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Mondo Jazz

Il Jazz da Armstrong a Zorn. Notizie, recensioni, personaggi, immagini, suoni e video.

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JAZZ DISCUSSION

Post n°2163 pubblicato il 28 Febbraio 2012 da pierrde

Come padrone di casa, avendo più volte espresso la mia opinione, sono rimasto in disparte ad assistere alla discussione, traendo stimoli e giuste osservazioni ora dall'uno ora dall'altro.

Mi pare di poter dire, a questo punto, che a meno di interventi di altri appassionati che ancora non abbiano espresso una loro idea originale, il dibattito si sia esaurito nella cristallizzazione delle rispettive posizioni.

Le posizioni sono state espresse con chiarezza e forza, magari anche a discapito di qualche ruggine personale. Difficile che qualcuno cambi la propria idea, ma in fondo non era questo l'obiettivo quanto mettere sul tavolo e sviscerare le diverse ottiche con le quali è possibile osservare quel vasto movimento di musicisti e idee che va sotto il nome di jazz italiano.

Credo che ognuno, e parlo dei lettori che non sono intervenuti, si sia fatta la propria opinione. La discussione non si ferma certamente qui, come tutte le correnti che hanno attraversato e segnato la storia della musica afro-americana, anche il jazz nato e sviluppatosi fuori dalla sua culla naturale ha una vicenda che è in divenire e che probabilmente sarà descritta e inquadrata più compiutamente dagli storici che verranno. 

Anche sul sito di Gerlando Gatto, A Proposito di Jazz, si è sviluppato un dibattito sul tema che però ha seguito percorsi differenti. Da ultimo un editoriale di Luigi Onori che riepiloga la situazione. Il link per leggere l'intervento :

 http://www.online-jazz.net/wp/2012/02/12/molte-le-cose-da-fare-per-avere-ancora-speranza/

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Commenti al Post:
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loopdimare il 28/02/12 alle 18:47 via WEB
Un ringraziamento al padrone di casa che ha tolto l'avvio automatico, visto che stavo ormai passando al partito anti-Rava... Mi dispiace che si siano sommati due discorsi che sono finiti in contrapposizione: quello su Rava e quello su Marsalis, due artisti di livello diverso e non comparabili. E mi dispiace anche che la foga polemica abbia lasciato cadere alcune mie provocazioni banalotte ma che erano la diretta conseguenza di alcune considerazioni di Riccardo (Peterson o Monk? Miles o Dizzy?). ovvero il sempre irrusolto problema tra tecnica e creatività. Sul discorso generale del jazz italiano fatto da di Luigi Onori, posso dire che si si guardano le cose dl punto di vista delle infrastrutture culturali il mio pensiero è negativo: pochi posti per fruirlo, poche sedi per insegnarlo e tutto in un contesto molto incerto. Ma siamo in Italia e le cose vanno così...
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Jazz from Italy il 28/02/12 alle 21:19 via WEB

“Il Jazz italiano si è incamminato con baldanza ed entusiasmo per una strada fondamentalmente sbagliata, dove ogni progresso è deprecabile perché non può che condurre sempre più lontano dalla strada maestra, e cioè dal jazz autentico. Più che una questione di maggiore o minor talento si tratta infatti di una questione di serietà: serietà che poi significa rispetto per la tradizione jazzistica ed aderenza a quegli stili che si praticano negli Stati Uniti e che si imitano, con maggiore o minore fedeltà ma sempre con grande rispetto, in tutti i paesi d’Europa. Non ci si illuda infatti di poter fare qualcosa di serio abbandonando i sentieri del vero jazz (New Orleans, Dixieland o Bebop, non importa); non ci si illuda di potersi permettere il lusso di esperienze personali con un linguaggio che non si è ancora perfettamente assimilato. Coloro che credono di nobilitare il jazz addomesticandolo ed attenuandolo con sdolcinature da dancing di periferia, si convincano una volta per sempre di essere su una strada sbagliata. Gli appassionati del jazz conoscono iljazz molto meglio di quanto i nostri musicisti non credano e non sono affatto indulgenti verso le mistificazioni. È dunque giunta l’ora di fare un sincero e spietato esame di coscienza. Domani, quando i vizi d’oggi saranno generalizzati e consolidati fino a diventare costume, potrebbe essere troppo tardi. Quando i contatti con la tradizione jazzistica (e cioè col jazz che si pratica nel resto del mondo) saranno del tutto perduti, sarà impossibile tornare indietro. È giunta l’ora che i nostri solisti si convincano che un assolo è buono soltanto se è mantenuto nei limiti dell’atmosfera suscitata dagli altri solisti o dai passaggi arrangiati, se è opportuno e tempestivo, se è discreto, se esprime delle idee, logiche, chiare, musicali e se queste idee sono espresse con una tecnica impeccabile. È ora di dire basta ai gratuiti balbettamenti armonicamente anodini, tirati faticosamente innanzi senza ritmo, a due battute per volta: è ora che l’improvvisazione ridiventi una logica invenzione, aderente al tema armonico del tema base, con un capo ed una coda. Un capo e una coda, sicuro… Date queste premesse, ovvie sono le conclusioni. Bisogna ricominciare da capo. Quanto si è fatto fino ad ora valga come esercizio ginnastico. Il periodo della preparazione preatletica è finito. Ora bisogna mettersi con serietà a fare del jazz. E per jazz intendo vero jazz: quella forma musicale cioè, le cui leggi sono ormai ferme e la cui estetica non è più, oggi, opinabile e modificabile a volontà”.

 
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loopdimare il 28/02/12 alle 21:34 via WEB
scusate, ma 40 anni di jazz europeo non vi dicono niente? Gaslini, Trovesi, Portal, Garbarek, Brotzmann, Komeda, Stanko, Surman, EST, ecc... Siamo ancora qui a chiedere il serrate le fila? Mi sembra di vedere le posizioni anti-bebop di Panassié e soci...
 
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Jazz from Italy il 28/02/12 alle 23:50 via WEB
opss... ho dimenticato di citarvi l'autore : Arrigo Polillo “La Strada Sbagliata”_Musica Jazz anno IV – n° 6 – Giugno 1948
 
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Jazz from Italy il 28/02/12 alle 23:59 via WEB
certo è che se noi siamo ancora quì, più di mezzo secolo dopo queste infelici righe, ad attaccarci a vicenda in tre gatti su cosa è jazz e cosa non lo è, davvero vuol dire che la musica non ha avuto vita facile in questo paese, e non farà molta strada, di conseguenza. E pensare che c'è ancora chi incolpa i musicisti per questo...
 
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loopdimare il 29/02/12 alle 10:53 via WEB
Un gran bello scherzo!
 
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riccardo il 29/02/12 alle 14:27 via WEB
Per quel che mi riguarda vorrei chiarire il senso della polemica che mi ha visto protagonista al di là di rava e del suo valore musicale e delle diverse legittime opinioni. Il problema non è non riconoscere il jazz europeo come lascia intendere loopodimare. Quello che sta avvenendo da un paio di decenni, e che io riscontro da tempo almeno nel nostro paese, è che si vuol far credere o imporre il messaggio che il jazz oggi lo si fa qui e ora e non più nella sua terra d'origine. Perché per dire che Rava è valido devo affermare che Marsalis è una disgrazia per il jazz? A mio avviso potrebbe essere addirittura l'esatto contrario, ma non capisco perchè uno deve negare l'altro, o meglio capirei un tentativo disinformativo sì maldestro se fossi direttore marketing dell'ECM non certo nel mio ruolo di appassionato di jazz e di preoccupato pdella sua divulgazione. Perchè devono cadere nell'oblio Gillespie o Woody Shaw per esaltare Rava? Mi si dirà che nessuno di noi lo fa, può essere, ma poi esiste il riscontro "sul campo". Andate in giro a chiedere nei teatri quanti nel pubblico conoscono Rava e quanti conoscono Woody Shaw, ma potrei citare anche Gillespie o Hubbard...Fate una statistica e poi se siete gente seriamente appassionat domandatevi, come faceva Polillo, che sempre ha avuto a cuore il problema, se è una cosa normale. La contrapposizione tra tecnica e creatività è discussione fuorviante: l'una non è contrapposta necessariamente all'altra e il jazz è un linguaggio complesso e sofisticato, soprattutto sul piano ritmico e richiede tanto studio e tanta tecnica e tanto ASCOLTO. Di fatto comprendere quel che suona Rava non richiede particolari cognizioni specifiche, capire una frase trombettistica di Shaw molto di più. E questo è un fatto certo. Se poi si trova qualcuno in grado di gestire i propri limiti al meglio per esprimere una estetica musicale limitata come fa Rava, poco male, ma il lasciar intendere che lui è poetico e ha feeling e Marsalis, piuttosto che Shaw o Gillespie no è solo e semplicemente una mistificazione, per mio conto Tra l'altor il modo di essere poeta e di fare poesia di Shaw o Hubbard è diverso da quello di Rava, ma non meno rilevante ed intenso. Solo che usa una codificazione ed un espressione diversa da quella di Rava, mediamente per noi meno comprensibile nell'immediato. E un feeling prporio di una cultura musicale che è semplicemente diversa dalla nostra di base e che prima di permettersi di giudicare bisognerebbe prima conoscere a fondo. Io in questi decenni, anche tra i critici specializzati, non così frequentemente ho riscontrato questa reale conoscenza, più che altro ho visto riversare le proprie idee sulla musica e il proprio approccio all'arte, spesso assai ideologico, su una musica sostanzialmente esogena alla nostra formazione culturale di europei. La cosa è criticamente assai distorcente a mio modo di vedere. Equazioni del tipo Rava poeta e Marsalis freddo tecnico, le trovo e sempre le ho trovate semplificazioni barbare e superficiali e alla fine pure fuorvianti. Perchè, ad esempio il modello di trombettismo che passa qui in Europa è più prossimo a Baker o Davis più che a Gillespie, Hubbard o Shaw? Ve lo siete mai chiesti? Io sì e a me pare anche abbastanza chiaro ed evidente. Saluti
 
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daniele il 29/02/12 alle 15:06 via WEB
Certo che se la recensione Di Rava Tribe del NYT ha suscitato un così partecipato dibattito, chissà cosa susciterebbe sapere che il Down Beat ( una rivista specializzata finanziata dalla lobby pluto-massonica che fa capo a Bollani, Fresu, ecc.)ha dedicato alcune pagine a Enrico Rava nel numero di Febbraio ?
 
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riccardo il 29/02/12 alle 15:28 via WEB
Discutere è cosa positiva e si vede che l'argomento si presta, al di là delle facili ironie. Sarà, ma io ho sempre l'impressione e da tempo che della discussione e del confronto nel merito si ha paura in questo paese . Molto più ricercata è la rissa che è la negazione stessa della discussione.
 
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loopdimare il 29/02/12 alle 15:30 via WEB
Caro Riccardo, io ho fatto un brevissimo elenco di musicisti europei (i primi che mi sono venuti a mente) e tu, testardamente ti fissi con Rava. Vuoi un mone di uno ferrato, tecnicamente inattaccabile? Martial Solal. E quelli che hanno avuto successo in America come Holland o McLaghing? Bisogna decidersi: o il jazz è un linguaggio ormai universale, ed allora il grande musicista può sbucare anche dal Kazakistan, oppure è un affare solo americano... Però negli anni 70-80, quando in America il jazz era SOLO fusion, i jazzisti venivano in Europa per concerti e per incidere dischi... Non è forse più semplice dire che il jazz oggi non è più un'entità omogenea ed è composto da diversi filoni divergenti: quello più storicizzante, che punta ad una rilettura del passato, seppure con un angolazione critica e quello informale che cerca la contaminazione stilistica e folklorica, contaminazione che è comunque alla base del jazz. Poi uno ascolta quello che vuole. Il conflitto tecnica-virtuosismo non è solo una una menata comunque, basta pensare al jazz non come una sequenza di assoli ma ad un racconto che deve emozionare.
 
 
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riccardo il 29/02/12 alle 19:03 via WEB
il problema che ormai da noi è fatto passare per un fatto tutto italiano, nemmeno europeo... Solal è un grande come gli altri nomi che hai fatto. Il jazz è un linguaggio universale per chi lo conosce e lo sa suonare. Solal è uno di quelli Molti dei nomi oggi del cosiddetto jazz europeo, hanno poco o nulla a che vedere con il jazz di Solal & company. Si tratta di una musica improvvisata derivata dal jazz. Nulla in contrario sul fatto che esista e che abbia una sua dignita, ma bisogna imparare a dare il nome giusto alle cose e a non mistificare come vedo fare da troppo tempo.
 
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Milton il 29/02/12 alle 15:54 via WEB
Ragazzi, complimenti per la discussione che trovo interessantissima e... MOLTO SANA! Ce ne fossero! A parte i complimenti, volevo prendere spunto da uno dei commenti che ho letto che lamentava uno scarso spazio per il jazz in Italia e buttare sul tavolo una nuova provocazione: Io non credo assolutamente che il jazz in Italia abbia poco spazio. Esistono (credo) più di 400 festival in tutta la penisola e - soprattutto nel periodo estivo - i concerti si moltiplicano. Secondo me, a livello di spazio per i concerti, il jazz gode di molte più occasioni del rock o della classica... La zona in cui è caretne, se mai, sono le radio e i media in generale...
 
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danie il 29/02/12 alle 17:57 via WEB
d'accordo con loop di mare!
 
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loopdimare il 29/02/12 alle 19:19 via WEB
Riccardo fai qualche nome, tanto per capire chi sono i musicisti "incriminati"... Ti faccio questa domanda: Keith Jarrett quando fa i suoi concerti di piano solo fa jazz o no? ed in sottordine: è importante che si risponda a questa domanda? Anthony Braxton fa jazz? John Zorn fa jazz? Ci sono molti musicisti afroamerica che in questo periodo vogliono chiamare il jazz "black music" o cose simili. che è corretto solo storicamente. Trovo interessante che si rifletta sull'identità del jazz un po' di decenni dopo l'uragano free, ma il rischio è che la risposta sia la costruzione di un gran recinto che trasformi il jazz nella nuova musica classica, con le orcheste ed i repertori e bravissimi solisti che suonano a spartito Coltrane, Parker e Monk (i loro assoli, non le loro musiche...)
 
 
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riccardo il 01/03/12 alle 11:00 via WEB
Su musicisti eclettici come Jarrett e Zorn dire genericamete se fanno jazz avendo in mente la loro vastissima discografia è riduttivo. La cosa importante è che entrambi SANNO suonare jazz quando vogliono farlo e ritengono di esprimere un progetto musicale interessante utilizzandone l'idioma, naturalmente mettendoci del loro come tutti i grandi musicisti improvvisatori sanno fare. Io la musica la sento con le orecchie, non mi formo una opinione positiva o meno sulla base del tipo e numero di riviste che dedicano articoli ad un musicista. Inoltre non innalzo totem banali del tipo: "Se è jazz è musica valida altrienti no". Sono sciocchezze. Per esempio l'altra settimana sentivo un brano di una ventina di minuti fatto solo di voci in "Misterium" di Zorn e sono rimasto affascinato da quella specie di incrocio tra Palestrina e Stockhausen, non saprei meglio definirlo, che ho sentito, davvero interessante. Non è Jazz, chissenefrega, ma mi ha colpito. Zorn è un musicista a tutto tondo, geniale, anche se alcuni suoi lavori li trovo inascoltabili e eccessivamente provocatori, ma quando vuole suonare Sonny Clark o Ornette Coleman, piuttosto che quando suona con Frisell e George Lewis fa paura per come dimostra di conoscerne il linguaggio, la sua storia e come la elabori sotto il suo filtro artistico e culturale. Molto originale, uno dei più originali, ma non sempre originale significa artistico o musicalmente interessante. Secondo me lui come Jarrett per altri versi oltre all'eclettismo condividono una ricerca continua fuori dall'ortodossia jazzstica (magari Jarrett è diventato un po' più conservatore invecchiando), ma la cosa certa è che entrambi sanno quando fanno jazz e quando no. Non confondono. Molti loro ascoltatori come anche tra quelli che apprezzano Rava, Trovesi o altro jazz europeo ancor più derivativo invece fanno una confusione sulla musica che ascoltano che i musicisti in realtà non fanno, o meglio, è problema che nemmeno si pongono.Loro suonano ciò che vogliono esprimere, mica ascoltano con la necessità di classificare ciò che producono. Le classificazioni sono forme di semplificazione che aiutano chi ascolta nelle analisi musicali e nella contestualizzazione della musica, ma non sono indspensabili. Tranquillo, i musicisti non fanno confusione, siamo noi eventualmente a farla. Cito un aneddoto. Una quindicina di anni fa capitò nell'azienda bergamasca dove lavoravo Trovesi che voleva farsi finanziare parzialmente dal gruppo imprenditoriale per cui lavoravo e il mio capo fece parlare me e mio fratello con lui, sapendone la nostra passione. A un certo punto gli chiedemmo se lui si riteneva un jazzista e di fare jazz. Lui ci rispose di non sentirsi sostanizalmente un jazzista, un problea che comunque non si poneva, nel senso di cui stiamo discutendo adesso, e di non preoccuparsene affatto. Risposta che condivisi e che condivido e che dimostrava oltre che grande onestà intellettuale una chiarezza di vedute che noto mancare in chi magari è addetto alla critica o alla divulgazione. Trovo bizzarro e paradossale che si discuta la "jazzità" di Marsalis e si elogi con certi toni trionfalistici quella supposta di Rava. Per come la vedo si tratta di un assoluto ribaltamento dei valori in tale campo, al di là del jazz o non jazz e sorrido per non piangere... La produzione ultima di Rava, (tornando al pallino...) a dire il vero non mi importa molto stabilire se è jazz o meno (per me per lo più non lo è comunque, perché manca di certi requisiti a mio avviso fondamentali, in particolare ritmici e di pronuncia per considerarlo jazz, così come molta della produzione Ecm europea) è proprio musica che non mi interessa e mi annoia profondamente. A voi e al NY times interessa, piace? Bene. Ne prendo atto ma non me ne frega un tubo tanto per essere chiari. Non mi sta bene l'idea di jazz che si passa oggi al pubblico dei fruitori, perchè è sostanzialmete sballata. Poi, non ho bisogno di farmi dire dal NY times o da una rivista italiana cosa è interessante o meno alle mie orecchie e non ho bisogno di ricercare conferme sulla base di gusti più o meno massificati o di tendenza. Sono presuntuoso? Può essere, ma non più di chi spara e scrive giudizi da anni su musicisti e musica che magari non ha poi compreso così bene come vuol ar credere...
 
   
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loopdimare il 01/03/12 alle 12:20 via WEB
Ci rinuncio. Io cerco di allargare il discorso e tu ritorni sempre a Rava, che è certamente la tua ossessione. Su Jarrett ti faccio notare che, nel bene o nel male, il motore del suo cambiamento è stato Manfred Eicher che gli ha fatto incidere i primi album da solo. Fino a quando incideva per Columbia, Atlantic ed Impulse non ha mai fatto brani di piano solo, salvo il quasi umoristico "Pardon my rag". Non ci sono controprove ma il sospetto che il Jarrett sia diventato quello che è grazie al modo di vedere europeo è forte. Per alcuni è stata una disgrazia, ma nell'economia globale del piccolo mondo del jazz è stata una botta vincente.
 
     
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riccardo il 01/03/12 alle 18:19 via WEB
Jarrett sarebbe stato Jarrett indipendentemente da tutto. Eicher deve ringraziare Jarrett molto più del viceversa.
 
     
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riccardo il 01/03/12 alle 18:28 via WEB
francamente non conosco niente di più americano di Jarrett e del suo pianoforte solo come prodotto musicale. In Europa un musicista come Jarrett non esiste e credo che mai esisterà.
 
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Gianni M. Gualberto il 29/02/12 alle 19:35 via WEB
Bravissimo, Martial Solal (anche se lievemente verboso, com'è noto...). Bravissimo, fondo, intelligente: nella storia del jazz, ahimé, non ha cambiato una virgola. Il jazz è una musica creata essenzialmente dagli africano-americani e dalla loro lettura e rilettura anche di tradizioni e linguaggi esogeni rispetto alla loro cultura. L'apporto dei bianchi americani è stato di poco successivo e, comunque, venato di un "europeismo" di gran lunga meno influente di quanto si voglia far intendere. Il peso degli artisti europei è oggi sicuramente più ampio, ma anche più sottile. Sotto il profilo idiomatico, there's no match. Che poi, ripeto, si voglia valutare positivamente l'improvvisazione che, ispirata anche dal jazz, ha deciso di battere strade diverse, è altra faccenda, più comprensibile. Sotto il profilo del Canone, invece, non vi è neanche la possibilità di avviare una discussione che non sia poco più che salottiera, temo.
 
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loopdimare il 29/02/12 alle 21:11 via WEB
Premosso: mi trovo a difendere una posizione non mia, per degli estremismi un po' opposti... Io che ritengo indiscussa la supremazia afroamericana, mi sento anche in dovere di difendere un'identità europea costruita lentamente ed a fatica. Solal non è mai stato influente prima di tutto perchè europeo e quindi eccentrico rispetto ai centri focali del jazz. Perfino Django non ha lasciato una traccia importante oltre oceano. Se non sei dove scoppiano le rivoluzioni, a distanza non fai nulla. però poi, anche se sei al pusto giusto devi avere anche le phisique du role... Tristano è stato il primo a fare free jazz, ma era troppo presto ed il suo free troppo elegante per prestarsi all'urlo della rivolta, oltre che essere bianco... Anche Giuffré con Free fall era arrivato ben oltre tante incisioni ECM decenni prima, ma anche lui era un cane sciolto. Forse una certa pregiudiziale anti bianco, dopo i tanti scippi effettuati dai bianchi è scattata?
 
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daniele il 01/03/12 alle 13:04 via WEB
Per favore Riccardo, ti spiacerebbe citare come esempio un altro musicista italiano ? Ma la tua è una vera ossessione! abbiamo capito che del giudizio altrui te ne freghi e che dai retta solo alle tue orecchie, però smettila di citare sempre Rava. Non se ne può più!
 
 
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riccardo il 01/03/12 alle 18:24 via WEB
E' tutto proporzionato a quanto è pompato Rava, daniele. Hai ragione daniele, non se ne può più di Rava. Basta, lo dico da tempo, vorrei sentire in giro concerti di qualcosa d'altro che certa lagna soporifera. Pensa che qui a bg dopo averlo invitato decine di volte lo hanno fatto persino direttore artistico del festival. Rava de qua Rava de là...ma qualcosa d'altro da sentire e da proporre? Che fantasia...
 
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daniele il 01/03/12 alle 23:08 via WEB
Per Riccardo: veramente intendevo dire che sono stanco di leggere i tuoi insulti indirizzati a Rava. Abbiamo capito che a te non piace, non c'è bisogno di ripeterlo ad ogni piè sospinto. Tutto qui . Che c'entra poi il suo ruolo di direttore artistico con quello di musicista. Una domanda: cosa c'è che non va nel programma di Bergamo Jazz 2012?
 
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Francesco Martinelli il 02/03/12 alle 08:57 via WEB
"the music, it's got this hitch to be going in it - when it loses that, there's not much left." Sidney Bechet, Treat It Gentle.
 
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riccardo il 02/03/12 alle 15:17 via WEB
O bella, tu sei stanco in un modo e io all'opposto ma non ti impedisco di scrivere e replico nel merito. Credo che ognuno dovrebbe stare al proprio posto e al proprio ruolo. Questo è uno spazio libero dove si lasciano commenti dove il discriminante non è che debbano piacere o meno a daniele. Al massimo rispondo al proprietario del blog se qualcosa non va. Ti chi sei? Che ruolo hai oltre al mio qui sopra? Per il resto io non devo spiegare niente a chi non vuole capire o fa finta di non capire. Capit?
 
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riccardo il 02/03/12 alle 15:34 via WEB
dimenticavo...insulti indirizzati a Rava? Dico ma stiamo scherzando? Criticare la sua musica sarebbe insultare? Quindi se scrivo che la musica di Laura Pausini, ad esempio è una lagna o che Wynton Marsalis è una disgrazia, nessuno deve battere ciglio mentre con Rava è un insulto? Caspita... A quando la sua santificazione?
 
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daniele il 02/03/12 alle 16:54 via WEB
E' la tua maniacale insistenza che è fastidiosa.Automaticamente siamo portati a difendere Rava. Non puoi assillarci in questo modo.Dobbiamo tutti adeguarci alla tua visione del jazz ? E cioè credere che quello che si fa in Italia è un sottoprodotto culturale ? A proposito non hai emesso giudizi sul cartellone di Bergamo Jazz.
 
 
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riccardo il 02/03/12 alle 19:49 via WEB
Francamente daniele sei tu adesso a stancare, Cosa vuoi? Chi sei per stabilire cosa si deve scrivere e in che modo? Stai al tuo posto altrimenti sei solo un intollerante. Non sei il gestore del blog, accetta democraticamente chi la vede diversamente da te e non insulta ma argomenta sin troppo le sue critiche nel merito cosa che tu non fai. Ribatti se hai da dire qualcosa ma non metterla sul piano personale, cosa che con me hai sempre fatto sin dal primo intervento di anni addietro. Ho un'idea diversa del jazz dalla tua. Rava Petrella Bollani e tutti i tuo idoli per me jazzisticamente contano poco o nulla. Non ti impedisco di pensarla diversamente ma lascia che altri esprimano idee diverse dalle tue. Ho chiesto quali sono i capolavori di Rava paragonabili ai lavori dei grandi del jazz e ancora non ho avuto risposta da nessuno. In compenso io che lo critico dimostro di conoscere meglio di voi la sua opera visto che ho anche indicato un disco della Philology da sentire e probabilmente ho comprato The piligrim and the stars quando forse tu non eri ancora nato. Io la vedo all'opposto, ma non per questo ti dico cosa scrivere o non scrivere. Maniacali e stancanti sono quelli come te che esaltano ciò che non andrebbe esaltato così a sproposito. In nulla sei diverso o migliore di me In ogni caso non sei tu a stabilire cosa si deve scrivere. Hai capito o te lo devo ripetere ancora una volta?
 
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rodolfo il 03/03/12 alle 02:00 via WEB
L'intervento di JFI, il primo, la cit. di Polillo mi sembra importante. Sferza quella tendenza del giovane jazz italiano a riempirsi di melodismi e canzonette, ad annacquare iil ritmo e l'armonia afroamericane con musicalità fuori luogo. Invoca armonie più in linea con quelle d'oltre oceano, che all'epoca erano già dense di bebop (e Polillo lo sapeva). Molto esplicativa la frase che incitava ad abbandonare armonie troppo anodine. Usa proprio questo termine:anodino = blandamente calmante, privo di chiarezza ed efficacia. Invocava una musica eccitante, cristallina ed efficace. Mica poco! In quegli anni furoreggiava un jazz alla Gorni Kramer, da balera, italomelodizzato.
 
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rodolfo il 03/03/12 alle 02:08 via WEB
Per quanto riguarda invece il termione del periodo: "E per jazz intendo vero jazz: quella forma musicale cioè, le cui leggi sono ormai ferme e la cui estetica non è più, oggi, opinabile e modificabile a volontà”. Per condividerla o confutarla bisogna prima definire l'estetica del jazz. Il jazz, come ogni forma d'arte ha un suo senso estetico. Vogliamo provare a definirne i parametri? Chi comincia? Allora: ritmo, timbro, swing, interplay, armonia, melodia, improvvisazione. Proviamo un po' di cosa vogliono dire questi termini e poi cerchiamo di capire cosa intendeva Polillo. Si fa così.
 
 
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loopdimare il 03/03/12 alle 10:57 via WEB
ritmo, timbro, swing, interplay, armonia, melodia, improvvisazione? Peccato che il free ed il post-free abbiano dato un pesante colpo a debellare gran parte delle definizioni che si potevano dare prima... E' come se oggi si volesse far finta che una parte del jazz moderno non fosse mai esistita...
 
   
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riccardo il 03/03/12 alle 14:11 via WEB
Il free non ha debellato un bel niente di tutto quel che viene citato. Mi pare che dalle ns parti si dà troppo peso all'aspetto iconoclastico del free, dovuto forse all'impostazione storicamente a mio avviso troppo ideologica della materia, che ancora purtroppo permane, rispetto agli elementi di continuità o comunque dialettici, rispetto alla tradizione musicale antecedente afroamericana. Se uno analizza il modo con il quale si è arrivati alla concezione free si osservano invece molti elementi di continuità con la tradizione in quasi tutti i protagonisti del free e del post free. Si è trattato di una transizione alla fine più lenta e ponderata di quanto si vuol far credere. Ornette Coleman è chiaramente partito da Parker e dalle strutture scheletriche del bop per costruire quasi tutti i suoi brani sino a Free Jazz. TRa l'altro è del Texas, zona nella quale sono rintracciabili decine di sassofonisti e jazzisti con un fortissimo senso del blues e della tradizione. Tra i migliori della storia del jazz. Un altro, se non erro, della zona che era non a caso collaboratore di Coleman era Dewey Redman, il qui contributo blues e di profumo colemaniano ha dat una fortissima impronta al cosiddetto quartetto americano jarrettiano. Non devo poi ricordare la chiara concezione riportata dal vecchio N.O. relativamente l concetto di improvvisazione collettiva riscontrabile da "Free Jazz" in avanti nell'opera colemaniana. Taylor che per certi versi è stato tra i più iconoclasti musicisti del free in realtà è partito, e si sente tanto, nel suo pianismo da Monk, Ellington e Hines (e persino, secondo taluni sedicenti critci e musicologi nostrani ormai attempati che adorano ogni cosa che abbia parvenza free, il "reazionario" Brubeck...) soprattutto per quel approccio alla tastiera così percussivo. In Sun Ra poi si trova addirittura Fletcher Henderson e la tradizione storica delle big band. Archie Shepp sin dai suoi primi dischi Impulse! ha sempre omaggiato la tradizione jazzistica pur avendone anche un rapporto dialettico. Per non parlare del suo rapporto con il Blues, il R&B rintracciabile dappertutto. Basterebbe il Blues di "The way Ahead" per tagliar corto in questa discussione sul rapporto dei protagonisti del free con la tradizione africana americana, non solo jazzistica. Quel brano per quel che mi riguarda è una delle massime gemme di espressività e di sintesi dell'intera discografia jazzistica in termini di blues. Persino gli stessi Lester Bowie e, audite audite, Anthony Braxton hanno relazioni forti con il R&B, anche se nel secondo forse la cosa ha riguardato più che altro la sua formazione di base. Ma potrei andare avanti, perché ci sarebbe da analizzare anche il rapporto con il free e la tradizione di Mingus, Dolphy, Coltrane (persino Davis a mio modo di vedere a partire dalla metà degli anni'60 ha cominciato a sviluppare una sua idea di free senza però la necessità di negare nulla dell'antecedente), per non parlare poi di tutti quei musicisti del cosiddetto modern mainstream che hanno rielaborato la concezione free all'interno di strutture più ortodosse e tradizionali. Forse il problema è stato ed è che la necessità di mettere in discussione certi riferimenti jazzisticamente imprescindibili era più sentita da certa avanguardia free e post free europea, che con certi concetti in particolare swing e blues ci ha sempre litigato, non so, ma questo è tutto un altro discorso. Devo dire che l'osservazione di loopodimare è molto indicativa e mi spiega molte cose sulle loro convinzioni musicali a "scontro" con le mie. Ora capisco...
 
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Gianni M. Gualberto il 03/03/12 alle 12:15 via WEB
Ritmo, timbro, swing, interplay, armonia, melodia, improvvisazione? Tutti elementi che nel free e nel post-free si ritrovano facilmente, da Ornette Coleman a Henry Threadgill, da Archie Shepp a, persino, Roscoe Mitchell o Anthony Braxton.Il free e il post-free non hanno mai inteso negare il Canone, con buona pace di Philippe Carles o del Darmstadt Institut... Il free ha rinnovato o ha cercato di rinnovare una tradizione mai rinnegata, anzi, una tradizione di cui si sentiva legittimamente parte. Quanto al free europeo direi che è un fenomeno interessante, vitale, ben parzialmente influente e non privo di ismi spesso quasi folkloristici e fortemente passé, purtroppo, lontani da ogni contemporaneità che non sia quella dei laboratori mentali individuali e viziati da gabbie culturali ormai isolate dall'ecumene.
 
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loopdimare il 03/03/12 alle 14:14 via WEB
più che il Canone io spresso nel free ho trovato il suo cadavere, esibito come trofeo, o il fantasma che ricompare come rimorso. Ma io non sono un esperto.
 
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Francesco Martinelli il 03/03/12 alle 14:49 via WEB
Il jazz è una musica di innovazione, sperimentazione e nuove scoperte. Emerge spesso da giustapposizioni inattese, perfino da errori e fraintendimenti – quello che il critico di jazz A. B. Spellman ha definito “il Meraviglioso”. Questa costante scoperta del meraviglioso e della sua illuminazione può aiutarci a muoverci al di là dell'imperativo accademico di imporre ordine su movimenti, eventi e pefino sviluppi artistici e culturali. […] Dobbiamo ovviamente prestare più attenzione a come viene creata la musica, a come gli artisti parlano tra loro attraverso culture, lingue e idiomi. Ma dobbiamo anche seguire l'esempio dei musicisti, e liberarci delle nozioni fisse di tradizione e di autenticità. […] In effetti, forse con la crescita delle collaborazioni transatlantiche e la disseminazione della cultura, non possiamo più essere così sicuri di parlare del jazz come forma d'arte americana, o tenere i musicisti africani di jazz al di là del confine della storia della musica. E dobbiamo certamente andare oltre l'ascolto degli artisti non-americani per come incorporano “la loro cultura” nel jazz – che si parli di musicisti di jazz africani o israeliani. Il jazz dimostra che anche nella ricerca della tradizione le sue catene non ci legano, e che la mappa più potente del Nuovo Mondo è l'immaginazione. Robin Kelley, dall'introduzione a Africa Speaks, America Answers, specie di aggiornamento a Four Lives in the Bebop Business. Sui temi dibattuti io suggerirei anche A Power Stronger than itself, di George Lewis, e il recente The Ellington Century, di David Schiff, che situa il Duke al di là degli artificiosi confini di genere, individuando collegamenti e parallelismi insospettati - oltre che una buona dose di umorismo. Insomma c'è da leggere ascoltare e studiare!
 
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Gianni M. Gualberto il 03/03/12 alle 18:41 via WEB
Ringrazio Martinelli per i saggi consigli e per le esortazioni, generosamente elargite forse nella memoria delle non meno meditate parole di Thomas Jefferson: “I find that the harder I work, the more luck I seem to have”. Purtroppo, per quanto affascinato dallo scritto di George Lewis (uno che, seriamente quanto seriosamente, scrive di ciò che sa), il volume di Schiff esibisce i risultati tipici di chi desidera adattare il mondo alle proprie teorie, e non viceversa. Uno sforzo -encomiabile, per carità- di dimostrare la ricchezza dell'opera ellingtoniana, provincialmente paragonandola, senza necessità, ad altre teorie linguistiche più o meno coeve (e delle quali sicuramente Ellington era a conoscenza) ma non necessariamente correlate. Nello sforzo di dimostrare che Ellington s'inserisce nel novero di un contesto unico e trasversale, che va da Debussy a Stravinskij, passando per Bartók e Schönberg e Ravel, alla fine egli detrae dall'originalità ellingtoniana, pur di poterla paragonare a quella dei “grandi” della musica accademica del Novecento. E fa spesso sorridere l'entusiasmo con il quale egli scopre che, in definitiva, Ellington non era un africano-americano istintivo e ignorante ma, ohibò, possedeva persino una ben discreta cultura, che lo spingeva persino ad essere presente ad una “prima” di Elliott Carter... Purtroppo, la musicologia americana, in presenza del jazz, ha spesso adottato questo tipo di comportamento falsamente erudito (alcune annotazioni di Schiff su Ravel e Stravinskij rasentano l'ovvietà, per quanto entusiasta, riportando alla memoria alcune sin troppo acide considerazioni di Baudrillard: Tout mérite protection, embaumement, restauration. Tout est objet d’une seconde naissance, celle éternelle du simulacre. Non seulement les Américains sont missionnaires, mais ils sont anabaptistes: ayant loupé le baptême originel, ils rêvent de tout baptiser une seconde fois, et n’accordent de valeur qu’à ce sacrement ultérieur, qui est, comme on sait, la réédition du premier, mais en plus vrai – ce qui est la définition parfaite du simulacre (…) Nous reprochons aux Américains de ne savoir analyser ni conceptualiser. Mais c’est leur faire un faux procès. C’est nous qui imaginons que tout culmine dans la transcendence, et que rien n’existe qui n’ait été pensé dans son concept. Non seulement eux ne s’en soucient guère, mais leur perspective est inverse. Non pas conceptualiser la réalité, mais réaliser le concept, et matérialiser les idées). La grandezza della tradizione che ha dato vita ad Ellington, insomma, sta nel suo potersi paragonare ad una cultura diversa di cui si ipotizza come scontata la superiorità. Quanto alle collaborazioni transatlantiche e alla disseminazione della cultura che, per non si sa quale taumaturgia, priverebbero in qualche modo il jazz della sua primogenitura africano-americana e americana (un effetto che, chissà perché, nessuno penserebbe, ad esempio, ad attribuire al contesto della musica accademica europea, cui tutti riconoscono una perpetua centralità, per quanto la disseminazione della cultura da tempo abbia trasportato certi linguaggi in tutt'altri contesti e con risultati non meno originali e innovativi), provo francamente dei dubbi. Così come, per l'appunto, l'”imprinting” europeo permane nel contesto accademico, anche in ambiti creativi diversi e ben significativi, altresì mi pare naturale che lo stesso accada per il jazz nei suoi rapporti con il Canone africano-americano, che si tratti di Israele o di altro contesto. Proprio l'esempio israeliano mi pare il più ambiguo da citare: sicuramente, Israele, e in modo particolare citerei Tel Aviv, è oggi sede del più significativo e affascinante melting pot esistente: pure, il “jazz israeliano” (se esiste una tale entità) è modellato, anche grazie all'insegnamento pionieristico di Arnie Lawrence e di altri, sul modello americano, che si parli di Albert Beger come di Assif Tsahar, di Avishai Cohen come di Stephen Horenstein o di Omri Mor o di altri ancora. Laddove è sicuramente vero che, in una nazione in cui l'articolazione di un'identità propria, al contempo ebraica ma distinta dalla Jewry nel mondo, è questione di fondamentale importanza, l'improvvisazione d'ascendenza jazzistica è uno degli strumenti con cui si cerca di articolare un'indagine attraverso le molteplici tradizioni radunatesi in Israele, non ultime quelle legate anche alla comunanza storica con determinate aree della cultura araba. Dice giustamente, e con belle parole, Martinelli: “il jazz è una musica di innovazione, sperimentazione e nuove scoperte. Emerge spesso da giustapposizioni inattese, perfino da errori e fraintendimenti”. Ma non si addice questo a qualsiasi forma di creatività? Non lo si poteva dire anche della musica di Beethoven fra il 1802 e il 1803? O della musica di Charles Ives? O di quella di Brahms? E via discorrendo... Ringrazio sinceramente Martinelli per le sue annotazioni ed esortazioni. Come scriveva Thomas Jefferson: “I find that the harder I work, the more luck I seem to have”.
 
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Gianni M. Gualberto il 03/03/12 alle 18:43 via WEB
Mi scuso per le ripetizioni e refusi varii. Ho scribacchiato senza correggere...!
 
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loopdimare il 03/03/12 alle 19:36 via WEB
l'accenno di Gualberto ad Israele, mi fa venire in mente una cosa che c'entra e non c'entra: La grande musica pop americana tra le due guerre, quella che ha fornito gli standard che erano alla base di tante esecuzioni jazz, era musica sostanzialmente ebraica, eppure venne considerata la musica a mericana per eccellenza, con grande scorno per gli amanti del country che si ritenevano i veri "americani in musica"... Questo per dire che non c'è stato un rivendicare esplicito (solo di recente con John Zorn) di una "ebraicità" del Tin Pan Halley... E stiamo parlando due popoli comunque discriminati ed oppressi.
 
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Francesco Martinelli il 03/03/12 alle 19:47 via WEB
Mi spiace, dovevo essere tipograficamente più chiaro, e non vorrei attribuirmi senza merito le parole di qualcun altro, le parole citate da Gualberto sono una citazione dall'ultimo libro di Kelley citato nel messaggio.
 
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rodolfo il 03/03/12 alle 22:18 via WEB
Martinelli, diamo un senso etimologico a quello che diciamo. Tu dici che il jazz è musica di innovazione? E quanto può innovarsi il jazz, ma non solo il jazz, qualunque organismo o sistema vivente o non vivente, prima di perdere la sua identità di partenza? Non può certo farlo all'infinito, no? Riconosceresti in Belen la Lucy di due milioni di anni fa? Vedi, a forza di innovarsi come è diventata. Avresti ancora il coraggio di dire che Belen è un ominide? Il jazz ha cominciato a innovarsi un secolo fa, pensa un po'...
 
 
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riccardo il 04/03/12 alle 10:42 via WEB
Il discorso che il jazz è sperimentazione e innovazione è vero, ma credo, come dice giustamente Gualberto, che la cosa possa valere per tutta la Musica e la sua storia, ma il concetto andrebbe precisato a mio modo di vedere per non ingenerare confusione, come nella pratica avviene tra i fruitori del Jazz, e soprattutto adattato al contesto culturale cui si fa riferimento che non può essere bellamente saltato a piè pari per gratificare le proprie idee o convinzioni. Faccio un esempio per farmi capire (almeno spero...) in analogia, di tipo scientifico più vicino alla mia formazione culturale. La scienza va avanti con la ricerca che sperimenta ed innova ma non tutti i ricercatori contribuiscono all'innovazione, nel senso che per un Einstein che trova una grande teoria ve ne sono centinaia che producono poco o nulla. E soprattutto Einstein non nega Newton, di cui sa e conosce tutto a menadito (precisiamolo bene)semmai ne estende i concetti rendendoli applicabili ad un contesto fisico più allargato in altra dimensionalità che ne comprende comunque la precedente. Dunque perché il movimento Free e post Fee con i relativi suoi rappresentati dovrebbero portarci a negare la storia precedente? Perché devo stimare a priori lo sperimentatore e minimizzare il lavoro dell'"operatore canonico"? A me pare come minimo una forzatura che oltretutto non ha riscontro nella cultura in cui tentiamo di applicarla, cioè l'africana-americana. Intendo dire che quel che non capisco è perché si debba classificare a priori sperimentarore ed innovatore, e quindi implicitamente musicalmente più interessante o semplicemente migliore di altri, chi ha un rapporto iconoclastico con il Canone di riferimento, piuttosto che ortodosso o semplicemente dialettico. Con un tale criterio dovrei dire che l'opera di Peter Broetzmann è migliore di quella di Tommy Flanagan? Non capisco...per me operano in modi totalmente diversi ma sono sicuro che Broetzmann come musicista, artista, jazzista, improvvisatore in nulla è da ritenersi superiore a Flanagan. O per dire che Broetzmann è valido devo negare Flanagan? Non capisco... Scusate ma nella cultura musicale africana americana io vedo molta continuità e rielaborazione continua della tradizione nel suo "work in progress" più che uno sviluppo ed una evoluzione per progressive negazioni delle passate esperienze. Il Jazz è fatto anche di rielaborazioni alla luce delle innovazioni, con processi di integrazione e sintesi, più o meno riuscite, che a volte richiedono sforzi maggiori e risultati musicali anche più complessi e sofisticati di quelli di chi "nega" la tradizione o il Canone per affermare il proprio credo musicale. Cosa ha che non va Woody Shaw o Freddie Hubbard, rispetto ad Anthony Braxton? Devo sminuirli perché non fanno Free e solo del cosiddetto "disdicevole" Modern Mainstream? Ovviamente sono in disaccordo con un tale approccio che ritengo e sempre ho ritenuto immotivatamente ideologico e alla fine anche abbastanza mistificatorio e di cui la nostra critica ha fatto largo uso ultra decennale e continua a farne, con a mio avviso grave danno culturale in materia, ma magari mi sbaglio. Può essere...
 
   
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loopdimare il 04/03/12 alle 11:34 via WEB
caro Riccardo, il jazz è sempre stato innovativo in maniera perfino compulsiva e difatti in una cinquantiva di anni è arrivata all'estremo della dissoluzione armonica. Molti artisti di rilievo hanno perso il posto principale delle scena per un susseguirsi fin troppo rapido di mode (vogliamo ricordare la sequenza bebop - cool - west coast - hard bop in quanti pochi anni è avvenuta?). Può essere pertanto corretto ripercorrerla, specialmente se si vuole rileggere pagine scordate o sottovalutate, ma non si può dire che è innaturale al jazz la ricerca della novità a tutti i costi. Detto questo, io sono intteressato a non morire ascoltando una nuova versione, eseguita benissimo ed incisa meglio, del vecchio hard bop. Se dobbiamo fare come i gamberi, torniamo allo swing ed a New Orleas, almeno così potremmo recuperare un po' di appassionati, forse...
 
     
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riccardo il 04/03/12 alle 12:12 via WEB
Forse nonostante la lunghezza (o forse proprio per quello) non mi sono spiegato bene. A me non sembra di aver espresso il concetto che riporti, cioè sostanzialmente di revival o riproposizione stanca di ciò che è stato. Tutt'altro. Io contesto che la sperimentazione richieda, specie nel Jazz sempre e comunque la novità a tutti i costi per raggiungere una valenza e la negazione del passato, semplicemente perché così non è nei fatti storici espressi da un secolo di Jazz. Come la storia dei "soliti standards". Ha senso suonare "Autumn Leaves" nel 2012? Dipende come lo si fa e chi lo fa non anteporrei pregiudizi valutativi per quanto è certo che è difficile dire del nuovo ma non impossibile e per certi versi è più facile apparire innovatore negando gli standards. Si può produrre comunque musica "stancante"... Poi ci sarebbe da discutere sull'automatismo che mi pare ancora di percepire: "Free= innovazione". Ragazzi sono passati 50 anni da "Free Jazz" di Coleman, sveglia! Ormai anche quell'approccio fa parte della tradizione e per certi versi è stato ABBONDANTEMENTE superato. Se poi qualcuno vuole vendermi che le avanguardie europee in blocco sarebbero il "nuovismo jazzistico" ,bè, contesto pure quello, naturalmente...
 
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rodolfo il 03/03/12 alle 22:22 via WEB
A meno che non vogliamo aspettare altri due milioni di anni. Però Mahler è diventato Cage in 50 anni...
 
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Francesco Martinelli il 03/03/12 alle 22:32 via WEB
Mi spiace, non riesco a spiegarmi. La frase dibattuta non è mia. E' di Robin Kelley, autore della biografia di Monk recentemente pubblicata in italiano, e l'ho presa dal suo ultimo libro, Africa Speaks, America Answers. Ho pensato fosse un contributo interessante, anzi penso l'intero libro lo sia, poi ciascuno può tirare le proprie conclusioni.
 
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loopdimare il 03/03/12 alle 22:50 via WEB
E quanto può innovarsi il jazz prima di perdere la sua identità di partenza? Bella domanda senza una vera risposta. Forse il free jazz poteva essere il limite da non raggiungere? E' stato raggiunto e ben esplorato, accettato magari controvoglia e quindi al quel punto ci si è trovati nello stesso cul-de-sac della musica classica. La logica mossa successiva è stato un guardarsi indietro, rileggendo il passato in modo possibilmente critico. Ci sono stati poi quelli che si sono spostati di latitudine, tentando una diversione etnoglobalista da molti osteggiata. Gualberto ci continua a rammentare i canoni, ma io mi chiedo se sia più interessante rifare un percorso a ritroso, magari di consolidamento di identità culturale, continuando a rimanere minoranza raffinata ed ininfluente o invece tentare un'azione decisamente inaspettata cercando di ritrovare un linguaggio più popolare, con un vero ritorno alle origini, se non nelle forme, almeno nello spirito.
 
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