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Mondo Jazz

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OMER AVITAL QUINTET: DUE RECENSIONI

Post n°2056 pubblicato il 12 Dicembre 2011 da pierrde
 

Sabato ero indeciso se fare un salto l’indomani al Teatro Manzoni, in pieno centro milanese, per il concerto del quintetto di Omer Avital. Sarà stata l’idea di catapultarsi fuori dalla cuccia calda di domenica mattina, o anche (confesso l’ignoranza!) la caratura di Avital che mi pareva vicina al puro oblio.

Personalmente era la prima volta che ne sentivo parlare. Ma le brevi note nella brochure del Manzoni mi stuzzicavano non poco, ed alla fine eccomi al Manzoni, a quell’ora insolita (le 11 del mattino!), in un teatro gremito all’inverosimile. Difatti abbiam corso il rischio di tornar a casa con le pive nel sacco se non fosse stato per i soliti che prenotano e non appaiono poi. Ho trovato i biglietti per pura fortuna. Certo che se il mondo dello spettacolo ha le sue strane regole, quello del jazz è…..”peggio mi sento”!

Non si capisce come per un concerto di Ron Carter al Bluenote -di tempo fa- ci fosse a malapena il pieno, in un locale infinitamente più piccolo del capientissimo Manzoni, ed invece per Omer Avital (con tutto il rispetto parlando…..) ci sia stato il pienone totale. Ma va bene uguale; dispiace solo vedere una scarsa affluenza di giovani. Anzi, pareva che il jazz fosse “popolare” anche tra persone, come dire?, indubbiamente assai “diversamente giovani”…..

Insomma, eccoci a bomba: il quintetto lo intravvedo da lontano (sono quasi vicino alle porte di ingresso di questo bellissimo teatro), e già sta suonando da un alcuni minuti. Il leader, Avital appunto, avrà sì e no trent’anni, di origine israeliana ma trasferito a New York ove è ben inserito nel milieu jazzistico. Suona il contrabbasso, oltre ad essere compositore e arrangiatore. Nonostante il caldo del teatro tiene indosso la giacca sgargiante e addirittura una sciarpa, oltre ad occhiali con lenti colorate, tipo da sole, di foggia da rapper.

E’ un tipo buffo –sembra un circense- con capelli neri ricci e barba….pare grosso modo una specie di Pino Daniele giovane, per intenderci. E’ piazzato sul palco quasi non da leader: semi nascosto tra i due solisti ai fiati, ben dietro, nella classica postazione del contrabbassista. Alla sua destra un gigantesco batterista di colore, Jonathan Blake, altissimo e peserà oltre la tonnellata abbondante. Il suo drumming è magistrale. Pare la reincarnazione tutto ad un botto, che so io… di Elvin Jones e Art Blakey in una stessa persona. Fantastico. Ha suonato in passato con la Mingus Big Band, Russell Malone, John Scofield e David Sanchez. Anche lui pare esser davvero giovane.

Tornando al centro del palco troviamo il sassofonista Joel Frahm: un tipo anche lui alto due metri e pesante quanto un boxeur dei pesi massimi. Pare un oste bavarese della Oktober Fest: pelle chiarissima, capelli cinerei, oltre a questa stazza gigantesca. Suona soprano e tenore ed è stato con Ben Allison, David Kikoski, Dewey Redaman, Betty Carter e Fred Hirsch. Accanto a lui Avishai Cohen, certamente il più noto del quintetto, leader a sua volta, alla tromba. Pare il diametralmente opposto al sassofonista. Peserà 50 chili! Segaligno in una maniera incredibile, ha una folta capigliatura alla Battisti con barba: è israeliano come Vital –mentre tutti gli altri sono americani- e pare la reincarnazione di un predicatore di Sacre Scritture.

Una parvenza ascetica. Bizzarro: anche Avishai par aver freddo. Lui indossa infatti un cappottino spinato col bavero alzato! Il pianista, Jason Lindner, assomiglia invece tremendamente a Joe Jackson, il cantautore pop che ebbe un notevole successo negli anni ottanta. Anche lui filiforme e smilzo: super inserito nella scena jazzistica nuovayorchese. Il primo pezzo non mi fa saltare sulla sedia: riecheggia moduli à la Coltrane, e dico: “eccoci!”, questo è il biglietto d’ingresso del free! E la cosa mi sarebbe dispiaciuta molto, detto questo con tutto il rispetto, sia chiaro, per chi ama invece questo genere. Intendo con la parola free un concetto più vasto, che abbraccia soprattutto quel certo genere specialmente europeo di stampo “cameristico”, un po’ alla ECM per intenderci. Insomma à la Trovesi, per fare un nome. Ebbene, io lo sento “lontano” dal “cuore” pulsante del jazz.

Non sto dicendo che questo è jazz, e quello non lo è. So bene che il jazz non lo puoi per sua natura tentar di incasellare in formule di rito, sennò lo ammazzi. Ma dal mio umile punto di vista quel jazz ove appunto la pulsazione non ha più la peculiarità dello swing, mi stona un po’, e non mi compiace. Tutto qua. Mentre penso alla “minaccia” di sorbirmi un po’ di elucubrazioni stile dodecafonico-Ecm-mazurchette varie-jazz ecco che il qui gruppo parte col secondo pezzo ed è una ballad. Non vi dico! Mi si schiude un mondo! Pare la miglior versione dei Jazz Messengers rediviva in tutta la sua potenza: una cosa toccante!

La musica che ne viene fuori da questo manipolo di giovani che in cinque non avranno neanche 150 anni è di una bellezza travolgente. Un misto tra jazz hard-bop reinterpretato con gusto attuale di sopraffina eleganza, charme e bravura. I musicisti stessi sembrano gioire e divertirsi sul palco nel senso più sano del termine. Il pubblico è scatenato. Una selva di applausi segue ogni assolo. I brani, mi par di capire, per lo più a firma del leader, si susseguono uno dietro l’altro e sono uno più bello dell’altro.

Non mancherò di fare incetta dei cd o dei file liquidi di questo gruppo. Dentro la loro musica c’è tutto: avant-garde, jazz da parata degli anni venti, sapori degli anni cinquanta, tutto condito da una robustissima dose di swing (in un pezzo Avital “slappa” il contrabbasso come facevano i contrabbassisti agli albori, tirando appunto le corde verso l’esterno e facendole sbattere sulla tastiera) e soprattutto da linee melodiche super cantabili che rendono godibilissima questa musica. Alla fine un solo di Cohen col ma tromba sordinata manda in visibilio la platea. Che dire? Chapeau o “hat off” per Omer Avital Quintett: è nato un grande gruppo! Indimenticabili! E un grazie sentito a chi ha portato in Italia musicisti di tale levatura!

(Danilo Fabbroni)

Il successo di pubblico è stato pieno ed il gruppo indubbiamente è composto da ottime individualità.

Ma più che la sfavillante tecnica dei singoli è stata la bontà delle composizioni e degli arrangiamenti a fare la differenza. Eppure, a dispetto degli articoli di presentazione letti sui quotidiani, la musica appariva come un indeterminato post-bop appena spruzzato di colori e aromi mediterranei e medio orientali sui temi più lenti.

Una serie di ballate dalla felice linea melodica che si intersecavano a temi più mossi, mettendo in luce sia i fiati sia la magnifica sezione ritmica dove a turno si ergevano a protagonisti ora il drumming implacabile di Blake, ora il suono possente e legnoso di Avital.

Lindner mi ha molto colpito: conoscevo quel magnifico album orchestrale, Premonition, in cui è protagonista di temi e arrangiamenti, ma dal vivo il suo ruolo di play-maker è uno spettacolo intrigante e incisivo.

Frahm è convincente e dotato, sopratutto con il tenore,dal quale ricava una sonorità vagamente imparentata con quella di Garbarek. L'effetto nelle lente ballate era di un richiamo al quintetto europeo di Jarrett, con quei temi speziati e quelle melodie saltellanti e di pronto impatto lirico.

La tromba di Avishai Cohen è svincolata da qualsiasi evidente influenza, e si muove a proprio agio tra jazz e altre musiche con tecnica cristallina e rilucente.

Complessivamente la musica dei cinque sembra superiore alla somma delle individualità: forse quella indeterminatezza, quel essere e non essere, a cavallo tra riferimenti etnici e tradizione afro-americana riesce a catalizzare al meglio le composizioni di Avital. Naturalmente c'è anche sapienza e capacità di saper divertire , a volte scegliendo qualche soluzione facile a discapito di maggiore profondità, ma l'ora e mezza di concerto è volata in un battibaleno.

(Roberto Dell'Ava)

 

 
 
 
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