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Post n°2163 pubblicato il 28 Febbraio 2012 da pierrde
Mi pare di poter dire, a questo punto, che a meno di interventi di altri appassionati che ancora non abbiano espresso una loro idea originale, il dibattito si sia esaurito nella cristallizzazione delle rispettive posizioni. Le posizioni sono state espresse con chiarezza e forza, magari anche a discapito di qualche ruggine personale. Difficile che qualcuno cambi la propria idea, ma in fondo non era questo l'obiettivo quanto mettere sul tavolo e sviscerare le diverse ottiche con le quali è possibile osservare quel vasto movimento di musicisti e idee che va sotto il nome di jazz italiano. Credo che ognuno, e parlo dei lettori che non sono intervenuti, si sia fatta la propria opinione. La discussione non si ferma certamente qui, come tutte le correnti che hanno attraversato e segnato la storia della musica afro-americana, anche il jazz nato e sviluppatosi fuori dalla sua culla naturale ha una vicenda che è in divenire e che probabilmente sarà descritta e inquadrata più compiutamente dagli storici che verranno. Anche sul sito di Gerlando Gatto, A Proposito di Jazz, si è sviluppato un dibattito sul tema che però ha seguito percorsi differenti. Da ultimo un editoriale di Luigi Onori che riepiloga la situazione. Il link per leggere l'intervento : http://www.online-jazz.net/wp/2012/02/12/molte-le-cose-da-fare-per-avere-ancora-speranza/ |
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“Il Jazz italiano si è incamminato con baldanza ed entusiasmo per una strada fondamentalmente sbagliata, dove ogni progresso è deprecabile perché non può che condurre sempre più lontano dalla strada maestra, e cioè dal jazz autentico. Più che una questione di maggiore o minor talento si tratta infatti di una questione di serietà: serietà che poi significa rispetto per la tradizione jazzistica ed aderenza a quegli stili che si praticano negli Stati Uniti e che si imitano, con maggiore o minore fedeltà ma sempre con grande rispetto, in tutti i paesi d’Europa. Non ci si illuda infatti di poter fare qualcosa di serio abbandonando i sentieri del vero jazz (New Orleans, Dixieland o Bebop, non importa); non ci si illuda di potersi permettere il lusso di esperienze personali con un linguaggio che non si è ancora perfettamente assimilato. Coloro che credono di nobilitare il jazz addomesticandolo ed attenuandolo con sdolcinature da dancing di periferia, si convincano una volta per sempre di essere su una strada sbagliata. Gli appassionati del jazz conoscono iljazz molto meglio di quanto i nostri musicisti non credano e non sono affatto indulgenti verso le mistificazioni. È dunque giunta l’ora di fare un sincero e spietato esame di coscienza. Domani, quando i vizi d’oggi saranno generalizzati e consolidati fino a diventare costume, potrebbe essere troppo tardi. Quando i contatti con la tradizione jazzistica (e cioè col jazz che si pratica nel resto del mondo) saranno del tutto perduti, sarà impossibile tornare indietro. È giunta l’ora che i nostri solisti si convincano che un assolo è buono soltanto se è mantenuto nei limiti dell’atmosfera suscitata dagli altri solisti o dai passaggi arrangiati, se è opportuno e tempestivo, se è discreto, se esprime delle idee, logiche, chiare, musicali e se queste idee sono espresse con una tecnica impeccabile. È ora di dire basta ai gratuiti balbettamenti armonicamente anodini, tirati faticosamente innanzi senza ritmo, a due battute per volta: è ora che l’improvvisazione ridiventi una logica invenzione, aderente al tema armonico del tema base, con un capo ed una coda. Un capo e una coda, sicuro… Date queste premesse, ovvie sono le conclusioni. Bisogna ricominciare da capo. Quanto si è fatto fino ad ora valga come esercizio ginnastico. Il periodo della preparazione preatletica è finito. Ora bisogna mettersi con serietà a fare del jazz. E per jazz intendo vero jazz: quella forma musicale cioè, le cui leggi sono ormai ferme e la cui estetica non è più, oggi, opinabile e modificabile a volontà”.