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Mondo Jazz

Il Jazz da Armstrong a Zorn. Notizie, recensioni, personaggi, immagini, suoni e video.

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INTERVISTE

Post n°2153 pubblicato il 20 Febbraio 2012 da pierrde

Spizzicando nella rete si trovano sempre pagine interessanti e che vale la pena riportare. E' il caso di queste due interviste, al fotografo Andrea Boccalini e al batterista Roberto Gatto, dalle quali riprendo alcuni passaggi interessanti.

 

Le nuove tecnologie permettono a chiunque di poter fare se non ottime, buone foto.. cosa fa la differenza?

Le nuove tecnologie aiutano sicuramente a fare delle ottime foto, ma solamente da un punto di vista estetico e tecnico. Fortunatamente non sono in grado di ricreare la realtà impressa nell'immagine. La differenza quindi è nella capacità di saper cogliere lo sguardo del soggetto ritratto o il momento cruciale dell'evento a cui stiamo assistendo, li non esiste tecnologia che ci possa aiutare, o ci sei o no ci sei, o lo senti o non lo senti. La storia l'hanno scritta molte immagini belle e che raccontavano molto, oppure immagini esteticamente non impressionanti ma in grado di descrivere un epoca. La tecnologia aiuta solamente l'aspetto effimero della fotografia, ma non quello sostanziale che ha ancora un valore, sebbene più esiguo.

 

I jazzisti, notoriamente poco avvezzi a curare l'immagine oggi ne sembrano addirittura ossessionati.. Marsalis fu il primo e gli altri hanno seguito a ruota... quanto conta l'immagine rispetto al contenuto, ora?

Nel jazz non si è ancora arrivati ai livelli di esasperazione del Pop, tranne che per qualche caso piuttosto raro. penso che a salvarlo da questa deriva sia il fatto che il pubblico sia ancora di nicchia e sia un pubblico spesso consapevole dei contenuti e non si lasci ingannare dalle apparenze. Quindi si ha ancora la libertà di apparire per ciò che si è senza preoccuparsi di ciò che i media hanno venduto al grande pubblico per mascherare una carenza di contenuti artistici.

Questo in linea di massima, ovvio che poi c'è l'aspetto edonistico e egocentrico più o meno spiccato in ogni artista che può manifestarsi in diverse maniere. Finché questa attenzione non serve a mascherare un vuoto creativo e quindi ad ingannare la platea meno preparata non penso ci sia nulla di male. Negli anni passati si suonava in giacca e cravatta, e non a caso i jazzisti della vecchia scuola si presentano eleganti anche al sound check, difficile trovare Ornette Coleman in Bermuda e infradito.

Penso che Marsalis, Roy Hargrove e molti altri artisti con un look molto ricercato, più che ai musicisti pop si ispirino alla tradizione dei grandi jazzisti del passato, anche se con un appeal molto più mediatico. Per esempio trovo molto più ossessionati dall'immagine di se stessi quei musicisti che giocano sulla totale avversione all'immagine, Jarret docet. Penso che questi casi siano frutto di una strategia di immagine e comunicazione molto più estrema e studiata di quanto non lo sia l'attenzione al proprio look.

Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/blogs/fanfara-frenetica/andrea-boccalini-fotografo-jazz#ixzz1mpqVZtjW

Il jazz si sta diffondendo anche tra il grande pubblico. Sta perdendo forse l’aura di musica d’èlite che lo accompagnava?

«Contrariamente a quanto qualcuno ha affermato, il jazz è una musica d’èlite. Non è un caso infatti che questa musica si suoni nei club, che ospitano un pubblico ridotto. In America, la dimensione propria del jazz è quella dei club».

L’America è la ‘culla’ del jazz. Ma qualche anno fa si diceva che gli italiani ‘lo fanno meglio’...

«Un abbaglio mostruoso, nel quale forse sono caduto anch’io. Abbiamo raggiunto un livello molto alto, ma l’Italia non è un paese ‘fatto’ per questa musica. Non viviamo la frenesia di una città come New York, abbiamo altri usi e costumi. Abbiamo bravi musicisti che suonano il jazz, ma fare veramente jazz vuol dire ‘vivere’ questa musica a 360 gradi, nel suo ambiente, studiandolo e ricercando continuamente».

E lei studia?

«Continuamente. Confesso però che tempo fa non lo facevo: ho sempre pensato che suonando spesso avrei potuto evitare di studiare. Sbagliavo».

Come ha cambiato idea?

«Dopo un viaggio a New York ho avuto una sorta di visione. In quei giorni ho vissuto veramente la città e il jazz: concerti, jam session, prove a casa dei musicisti. Lì devi continuamente misurarti con quello che la ‘Grande mela’ sforna ogni giorno e con tanti musicisti, spesso più bravi di te. Mi sono detto ‘forse è meglio tornare a studiare’».

Continua su : 

http://www.ilrestodelcarlino.it/modena/spettacoli/musica/2012/02/15/668388-modena-baluardo-jazz-gatto.shtml

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Commenti al Post:
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Gianni M. Gualberto il 20/02/12 alle 14:43 via WEB
Quello che dice Gatto, con molta umiltà e senso della realtà, è nient'altro che la verità. E fa piacere un tributo a Shelly Manne, strumentista a suo modo geniale e originale, oggi ingiustamente e scioccamente dimenticato.
 
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riccardo il 21/02/12 alle 12:17 via WEB
riporto testualmente e sottolineo: "Un abbaglio mostruoso, nel quale forse sono caduto anch’io. Abbiamo raggiunto un livello molto alto, ma l’Italia non è un paese ‘fatto’ per questa musica. Non viviamo la frenesia di una città come New York, abbiamo altri usi e costumi. Abbiamo bravi musicisti che suonano il jazz, ma fare veramente jazz vuol dire ‘vivere’ questa musica a 360 gradi, nel suo ambiente, studiandolo e ricercando continuamente". Mi fa piacere che vi sia ancora qualche musicista e operatore del settore onesto intellettualmente. Quel che dice Gatto è sacrosanta verità. In questo paese si preferisce continuare a fare una pesante e capillare disinformazione in merito e far credere che dei nani autentici del jazz siano dei giganti. Tutta la mia stima per il coraggio di Gatto.
 
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daniele il 21/02/12 alle 19:47 via WEB
allora se non si vive a NY non si fa jazz. Se non si compete a nY si è jazzisti di serie B. Jarrett, Shorter, danilo perez, brian blade, charlie haden sono i primi 5 nomi che mi vengono in mente e non abitano a NY. Secondo me gatto ha preso una grande cantonata. NY è piena di musicisti di grandissima levatura,c'è un grande fermento, ma anche un sacco di musica " accademica " inutile ,nonchè una miriade di musicisti che possono sbattersi quanto vogliono, ma saranno sempre inferiori a qualche musicista che abita a Londra, Parigi, nella periferia di Oslo o di Milano.
 
 
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riccardo il 21/02/12 alle 21:05 via WEB
vedo che si rosica e si schiuma rabbia perchè finalmente qualche musicista italiano serio dice la verità. Tra il parere di Daniele e quello di Gatto non ho dubbi a chi dar retta. Daniele di jazz sa poco, e fa solo del tifo da stadio per i jazzisti italici in modo aprioristico, certo mastica il jazz meno di Gatto e può dire quel che vuole. Lasciamo perdere i dettagli: basta che non sia quell'orrendo gezzetto privo di ritmo e che viene fatto passare per grande musica improvvisata mi va benissimo invece è solo lagna aritmica per chi piacevole per chi non sa distinguere la trombetta di Carnevake con la tromba. Il jazz italiano è e sarà ininfluente nella storia della musica italiana nonostante gli sforzi contrari di chi da decenni disinforma in materia. New York, L.A.. Chicago, K.J nel New Jersey, va benissimo qualsiasi luogo americano per far jazz migliore. Non ci vuole molto.
 
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riccardo il 21/02/12 alle 21:08 via WEB
ininfluente nella musica afroamericana intendevo scrivere, ma in fondo non ho sbagliato di molto: Mina vale assai più di Rava in ambito musicale italiano...e forse anche Ninini Rosso...
 
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daniele il 22/02/12 alle 01:27 via WEB
io non sto rosicando: sembra che gatto abbia scoperto l'america , anche se già ci aveva pensato colombo e dopo di lui numerosi musicisti di origine italiana. Visto che tiri in ballo sempre rava (che palle però) lui già stava a Ny quando gatto studiava i primi rudimenti della batteria (devo dire con futuro profitto) e tu quelli del sax (con scarsi risultati mi sembra). Quella dell'energia newyorkese è una banalità disarmante . E comunque le cose più interessanti le stanno facendo i musicisti che a te non piacciono.
 
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Gianni M. Gualberto il 22/02/12 alle 10:25 via WEB
Non so di quali banalità disarmanti si parli. Se si intende dire che al di fuori del cosiddetto jazz esistono nuovi linguaggi che, in parte influenzati proprio dall'improvvisazione africano-americana, oggi offrono prova di notevole vitalità (poi bisognerà valutare la loro "tenuta", ma questo è discorso che attiene ai posteri), niente da ridire. Se, invece, parliamo del jazz, o come lo si voglia chiamare, allora si parla di un Canone ben preciso, con un'idiomaticità specifica, che s'inserisce di diritto e di fatto nell'alveo della cultura africano-americana e, dunque, della cultura americana più in generale. Affermare che il jazz sia una sorta di teodicea generica in cui chiunque può raggiungere risultati indiscutibilmente idiomatici porta al triste risultato di voler privare gli africano-americani di un "diritto di primogenitura" che è storicamente indiscutibile. Nessuno discute che esistano musicisti europei e non americani in generale che danno prova di creatività: pochi fra di loro, però, possono o potranno mai vantarsi di avere radicalmente contribuito allo sviluppo diquesto linguaggio, sebbene oggi lo scambio di informazioni e di nozioni ed esperienze, nel contesto creativo, sia ben più ampio che in passato. Ma la costruzione di un linguaggio non avviene solo per gesti eclatanti, piuttosto avviene per progressive minuzie che si radicano nel tempo. E poiché il diavolo, come si sa, s'annida nel dettaglio, non sempre la ciambella idiomatica riesce con il buco, se mi si passa un'espressione del genere. L'insistere su di un predominio europeo, quasi fosse una questione di supremazia culturale o altro, sa spesso di razzismo alla rovescia o di neocolonialismo vagamente arrogante. Dalla Seconda Guerra Mondiale in poi l'Europa è venuta via via perdendo di centralità, soprattutto economica e con tutte le conseguenze del caso: nel cosiddetto "villaggio globale", continuare a pensare in termini eurocentrici è tratto da esicasti e, comunque, non cancella un dato di fatto: larga parte di ciò che oggi ascoltiamo, anche in taluni ambiti accademici (e la bella intervista di Gyorgy Ligeti lo conferma), evidenzia una chiara matrice africana o africano-americana. In fin dei conti, i colonizzatori di un tempo sono stati progressivamente "colonizzati" dagli schiavi e sfruttati di un tempo. Nel corso del XX secolo le culture d'ascendenza africana non solo hanno saputo imporre e diffondere le loro tradizioni ma, soprattutto, hanno saputo fare un uso particolarmente creativo, in uno "spariglio di carte" che è stato un vero e proprio ribaltamento di regole lessicali, anche di quella tradizione europea che è stata loro a lungo imposta. Fare paralleli fra ipotetiche nullità americane e presunti artisti a Oslo o chissà dove, mi pare azzardato, più simile a una boutade di stampo guascone. E sarà pure vero che al di fuori dell'Europa l'accademia (che, direi, langue non poco e non da poco anche nel Vecchio Mondo, sempre più racchiusa in una torre eburnea di grande intelligenza e di non minore sofisticazione ma di altrettanta inefficacia) non ha molto da dire (non sarà un problema generalizzato, invece, di ogni accademia odierna?); cionostante, direi invece che proprio molta accademia extra-europea s'è posta, nel secondo dopoguerra, il problema di un rapporto comunicativo con il pubblico persosi, a torto o a ragione, da tempo. Mi colpisce ben di più, invece, l'esplosione di creatività, magari ancora informe, che, al contrario, è evidente nei mondi extra-europei (che proprio dall'immenso laboratorio multietnico rappresentato per decenni dagli Stati Uniti hanno tratto esempio), che si tratti di Israele, della Turchia, del Brasile o dell'India (direi che Tel Aviv e Istanbul sono oggi i due più affascinanti esempli di melting pot creativo che si possano citare). L'intervista di Gatto m'è parsa un buon esempio di onestà intellettuale: certi linguaggi vivono di canoni ben precisi, sviluppatisi in contesti altrettanto specifici. Nell'ambito di tali canoni possono essere certo imitati, anche con un eccellente livello di approssimazione. L'originalità idiomatica mi pare un altro paio di maniche, a meno che, per l'appunto, non si parli di elaborazioni che vogliono evadere dai suddetti canoni, esplorando territori altri: il che, ovviamente, è più che legittimo, è indispensabile. Di "classicità" disponiamo, ahimé, a piene mani. Mi ricordo che a scuola, in Brasile, un giorno chiesi a un mio compagno di studi le impressioni riportate da un suo recente viaggio in Europa. La risposta fu secca e sconcertante: "E' tudo velharia!", è tutta roba vecchia. Un'esagerazione iconoclasta? Forse, ma non senza un pizzico di amara verità: la creatività difficilmente si afferma senza la cosiddetta "vitalità del negativo", la negazione, persino feroce, di quanto accaduto prima e che, comunque, è stato inevitabilmente assimilato nella memoria storica.
 
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riccardo il 22/02/12 alle 14:08 via WEB
non so quali sarebbero i musicisti che a me non piacciono e che starebbero facendo "le cose più interessanti"(e chi è a stabilirlo? Tu daniele, e chi sostiene che Rava è un grande trombettista jazz, che Petrella un grande trombonista e la Gambarini una grande vocalist, L'Instabile una grande orchestra e Bollani in genio? Ma per carità, vendete certa fuffa agli sprovveduti cui siete abituati a rivolgervi e chi vi danno retta, ma lasciatemi stare). Il far credere poi che un continente e in particolare un paese come il nostro in profonda crisi sociale e culturale da decenni, oltre che economica, sia l'epicentro artistico della musica improvvisata mondiale è solo un'autentica barzelletta che può essere venduta in un paese ancora jazzisticamente incolto come questo, che si merita gli inni di berliusconi e i rutti di Bossi e i politici corrotti che ha (e non solo i politici...). E quando parlo di profonda e radicata disinformazione in materia non lo dico a caso, visto che ne riscontro quasi quotidianamente i danni. Ad esempio il mese scorso mi si avvicina un collega docente a spiegarmi che il jazz è un prodotto italiano americano perché il primo ad incidere un disco jazz sarebbe stato l'italo americano Nick La Rocca che lo ha inventato...Questo è il prodotto culturale che si confeziona intorno al jazz in questo paese e che viene percepito dalla gente comune. Dopo di che si può tranquillamente non conoscere Shelly Manne, o l'opera di Woody Shaw o Tom Harrell per affermare che Rava è uno dei più grandi jazzisti della storia di cui l'Italia dovrebbe menar vanto...roba da vergognarsi avendere certe panzane e essere felici di ascoltarsi Laura Pausini o Emma a vita...
 
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loopdimare il 24/02/12 alle 22:41 via WEB
A caldo mi sono detto:bravo Gatto! poi ci ho ripensato ed ho cominciato a sentire un po' luogo comune uscire fuori. Visto che il jazz è musica d'elite e non esprime più l'anima nera, come qualche decennio fa, dire che a New York è meglio può essere vero ma non scontato. Considerando poi che, inevitabilmente, il jazz oggi è diventato accademia, un abile riproposta del passato, seppur mediata da sottigliezze formali e virtuosistiche di rilievo, non è nemmeno più necessario abbeverarsi a New York e comunque molto lontani dal Lincon Center... Se si vuole ascoltare qualcosa di differente, magari per poi negare che sia jazz, allora mi sembra che il gioco sia un po' più complesso e la scacchiera mondiale. Se invece ci si accontenta di un hard bob rivisitato, allora può darsi che la grande mela vada benissimo ancora...
 
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