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Mondo Jazz

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martedì 9 ottobre 2018 alle 20.30

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JAZZ & WINE OF PEACE

Pipe Dream

violoncello, voce, Hank Roberts

pianoforte, Fender Rhodes, Giorgio Pacorig

trombone, Filippo Vignato

vibrafono, Pasquale Mirra

batteria, Zeno De Rossi

Registrato il 26 ottobre 2017 a Villa Attems, Lucinico (GO)



 

 

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« DA DOMANI A SAALFELDENANGOLI »

CARTOLINE DALL'AUSTRIA, QUALCUNA AVVELENATA

Post n°2959 pubblicato il 26 Agosto 2013 da pierrde

Non c'è niente come un festival jazz, a parte naturalmente i rapporti interpersonali, che mi può regalare una imprevedibile quota di emozioni, stimoli, condivisione, noia e imbufalimento variamente assortiti.

E' successo anche a Saalfelden, dove oltre alle sei ore abbondanti per arrivare, in due giorni abbiamo inanellato dieci concerti, rinunciando la prima sera per stanchezza al gruppo di Jon Madof che iniziava ben oltre la mezzanotte e mezza.

In questa bella regione austriaca ero venuto nelle prime edizioni di questo festival che oramai è giunto alla 33° edizione mantenendo una invidiabile coesione programmatica e organizzativa. Molte le riflessioni su questi aspetti, a partire dalla amara constatazione che gran parte dei nomi in programma sembrano assolutamente sconosciuti ai direttori artistici dei festival italiani che evidentemente masticano non più della solita ventina di protagonisti odierni.

Altra osservazione è sul pubblico: venticinque anni fa era giovane, freak, spensierato e non del tutto  inquadrabile ne socialmente ne come gusti musicali. Oggi è molto cambiato: l'età media è abbondantemente over 45, e l'impressione che si ricava è che si tratti di un pubblico di fascia sociale e intelletuale alta, colto (non necessariamente in senso musicale)  e benestante. Insomma, pare che il jazz in Austria non sia una musica per giovani.

Arriviamo tardi per il duo Caine-Bennink, la consolazione parziale è il sold out esposto fuori dal locale che li ospita. Ci tuffiamo allora al Centro Congressi dove il primo piatto è rappresentato dal Jacob Fred  Jazz Odissey, un nonetto che suona le composizioni di  Chris Combs, impegnato alla lap steel guitar e autore e arrangiatore del gruppo. Una proposta che pesca in molti ambiti, sia all'interno della storia del jazz sia al di fuori, e lo fa con gusto, inventiva e ispirazione. Non ci sono ingredienti nuovi ma la miscela è fresca ed i musicisti non si fanno pregare nel sostenere il lavoro del leader con assoli calibrati e potenti.

A seguire Jon Medeski si propone in un solo concentrato e brillante, dove via via affronta temi blues, ballads ed evergreen (su tutti l'iniziale Summertime e la monkiana Evidence) con un tocco potente ed una grande attenzione alle soluzioni armoniche. Interessante e foriero di ulteriori sviluppi, sopratutto se il pianista saprà definire meglio il proprio percorso solistico dandogli una impronta più personale che esuli dalla perizia strumentale.

Le prime note stonate vengono dal gruppo a nome di Franz Hautzinger, dove brillano inutilmente le spinte ritmiche di Hamid Drake alla batteria e Jamaaladeen Tacuma al basso elettrico, per niente valorizzate dalla modestia tecnica del trombettista e dalla palese inadeguatezza del chitarrista giapponese Keiji Haino, un tarantolato dello strumento e un improbabile  urlatore. Sembra di essere a Paperissima quando Haino riesce a cadere dal divano dove era seduto, ma alla fine gli applausi degli zombie sopravissuti sono un chiaro segnale della tossicità delle servole servite nel tendone ristorante.  

Wadada Leo Smith propone alcune vibranti pagine tratte dal quadruplo e bellissimo Ten Freedom Summers alla testa del suo Golden Quartet rinforzato dal Pacifica Red Coral. Appare subito evidente una mancanza di affiatamento, frutto probabilmente di un numero di prove insufficienti, che rende nervoso Smith qui apprezzato sopratutto come compositore, perchè per quanto il suo timbro strumentale rimanga inconfondibile e molto bello, l'età non può più consentirgli spericolatezze tecniche.

La musica è carica di tensione, spigolosa e bruciante, l'impostazione e la scrittura si rispecchiano più nella musica contemporanea che nel jazz e solo il possente drumming di Pheeroan akLaff riporta nella adeguata dimensione un progetto nato per celebrare la conquista dei diritti civili della comunità nero-americana. Teso e non risolto il set lascia la sensazione che da quelle pagine si potrebbe ottenere ancora di più in termini di intensità e partecipazione.

Il trio di Iiro Rantala con Asja Valcic al violoncello e Adam Baldich al violino raccoglie in eccesso gli applausi che il pubblico ha riservato in maniera educata ma poco partecipe a Leo Smith. Il trio veste di nuovi colori pagine tratte da diversi generi musicali e lo fa con grande spolvero di tecnica strumentale, operazione che di solito serve a mascherare una carenza di fondo di idee nuove. Suonare Caravan a mille all'ora strappa applausi meritati ma facili, e per quanto il gruppo sia piacevole,  lo spessore e la profondità sono relativi. Bravi ma facilmente dimenticabili.

La domenica si apre con la pioggia ed il freddo. Niente di meglio quindi che salire sull'alpeggio sopra Saalfelden dove è in programma il concerto mattutino. Dopo poche note è evidente che l'attenzione è meglio spostarla sulle meravigliose birre Weiss, le salsicce e le patate che in breve ci rendono attivi ed entusiasti partecipanti della festa di paese che si consuma sotto il tendone.

A malincuore si torna al Centro Congressi dove incappiamo nel gruppo del batterista tedesco Christian Lillinger, un settetto che intesse una tela dai colori astratti senza particolari lampi e sollecitazioni. Il set scivola senza palpitazioni lasciandoci dubbiosi sull'effettivo valore della proposta e sugli effetti sensoriali delle birre ingurgitate.

Il peggio si materializza sotto forma del trio del violoncellista Ernst Reijseger, una musica etno-new age senza capo ne coda, perfetta per la sala d'aspetto di un dentista di provincia. La mia stima per Reijseger rimane intatta, occorre però a mio parere un deciso cambio di direzione. Questa è roba da ipermercato, cestello a fianco dei detersivi.

Il pubblico si spella le mani dagli applausi e noi cominciamo a pensare che oltre alle servole anche la birra servita sotto il tendone ristorante sia contaminata.

Mentre il rimpianto per la mattinata in alpe si fa malinconia ecco che improvvisamente arriva quello che per me è il miglior momento del festival: gli Angles 10, già apprezzati su disco, sfornano una prestazione dai toni epici. Il tentetto svedese con la guida di Martin Kuchen suona a memoria le migliori composizioni del proprio repertorio, da Dont' Ruin Me a Today is Better Than Tomorrow, e lo fa con calore, ispirazione e immediata leggibilità di temi di una bellezza bruciante. E' un jazz dai toni bandistici, sofisticato e semplice allo stesso tempo, che gioca sugli impasti dei fiati e sulla bravura dei solisti. Un trascinante Magnus Broo alla tromba disegna percorsi intricati sostenuto e spalleggiato da riff suonati all'unisono. Kuchen ha una voce strumentale penetrante e concede il giusto spazio ad ognuno dei musicisti, in un contesto di leggibilità che non intacca minimamente la bontà delle composizioni. E' sconsolante pensare che tanta bellezza difficilmente avrà considerazione dalle nostre parti.

Riprendersi da una overdose di splendore è difficile, sopratutto se Brandon Ross indugia con il banjo per lunghi minuti senza capire e far capire dove andrà a parare. Ma per fortuna la qualità dei musicisti è talmente elevata che il set prende quota con l'apporto di Ron Miles alla tromba, di Stomu Takeishi alla chitarra basso e di Tyshawn Sorey alla batteria. Un gruppo che schiva le fin troppo prevedibili derive davisiane e si incammina, senza peraltro raggiungere pienamente la meta, verso sentieri più impervi che in parte richiamano le esperienze di Ross con Henry Threadgill. Da risentire.

Il gran finale è prevedibile ma non per questo meno valido. Uri Caine ed i suoi meravigliosi musicisti ricamano sulle composizioni di George Gershwin con intelligenza e classe infinita. Hors categorie direbbero i francesi. Talmente bello da far dimenticare  i normali e pochi momenti meno riusciti di un festival che in soli tre giorni affastella più carne sul fuoco di quanto abbia fatto Umbria Jazz negli ultimi anni.

Una visione in parte simile in parte differente del festival la trovate nel link sotto riportato ad opera di Enrico Bettinello. Giusto per par-condicio e per la birra che non ho bevuto con Enrico.

http://www.giornaledellamusica.it/blog/?b=400

 

 

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Commenti al Post:
Utente non iscritto alla Community di Libero
Enrico Bettinello il 27/08/13 alle 08:11 via WEB
Grazie Roberto, spero a presto per la birra. Enrico
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Gianni M. Gualberto il 27/08/13 alle 18:06 via WEB
Per carità, dell'Italia dei nostri giorni si può dire tutto, però osservando il cartellone di Saalfelden (che non mi ha proprio colpito per particolare "vision") non ho intravisto peculiarità inarrivabili per il Bel Paese che, se non vado errato, ha già ospitato persino più volte buona parte degli artisti nel cartellone austriaco. Quanto a Uri Caine, è artista che ho apprezzato moltissimo e che mi è capitato di ospitare più volte: eccellente musicista, uomo delizioso e colto. Ma, perdiana: Mahler, Bach, Schumann, Wagner, Beethoven, Berio, Schoenberg... A diventare il Waldo De Los Rios della simil-avanguardia rischia di impiegare poco...
 
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