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Post Palio by Barney (utente di facebook)

Post n°1128 pubblicato il 29 Giugno 2016 da massimo.maneggio

Il Puffo, le nocipesche e il Palio del Principe.

 

Sabato mattina, vigilia del Palio, dal fruttivendolo.

Tutto come sempre, cassette di verdura accatastate ovunque e profumo intenso di frutta matura. Predominanza di rosso pomodoro e verde cetriolo. Oltre alla titolare del negozio ci sono due signore di mezza età e un signore abbastanza anziano. E il sottoscritto, naturalmente. Parlano del tempo, della verdura che non fa in tempo a maturare e già marcisce, di come una volta alla fine di giugno gli alberi fossero ricolmi di frutta e invece adesso niente. Una normale conversazione da fruttivendolo in un sabato mattina d’inizio estate, come altre migliaia nei secoli dei secoli. Mi tengo in disparte aspettando il mio turno, sforzandomi di ricordare bene cosa devo comprare. In pratica cerco di evitare il solito cazziatone una volta arrivato a casa. Non è facile, ci provo.

A un certo punto però, capita qualcosa che disturba la geometria del quadro e ne modifica l’atmosfera. Succede quando il signore anziano se ne esce con un’affermazione apparentemente fuori luogo: “Però u’ Puffu è nu trarituru”.

A un eventuale spettatore generico, capitato per caso in quel luogo proprio quella mattina, la frase avrebbe di certo provocato un moto di sorpresa. Ma ancora più sorprendente sarebbe stato per lui assistere alla discussione successiva. Come colpita da pungiglione, una delle signore si scaglia contro l’anziano, con una gragnuola di Picchì Picchì che avrebbero stordito un toro. L’altra gli fa da contrappunto con una coreografia di gesti e movimenti degna di uno spadaccino alle olimpiadi. In pochi istanti l’anziano viene messo in un angolo, farfuglia, sembra intimidito, pare crollare sulle cassette delle melanzane di Sicilia, quando giunge inattesa in suo soccorso la titolare del negozio, che da dietro il banco si lancia in un’intemerata a sostegno delle sue ragioni. Brandendo minacciosamente una zucchina, arringa con inaspettata veemenza le due donne, le quali, per niente impaurite, continuano a mantenere il punto senza arretrare di un millimetro, incalzate a loro volta dall’anziano ripresosi dalla momentanea debacle e rinfrancato dall’inaspettato sostegno. Continuano per un pezzo, ho l’impressione che potrebbero farlo per ore. Invece improvvisamente si placano. Come colti da tacito segnale, i quattro invasati si voltano contemporaneamente verso il sottoscritto, guardandomi fisso negli occhi. Mi rendo conto che sono giunti a una fase di stallo, è chiaro che si aspettano da me una parola che faccia pendere la bilancia verso l’una o l’altra delle fazioni. Mi viene l’ansia, sento la responsabilità del ruolo. Già provato dallo sforzo mnemonico di ricordare cosa diavolo devo comprare, vado nel panico. E mi sento dire:

 “Signò, ma le nocipesche da dove arrivano?”

Questo episodio di vita vissuta mi ha spinto a fare due generi di riflessioni.

La prima è che, a mio parere, il Palio di Bisignano ha parecchi difetti.

Innanzitutto è gestito in maniera sostanzialmente inalterata da almeno dieci anni e questo comporta una certa ingessatura nell’organizzazione che ne limita il respiro e pregiudica la crescita ulteriore della manifestazione verso l’esterno. La comunicazione dell’evento è spesso slegata, frutto di azioni estemporanee e non unite in una strategia generale. Alcuni degli eventi legati a latere non ricevono copertura adeguata con il risultato di ottenere poca audience e finire nel dimenticatoio. La sfilata storica è più una riunione di buone intenzioni sartoriali che un reale corteo in abito d’epoca. Il regolamento della giostra cavalleresca è fumoso e spesso incomprensibile e comunque ignoto alla stragrande maggioranza degli spettatori. Capita spesso di assistere a contestazioni di questo o quel quartiere per via della poca chiarezza in determinate situazioni di gioco. Un caos nel quale diventa facile innescare polemiche e discussioni.

Queste critiche, opinabili in quanto soggettive, dicono molto ma non tutto perché c’è un’altra riflessione da fare, che parte dalla constatazione di un fatto incontrovertibile: il Palio di Bisignano piace.

Piace molto ai bisignanesi adulti, checché ne dicano loro stessi, visto che ormai è parte integrante della loro vita quotidiana, tanto che ne discutono spesso a casa o al bar. O dal fruttivendolo, appunto. Il Palio è presente nei discorsi di chi lo segue con passione e di chi lo snobba con un’alzata di spalle, zenit e nadir di accapigliamenti infiniti senza mai arrivare a conclusioni condivise, come in ogni lotta di religione che si rispetti. Dopo ogni Palio, puntuali si presentano le rimostranze di chi ritiene di aver perso la gara per un errore della giuria e non si rassegna a essere sfottuto fino all’anno successivo. È un gioco ma è anche una cosa seria.

Questo perché nel corso degli anni il Palio ha fomentato lo spirito di campanile tra borgo e borgo, aizzando positivamente gli animi di un paese morto e sepolto da tempo sotto le macerie dell’ignoranza e della rassegnazione. Quando si accendono le luci sulla contesa, una benefica scossa elettrica attraversa i quartieri e ricollega il cuore dei bisignanesi a quello della città, ravvivando uno spirito antico e smarrito sotto cumuli di cenere.

Ma il Palio piace anche ai bisignanesi giovani. Stormi di ragazzi e ragazze si destano dall’abituale torpore e sciamano operosi per le strade, dividendo tra loro la fatica di addobbare strade e organizzare sagre. Addirittura per un po’ si dimenticano perfino di fratello smartphone. E i compaesani puntualmente li premiano, confluendo sempre numerosi alle feste propiziatorie dei vari quartieri. Grazie, si mangia a poco, dicono i maligni ed è vero ma non è tutto perché l’impegno viene sempre riconosciuto e l’impegno dei ragazzi ancora di più, perché è come vedere il futuro mentre si realizza.

E poi c’è la giostra.

Il giorno della gara, il campo brulica di gente di tutte le età, pronta a rinunciare alla sacralità della dormitina post pranzo domenicale e a sfidare la canicola per accaparrarsi un posto sulla tribuna. Un immenso maelstrom di colori, rumori, tamburi, grida e battiti di mani agita la folla in maniera incessante per tutta la durata della contesa. Bambini bardati nei colori dei quartieri corrono come coriandoli in mezzo alla ressa, fieri e divertiti di far parte di un clan. Mariti e mogli che per un giorno si dividono, lanciandosi sberleffi dai rispettivi confini. La gara è emozionante, si può sentire la tensione di cavalli e cavalieri mentre mordono il freno in attesa del via e poi di corsa verso il Campo del Sole o il Campo del Muro a raccogliere anelli e colpire saracini in un tripudio di urla e braccia alzate.

Un’autentica festa collettiva.

Tornando alla storiella del fruttivendolo, non lo so chi tra i contendenti avesse ragione, e cioè se il Puffo sia un traditore oppure no. Non è questo il punto della questione. Quello che so è che il Palio piace anche ad un criticone come me, e ho voglia a dire che potrebbe essere organizzato meglio e che si potrebbe fare questo o quello ma la verità è che è uno spettacolo che vale la pena di guardare perché possiede un fascino anacronistico e provinciale, potente perché viscerale e fuori moda, coinvolgente oltre le critiche e i mugugni dei sotuttoio. E non è un merito da poco.

Suppongo che ce ne sia abbastanza per fare un grande applauso al Centro Studi del Palio, per aver saputo costruire e sostenere una festa che, a conti fatti, è ormai l’unico momento reale di aggregazione sociale della città, parte ormai integrante del tessuto sociale e capace di coinvolgere come niente altro.

E vivaddio, almeno per un giorno all’anno Bisignano diventa l’ombelico del mondo.

Ah, le nocipesche provenivano da Corigliano ed erano anche buone.

 

Non come quelle di una volta, ma insomma.

 

Barney Panofsky

 
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