deligittimato i partiti

Post n°24 pubblicato il 26 Aprile 2008 da ivanfi

10.615.207 elettori, oltre un quinto dell'intero corpo elettorale, ha delegittimato i partiti e il parlamento del regime capitalista e neofascista sottraendo loro coscientemente la propria fiducia e il proprio consenso.
Paradossalmente, il fatto che nelle elezioni provinciali e comunali, che si sono svolte contemporaneamente a quelle politiche, l'astensionismo sia invece calato, in alcuni casi anche in modo rimarchevole, rispetto alle precedenti elezioni omologhe, conferma che il voto astensionista non è un fenomeno fisiologico, né un segno di disimpegno o qualunquismo, ma una scelta di voto vera e propria, un atto cosciente e qualificato che l'elettorato sceglie di usare consapevolmente a seconda della situazione politica, nazionale o locale.
Complessivamente nelle 8 province in cui si votava, la diserzione alle urne è calata del 13,4%. Alle comunali la diminuzione è del 5,3%. In sostanza, le elezioni politiche hanno fatto da traino a quelle provinciali e comunali dove tradizionalmente l'astensionismo è molto più alto. E in parte è successo anche viceversa. È il caso di Benevento, dove la diserzione delle urne cala sia alle provinciali che alle politiche, rispettivamente del 2% e dell'1,2%. Anche in Sicilia è evidente che le elezioni per il rinnovo del parlamento regionale hanno a loro volta trainato il voto per le politiche per le quali infatti il dato della diserzione delle urne resta fermo al 25% del 2006.
Anche in questa tornata elettorale e forse più che in passato vi è la prova provata che l'astensionismo è stato alimentato soprattutto dall'elettorato di sinistra che ha voluto così dare una dura lezione alla "sinistra" borghese che ha retto il governo negli ultimi due anni. Si tratta di un astensionismo che viene dalle fabbriche del Nord, dalle periferie urbane, dal Mezzogiorno abbandonato alla miseria, alle mafie e alla monnezza, dalle città martoriate dalla Tav, dalle basi Usa e dagli inceneritori, e viene da quell'elettorato di sinistra che si era illuso che il governo Prodi avrebbe seguito una politica diversa e opposta a quella del governo della destra.
Per questa massiccia componente dell'elettorato di sinistra a niente sono valsi questa volta i ricatti morali e lo spauracchio della vittoria del neoduce Berlusconi. Uno scorno anche per "il manifesto" trotzkista che ha guidato la campagna antiastensionista chiedendo di tapparsi per l'ennesima volta il naso e votare Sinistra arcobaleno o addirittura il PD.
L'elettorato di sinistra non è più disposto come nel passato a firmare cambiali in bianco a chicchessia ed è pronto a chiedere il conto di promesse fatte e non mantenute.
È un dato ormai confermato dalla storia elettorale degli ultimi decenni che l'astensionismo avanza quando la "sinistra" borghese arretra e viceversa. C'è una parte sempre più consistente di elettorato fluttuante che dà fiducia e sostiene la "sinistra" borghese nella speranza che cambi qualcosa e poi, alla prova dei fatti, la punisce sonoramente attraverso l'astensionismo.
Un altro dato significativo è che questa volta sono stati soprattutto i giovani a punire con l'astensionismo la "sinistra" borghese. Si è infatti annullata la forbice dell'astensionismo fra Camera e Senato, in genere più alto in quest'ultimo caso. La differenza ormai è dello 0,1%, e l'incremento dell'astensionismo alla Camera è superiore a quello del Senato.
Alla Sardegna il record dell'incremento della diserzione delle urne col +5,6% che l'attesta al 27,7%, poco sotto al record assoluto che spetta alla Calabria col 28,6%.
Ma non da meno sono le regioni tradizionalmente in mano al "centro-sinistra" come la Liguria dove l'incremento della diserzione delle urne è del 5,5%, e a Genova addirittura del 6,1%. In Piemonte col +4,1% e Torino col +4,7 come Biella. In Emilia-Romagna (+3,4%), Toscana (+3,7%), Marche (+3,5%). Tutte regioni sopra il dato medio nazionale.
Regioni e città dove la "sinistra" boghese, PD e Sinistra arcobaleno, calano in modo ancor più vistoso che altrove. E l'astensionismo sarebbe stato ancor più alto se non fosse stato drenato da Sinistra critica, PCL, Lista per il bene comune dell'ex senatore del PdCI, Rossi, e altri minori che avevano nel simbolo la falce e martello che complessivamente sono riusciti a ottenere 497.536 voti alla Camera e 535.213 voti al Senato.

La destra borghese del neoduce Berlusconi batte la "sinistra" borghese del neopresidenzialista Veltroni. Lo scarto fra le due coalizioni è pari al 6,2% sugli aventi diritto al voto, pari all'8,2% sui voti validi. Ma non si tratta di uno spostamento a destra dell'elettorato come qualcuno tenta di far credere.
Il PDL perde rispetto alle politiche 2006 ben 1.030.046 voti alla Camera e 816.029 al Senato. Rispettivamente il 2,3% e il 2% sul corpo elettorale. La Lega neofascista, razzista e separatista di Bossi avanza ma in realtà è ancora sotto il bottino realizzato in passato. Oggi ottiene infatti 3.026.844 voti, ma nel 1996 i voti erano 3.776.354. In sostanza, ha semplicemente recuperato, e non totalmente, il suo elettorato tradizionale che per alcune tornate si era orientato altrove.
Non c'è stato insomma alcun plebiscito a destra. La coalizione di "centro-destra" è ben lontana dalla maggioranza assoluta e complessivamente ottiene il consenso del 35,3% degli elettori, ossia di un elettore su tre.
Berlusconi ha vinto semplicemente perché Veltroni ha perso. E quest'ultimo ha perso perché il governo Prodi ha fatto la stessa politica del neoduce.
Vero è che a dispetto della volontà della maggioranza del nostro popolo, andrà avanti la realizzazione della terza repubblica, portando a termine il lavoro già fatto con la seconda repubblica. Il che significa accentuare i caratteri e i connotati del vigente regime capitalista, neofascista, presidenzialista, federalista e interventista.
Non solo perché Berlusconi ne ha i numeri parlamentari, ma perché Veltroni si è immediatamente dichiarato più che disponibile a realizzarla insieme.
Il neoduce, mostrando tutte le sue ambizioni mussoliniane, ha dichiarato: "Voglio restare nella storia del mio Paese come uno statista che lo ha cambiato" e ha annunciato che "si potrebbe riesumare il lavoro della Bicamerale del '94 a partire dal risultato cui pervenimmo di comune accordo". E il neonazionalista e presidenzialista Veltroni di rimando gli ha risposto: "Siamo pronti a discutere subito in Parlamento delle riforme istituzionali a partire da quella elettorale". Risulta evidente che pur cambiando i fattori il risultato sarebbe stato lo stesso. Chiunque avesse prevalso elettoralmente, erano entrambi fermamente convinti a portare fino in fondo la realizzazione della terza repubblica.

La Sinistra arcobaleno paga il conto più salato al fallimento del governo Prodi. L'astensionismo, da una parte, e il ricatto elettorale del PD, dall'altra, l'hanno spazzata letteralmente via dal parlamento. Né alla Camera dove realizza il 2,4% sugli elettori, né al Senato dove ottiene il 2,5% riesce a superare il quorum e ad ottenere seggi.
In termini di voti assoluti il tracollo è verticale. Sinistra arcobaleno rispetto ai voti presi nel 2006 da PRC, PdCI e Verdi, senza quindi calcolare il serbatoio di voti di Sinistra democratica di Mussi che all'epoca stava nei DS, perde addirittura 2.848.229 voti al Senato e 2.773.976 voti alla Camera.
In particolare si è approfondita la scollatura dell'elettorato di sinistra operaio, giovanile e delle periferie urbane dall'imbelle, opportunista e filocapitalista Sinistra arcobaleno. La rottura del rapporto di fiducia dei movimenti dai partiti che in due anni hanno condiviso e coperto tutta la politica antioperaia, affamatrice e guerrafondaia del governo Prodi e infine si sono sbarazzati anche formalmente e simbolicamente della falce e martello. Lo dimostrano i risultati disastrosi realizzati in Piemonte dove da 325.107 voti delle politiche 2006 passa a 92.699 voti attuali, in Lombardia da 497.768 a 153.107, in Emilia-Romagna da 294.993 a 84.174, in Toscana da 335.683 a 106.537.
Il fatto significativo è che ora sono tutti a dolersi per la sconfitta della Sinistra arcobaleno, in particolare di Bertinotti. Persino il leccapiedi di Berlusconi, Emilio Fede, ha dichiarato affranto: "Mi spiace che Bertinotti voglia uscire di scena".
C'è nella classe dominante borghese la consapevolezza che l'uscita dal parlamento della Sinistra arcobaleno scopre il fianco sinistro al regime capitalista e neofascista e può preludere all'esplosione di nuove contraddizioni di classe e movimenti di lotta non più controllabili e incanalabili sul terreno istituzionale e parlamentare.

 
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Post n°23 pubblicato il 21 Gennaio 2008 da ivanfi

Sono passati cinquant'anni da quel 1° gennaio 1948 in cui entrò in vigore la Costituzione della Repubblica italiana, cinquant'anni di schiavitù e oppressione per il proletariato, cinquant'anni costati miseria, indicibili privazioni e lutti alle masse popolari mentre la borghesia ha spadroneggiato saldamente al potere appropriandosi di incalcolabili ricchezze e privilegi di ogni tipo. Quest'anniversario è l'occasione buona per un bilancio che aiuti il proletariato, forte anche dell'esperienza storica maturata nel secondo dopoguerra, le masse popolari e le nuove generazioni a prendere coscienza della sua natura borghese e antiproletaria.
La Costituzione del '48 ha consacrato attraverso principi essenziali, norme giuridiche fondamentali e ordinamento statale il sistema economico, politico e sociale capitalistico e lo Stato repubblicano a dittatura della borghesia, contribuendo a evitare che l'abbattimento del regime fascista conquistato dalla vittoriosa Resistenza armata contro il nazifascismo potesse in qualche modo compromettere la sopravvivenza e favorire la disgregazione e rovina dello Stato borghese. Ecco qual è il suo carattere di classe e quale il suo significato storico.
Quantunque sia stata oggetto di un vero e proprio culto da parte dei revisionisti togliattiani e della corrente più a sinistra dei costituzionalisti borghesi, e sia tuttora venerata dal PRC, battezzatosi ``popolo della Costituzione'', come una divinità taumaturgica capace di produrre democrazia, la Costituzione del '48 non ha fondato nessuno Stato nuovo ma ha semplicemente riorganizzato sulle basi nuove della repubblica democratico-borghese la forma di dominio e la struttura dello Stato capitalistico configurate e attuate dal regime fascista mussoliniano. Senza ledere in alcun modo il dominio della borghesia, senza cioè toccare l'essenza dello Stato capitalistico, ha semplicemente introdotto quelle modifiche, anche profonde, indispensabili dopo la caduta del fascismo e ha realizzato in Italia quanto non era accaduto prima, accomunandola nel suo percoso storico a tanti paesi capitalisti che si erano già trasformati con tempi e modalità diversificati da monarchie assolute a monarchie costituzionali, a repubbliche, a repubbliche parlamentari. Si ripeteva così in Italia quanto aveva modo di osservare acutamente Marx nel corso delle rivoluzioni borghesi ottocentesche: ``Il dominio borghese come emanazione e risultato del suffragio universale, come espressione della volontà popolare sovrana, questo è il significato della Costituzione''. La ``repubblica borghese significa dispotismo assoluto di una classe su altre classi'' e rappresenta per le diverse frazioni della borghesia la ``forma più solida e più completa del loro dominio di classe''.

come la concepiva Togliatti

Che cos'è una Costituzione? Non possiamo cioè definire i caratteri di classe e le peculiarità della Carta costituzionale del '48 senza aver chiarito che cosa dobbiamo intendere per Costituzione in generale. Altrimenti quest'ambiguità finirà per spuntare come un folletto, complicare inspiegabilmente anche la più chiara delle materie e vanificare ogni critica.Come spiega bene Mao: ``Un'organizzazione deve avere le sue regole e così uno Stato. La Costituzione è un insieme di regole generali, è la legge fondamentale''.La Costituzione - secondo la precisa definizione data da Stalin che peraltro ci aiuterà moltissimo nel trovare una risposta completa a questa domanda prioritaria - è la legge fondamentale, e null'altro che la legge fondamentale''di uno Stato. Nulla di più e nulla di meno della legge fondamentale. Il che significa, com'ebbe a spiegare bene Stalin, che non le si può attribuire fantasiosi e inconsistenti poteri programmatici né svilirla al rango di un codice legislativo. Soggettivamente potremmo anche contraddire questo assunto, poi ci penserebbe la realtà stessa delle cose a imporsi, a dimostrare l'inconsistenza di ogni nostra ipotesi velleitaria e fantasiosa. E se guardiamo al nostro secondo dopoguerra, la storia ha finito sempre per prendersi la rivincita.La Costituzione - aggiunge Stalin - non deve essere confusa con un programma. Ciò vuol dire che tra un programma e la Costituzione vi è una differenza sostanziale. Mentre il programma parla di ciò che non esiste ancora, che deve essere ottenuto e conquistato nell'avvenire, la Costituzione, al contrario, deve parlare di ciò che esiste già, che è già stato ottenuto e conquistato, adesso, nel momento presente''. La Costituzione non esclude, ma presuppone il lavoro legislativo corrente e di futuri organi legislativi. La Costituzione dà una base giuridica alla futura attività legislativa di questi organi''.Per quanto possa informare l'attività legislativa futura la Costituzione non disegna uno Stato futuribile o auspicabile ma lo presuppone, è espressione di quello Stato storicamente determinato sia esso capitalista che socialista e non può in alcun modo sovvertirlo. Non è lo Stato a poggiare sulla Costituzione bensì è la Costituzione a poggiare sullo Stato. La Costituzione è la registrazione e la sanzione legislativa della conquista già ottenuta e garantita''. Queste illuminanti definizioni date da Stalin circa il carattere, il ruolo e il valore delle costituzioni sono state esplicitamente negate e contestate da Togliatti in sede di prima sottocommissione dell'Assemblea Costituente. Illustrando le proposte del PCI, questa volpe revisionista si arrampica sugli specchi per dimostrare che nel caso italiano si vede costretto a distaccarsi da questa norma. E le ragioni risiederebbero nella peculiarità della caduta del fascismo e dal momento che, a suo dire, ``non è avvenuta, tra di noi una rivoluzione la quale abbia violentemente distrutto tutto un ordinamento sociale gettando le basi di un ordinamento nuovo''.
Confondendo ad arte rivoluzione socialista e lotta antifascista, che per forza di cose si era limitata all'abbattimento della dittatura mussoliniana e aveva visto il concorso di correnti e partiti per questo obiettivo comune, Togliatti si appella all'unità antifascista per accomunare partiti che viceversa dovrebbero avere programmi politici diversi e antagonistici, come del resto le vicende successive dimostreranno amaramente: riguardo ``alle trasformazioni sociali, si può dire che è in corso nel nostro paese un processo rivoluzionario profondo, il quale, però, per comune orientamento delle forze progressive, si svolge senza che sia abbandonato il terreno della legalità democratica... Per questo parliamo... Di una `democrazia progressiva''. Il processo rivoluzionario a cui pensa è evidentemente tanto profondo da risultare indefinibile e impercettibile, tanto ambiguo dal punto di vista di classe da presupporre l'abbandono del terreno della lotta di classe, il solo terreno su cui la rivoluzione avanza e non si impantana nel volgare riformismo borghese.Insomma questo rinnegato cerca di giustificare il tradimento della rivoluzione socialista, che avrebbe dovuto dirigere il PCI dopo la vittoria della Resistenza, attribuendo surrettiziamente alla Costituzione una funzione propulsiva che essa non avrebbe mai potuto intrinsecamente possedere. Anzi ne fa una sorta di surrogato della lotta per il socialismo, la sostituisce alla lotta di classe e vede nella Costituzione il quadro legislativo elastico e aperto entro cui avrebbe dovuto dipanarsi la sua ``via italiana al socialismo'', prestando molta attenzione a non allarmare la borghesia e ad assicurarla sul senso generale delle pretese avanzate dal suo partito in sede di definizione della carta Costituzionale: ``è per questo che le proposte che io faccio, pure muovendosi nella direzione di una trasformazione economica socialista, mi sembra possano essere accettate da tutte le correnti democratiche e progressive dell'assemblea e del paese, poiché del socialismo esse esprimono quello che oramai è entrato nella coscienza comune di tutte queste correnti, e veramente può diventare elemento di orientamento e guida per tutta la nazione''.Se il socialismo a cui pensa Togliatti può essere accettato tranquillamente da tutti i partiti borghesi esistenti, come la DC di De Gasperi, il PSI di Nenni, il PSLI di Saragat, il presidenzialista Partito d'Azione, e divenire spontaneamente ``orientamento e guida per tutta la nazione'', allora quel socialismo è niente di più di una generica e innocua adesione ad altrettanto generici principi che non hanno niente a che vedere col socialismo autentico per cui hanno combattutto Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao. E del resto, paralizzati dalla camicia di forza della legalità democratico-borghese, non si potrebbe andare al di là del pretesco socialismo solidaristico e filantropico vagheggiato come messianico futuro da chi vuol semplicemente stemperare le asprezze del capitalismo, imbellettarlo e renderlo meno inviso agli sfruttati.Il socialismo, quello vero, non può coesistere ed è inconciliabile col capitalismo: è il frutto della rottura rivoluzionaria ossia della distruzione della macchina statale borghese e della sua sostituzione con la dittatura del proletariato. E come non esistono in Occidente Stati non più borghesi e non ancora socialisti, così è pure fantasia concepire, come fa Togliatti, una Costituzione in grado di compiere quella miracolosa metamorfosi. Tant'è che a cinquant'anni di distanza l'unica metamorfosi che è stata in grado di ispirare e avviare è la restaurazione sotto nuove forme del regime mussoliniano.Solo se si fa piazza pulita di ogni fumosa ambiguità sul carattere di classe borghese della Costituzione italiana, se ne possono evidenziare le particolarità essenziali. Chiamarla, come fa Togliatti, ``progressiva'' poiché non si limita all'enunciazione dei diritti civili e politici, ma prevede un presunto programma di trasformazione dei rapporti sociali, è invece un modo per aggiungere ambiguità ad ambiguità e si risolve in un opportunistico artificio per evitarne una esplicita definizione di classe.

Costituzione borghese

La Costituzione italiana è una Costituzione borghese da cima a fondo, dall'articolo 1, che la apre e ne elenca i primi ``Principi fondamentali'', fino all'articolo 139, che la chiude prima delle ``Disposizioni transitorie e finali''. E ciò lo evidenziano ogni suo passaggio e formulazione.
Ma esistono due ragioni fondamentali che precedono ogn'altra considerazione: la prima è il carattere capitalistico del sistema economico da essa presupposto, sancito e tutelato, un carattere ritenuto tanto scontato dai costituenti da indurli a non trattarlo in modo organico e completo in un solo articolo ma a lasciarlo trasparire come una legge indiscutibile, naturale e assoluta che non suscita perplessità e quindi non necessita di essere affermata e sottolineata. Tale scelta fu senz'altro suggerita da opportunità di carattere contingente, come la necessità di coprire il PCI di Togliatti che avrebbe solennemente sottoscritto quella carta costituzionale e l'avrebbe persino elevata a stella polare del suo programma politico; tuttavia, se ci riflettiamo, risponde a un'altra e più ambiziosa necessità che accomuna tutte le costituzioni borghesi, cioè quella di sacralizzare i principi borghesi come se fossero principi naturali, inviolabili, eterni e universali. La proprietà privata capitalistica è considerata dai costituenti come un assioma, una proposizione primitiva accettata per vera ed evidente, e come tale non si discute, un fondamento entrato a far parte del Dna della società borghese a cui evidentemente pensano. Per far affiorare il primo comandamento borghese che la proprietà privata capitalistica è sacra, occorre passare in rassegna i tredici articoli dedicati ai ``Rapporti economici'' e cogliere quei passaggi da cui risulta il suo carattere prioritario.
Due sono in particolare gli articoli significativi, il 41 e il 42, che recitano rispettivamente: ``L'iniziativa economica privata è libera''; ``la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto''. A evidenziare il conflitto tra capitale e lavoro salariato che contraddistingue il sistema economico capitalistico ci pensano poi gli articoli 36 e 37, che fissano le regole di quello che definiscono senza imbarazzo ``lavoro salariato''. E le fissano capovolgendo le modalità che legittimano e consacrano la proprietà privata. Mentre l'articolo 41 sanziona l'illimitata libertà del capitale, il 36 disciplina le questioni essenziali relative alla produzione e riproduzione della forza-lavoro.La seconda ragione fondamentale a rendere la Costituzione italiana una Costituzione borghese è il cordone ombelicale che la lega allo Stato capitalistico, da essa sanzionato, riorganizzato e ridisegnato. Pur senza addentrarci nell'esame dell'``Ordinamento della Repubblica'' che costituisce la Parte seconda della Costituzione, appare indubitabile che, al di là delle nuove forme, della riorganizzazione statale, delle nuove norme giuridiche fondamentali dell'intero ordinamento statale rispetto al precedente Stato fascista, essa non sostituisce ma perpetua lo Stato capitalistico, non instaura un fantomatico Stato di tutto il popolo, democratico e al di sopra delle classi, ma impone la dittatura della borghesia nella forma più evoluta e aggiornata. ``Il tipo più perfetto e progredito di Stato borghese - spiegava Lenin - è la repubblica democratica parlamentare:  il potere appartiene al parlamento; la macchina statale, l'apparato amministrativo e l'organo di direzione sono quelli di sempre: esercito permanente, polizia, burocrazia praticamente irremovibile, privilegiata, posta al di sopra del popolo''.Per quanto possa apparire profondo ed esteso il cambiamento prodottosi con l'avvento della Repubblica si tratta pur sempre di un cambiamento che tocca le forme del dominio di classe e non l'essenza della macchina statale capitalistica. Tant'è che per decenni è proseguita la polemica sulla continuità sostanziale e persino formale tra Stato fascista e Stato repubblicano che del precedente manteneva la vecchia legislazione, il codice Rocco, i vecchi apparati polizieschi e burocratici, e istituti di controllo governativo sul potere locale e sul territorio, come il sistema prefettizio.Lo Stato riorganizzato dalla Costituzione repubblicana rimane lo Stato capitalistico anche se il suo nuovo volto può apparire esteriormente quasi irriconoscibile, ove si dimentichi che essa fu il prodotto della vittoria della Resistenza, di quella lotta armata di popolo che racchiuse in sé il duplice carattere di rivoluzione antifascista e di guerra civile. Il rivolgimento sociale e politico da essa provocato era stato il frutto di un'alleanza tra svariate classi come il proletariato, i contadini, la piccola borghesia e la borghesia democratica e repubblicana. Un'alleanza che i dirigenti revisionisti togliattiani lasciarono egemonizzare alla b

 
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Revisionismo

Post n°22 pubblicato il 29 Novembre 2007 da ivanfi

È proprio il caso di dire che nella riscrittura della storia e nell'attacco al comunismo, dove non arriva la destra, arriva la "sinistra" del regime borghese.
Mi riferisco all'ignominioso convegno anticomunista voluto e organizzato dal Comune di Firenze nella persona del neo assessore alla cultura Giovanni Gozzini sostenuto anche dalla regione Toscana nella persona di Ugo Caffaz (PD), direttore delle attività culturali. Il tema, "Il terrore in Unione sovietica fra il 1917 e il 1953", ossia come infangare la vittoriosa e storica Rivoluzione d'Ottobre guidata da Lenin e da Stalin.
Si parte dai Gulag per attaccare totalmente la lotta per il socialismo che ancora fa tremare le classi borghesi di tutto il mondo.
Nei Gualg, risposta socialista al problema delle carceri, venivano inviate persone arrestate e condannate dai tribunali a lavorare magari per la prima volta nella loro vita; nemici del comunismo e della patria sovietica quali speculatori, incettatori, sabotatori dell'economia, oziosi, kulaki (contadini ricchi antisovietici), trotzkisti, parassiti borghesi privilegiati, ma anche terroristi, disertori, seguaci del vecchio regime zarista, collaborazionisti delle armate bianche durante la guerra civile e degli invasori nazisti nella seconda guerra mondiale, agenti della borghesia e dell'imperialismo occidentale infiltrati nel partito e nello Stato, fino ai delinquenti comuni.
La borghesia e i suoi lacché parlano di malattie, morti per fame, bieco schiavismo, negazione dei più elementari diritti. Che infami! Tutt'oggi giudicano e definiscono come il regno della democrazia gli Usa, dove impera la pena di morte fascista, dove i penitenziari come Alcatraz hanno fatto la peggiore storia detentiva, mentre a Guantanamo i prigionieri islamici vengono trattati come bestie, torturati e annientati psicologicamente. L'inferno di queste carceri davvero non ha nulla a che vedere con i campi di rieducazione dell'epoca di Lenin e Stalin. Certo che c'erano le malattie e il cibo era scarso dopo il 1917 o durante la seconda guerra mondiale ma questa era la difficile e inevitabile situazione di tutto il Paese, di tutto il popolo sovietico.
Per vomitare veleno e falsità sul comunismo, sui grandi maestri del proletariato internazionale Lenin e Stalin, sulla grande esperienza storica della dittatura del proletariato e sull'edificazione del primo Stato socialista nel mondo, è stato scelto non a caso il 90° Anniversario della Rivoluzione d'Ottobre.
Per riscrivere la storia, con bugie e falsità, il comune di Firenze e la regione Toscana, si sono affidati a "illuminati e storici" che tra le loro biografie annoverano studi e teorie contro Lenin, Stalin e il comunismo, ritirando fuori la questione dei Gulag sovietici equiparati ai campi di concentramento nazisti.
Non meraviglia che nessuno dei partiti borghesi locali della cosiddetta "sinistra radicale" abbia denunciato quest'iniziativa, dissociandosi, lasciando invece campo libero ancora una volta alla destra che trova soddisfatto il suo livore anticomunista non solo nella "giornata anticomunista" ma anche in questa iniziativa, spianando di fatto la strada a quanti, come il capogruppo dell'UDC alla Camera Luca Volontè, vogliono mettere il comunismo fuori legge.
È grazie a Lenin se il proletariato russo ha potuto liberarsi dallo zarismo, è grazie a Stalin che si è edificato il primo Stato socialista nel mondo e si è potuto sconfiggere il mostro del nazifascismo.

 
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PD

Post n°21 pubblicato il 24 Ottobre 2007 da ivanfi

Le elezioni primarie per il Partito democratico del 14 ottobre hanno incoronato leader a grandissima maggioranza il liberale borghese e anticomunista Walter Veltroni. Una maggioranza di oltre il 75%, che unitamente alla grande affluenza di oltre tre milioni di votanti ai seggi conferisce alla sua elezione un forte carattere plebiscitario, superiore alle previsioni.
Evidentemente ha funzionato bene il sostegno che la grande stampa borghese, da "la Repubblica" al "Corriere della Sera", per non parlare ovviamente de "l'Unità", del Tg1 di Riotta e del Tg3, ha accordato al neopodestà di Roma e al nascituro PD, come ha funzionato il pompaggio del "nuovo" soggetto politico da parte della grande borghesia, con diversi grossi banchieri e imprenditori che sono anche andati di persona a votare alle primarie. Tra questi l'amministratore delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, la cui moglie era candidata con Rosy Bindi, i banchieri di Intesa Sanpaolo Pietro Modiano e Enrico Salza, il petroliere Massimo Moratti, la cui moglie Milly era candidata per Veltroni, l'avvocato degli Agnelli Franzo Grande Stevens, gli industriali Arturo Artom e Anna Maria Artoni, grandi elettori di Letta, la moglie del presidente di Pirelli Tronchetti Provera, Afef, testimonial per Veltroni, e il presidente del gruppo editoriale "l'espresso" Carlo De Benedetti, che votando a Torino ha dichiarato: "A fine 2005 auspicai che si andasse alla costituzione del PD e indicai anche in Veltroni uno dei leader che avrebbero potuto realizzarlo. La mia presenza è conseguente a quel che ho detto e pensato. Spero vivamente che il PD sia un elemento chiarificatore della politica italiana e ne metta in movimento il quadro".

Il candidato dei "poteri forti"
Tutto questo ha portato acqua al mulino di Veltroni, che con la sua politica di apertura al centro e a destra e di chiusura a sinistra, è stato fin dall'inizio il candidato superfavorito dei "poteri forti" e dei grandi mass-media del regime, e ha profittato più dei suoi avversari dell'alta affluenza al voto, lasciando agli altri candidati un ruolo da comparse che ha finito per far risaltare ancor di più la sua investitura plebiscitaria. La democristiana prodiana Rosy Bindi, che aveva cercato di ritagliarsi uno spazio scavalcando a sinistra il neopodestà di Roma con una campagna dagli accenti vagamente sociali e "laicisti", non ha raggranellato che il 14% dei voti, mentre il democristiano di destra Enrico Letta ancor meno, l'11%. Insignificante la prestazione degli altri due candidati, Mario Adinolfi e Piergiorgio Gawronski.
Con le primarie del 14 ottobre e l'investitura plebiscitaria del suo leader Veltroni nasce un nuovo (vecchio) partito borghese liberale e anticomunista. "Nuovo" perché non ha più niente in comune con la storia, i valori e le tradizioni del movimento operaio, della sinistra in generale e perfino della socialdemocrazia dai quali lontanamente proviene la sua componente principale, ed è invece in tutto e per tutto un partito borghese, anticomunista e liberale; un soggetto del tutto nuovo nel panorama politico italiano, dichiaratamente ispirato al Partito democratico americano, e a maggior ragione dopo queste elezioni primarie all'americana orchestrate sapientemente per dare una vernice "democratica" all'elezione del candidato già deciso dagli apparati politici e dai "poteri forti" che l'hanno sponsorizzato.
Non a caso, nella sua conferenza stampa subito dopo le primarie, Veltroni ha detto che "il Partito democratico inventerà un nuovo lessico per la politica italiana", perché, ha spiegato, "i cittadini non ci chiedono solo che il PD sia un'altra tappa di una storia, ma di fare una cosa del tutto nuova, chiedono discontinuità". E sempre non a caso, per sottolineare il "successo strepitoso" delle primarie, "l'Unità" ha titolato a tutta pagina "La rivoluzione d'ottobre", rilanciando una definizione del democristiano Dario Franceschini, braccio destro di Veltroni. Un'operazione quindi chiaramente suggerita al quotidiano vicino ai rinnegati della ex Quercia dallo staff veltroniano, per sottolineare la distanza siderale che separa ormai il nascituro PD dalle lontane radici della sua componente diessina.

Da revisionista ad anticomunista
Ma allo stesso tempo il PD è anche un partito vecchio, perché non è altro che la somma di due apparati di potere e di clientele politiche, quello dei rinnegati del comunismo, che hanno attraversato indenni e perfettamente adattati tutte le fasi del tradimento storico della classe operaia e del socialismo, fino ad approdare nel campo della borghesia e del liberalismo, e quello degli ex democristiani, che ancora coltivano le inveterate pratiche egemoniche e clientelari e i forti legami con la mafia e il Vaticano, più i rottami dei vecchi partiti socialista e liberale sfasciati da tangentopoli.
Lo stesso Veltroni, che per autoesaltare la "novità" della sua leadership liberale rispetto ad "ex comunisti" di apparato come D'Alema e Fassino, si vanta di non essere mai stato comunista, in realtà ha avuto più o meno la stessa storia e lo stesso percorso politico dei suoi ex compari nel PCI revisionista. Tant'è vero che in una sua recente biografia dal titolo "Veltroni, il piccolo principe", gli autori ricordano per esempio che in un suo discorso del 1974 sul problema della droga, il leader liberale e anticomunista del PD sentenziava: "I giovani sognano una società più giusta e umana, quella società per noi è il socialismo". E anche su Berlusconi la pensava assai diversamente da oggi, che chiede di non demonizzarlo, di smetterla di considerare nemico, ed è arrivato addirittura ad offrire pubblicamente a sua moglie Veronica di entrare a far parte del PD: "Dal 1988 ho avvertito che Berlusconi era un pericolo per la democrazia italiana", andava dicendo infatti, sempre a stare al suddetto libro biografico, negli anni della scesa in campo del cavaliere piduista.
Ma oggi Veltroni, forte dell'investitura plebiscitaria che gli dà una posizione di arbitro e di portavoce praticamente unico della "sinistra" borghese, ha ben altre idee, e scavalcando lo stesso Prodi chiama direttamente la destra borghese al dialogo in nome del "rinnovamento" del Paese, a cominciare dalle controriforme istituzionali, facendo sapere come segnale politico di aver trovato "graditissimo" il biglietto di auguri inviatogli dal caporione fascista Fini. Non a caso ha subito voluto precisare che quello che lo ha incoronato leader del PD è stato "un voto per e non contro, un voto sereno, razionale, determinato e anche allegro e festoso". E ha poi ribadito con enfasi che occorre fare subito il pacchetto di "riforme costituzionali" già all'esame in commissione parlamentare, tra cui la riduzione del numero dei parlamentari, il monocameralismo e la corsia veloce per i provvedimenti del governo. A cui egli aggiunge di suo il potere per il premier di nominare e revocare i ministri, e cioè il presidenzialismo: "risultati significativi - ha concluso con piglio decisionista Veltroni - potrebbero essere ottenuti in otto mesi".

 
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