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Mondo Jazz

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martedì 9 ottobre 2018 alle 20.30

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« RADIOTRE PER LA GIORNATA...25 APRILE »

TAP DANCER

Post n°3454 pubblicato il 25 Aprile 2014 da pierrde

 

“La maggior parte della gente ha una certa immagine dei jazzisti neri. Per loro, il musicista nero è capace di suonare con feeling, ma è incapace di pensare. Tutto ciò che è intellettuale non può che appartenere alla cultura occidentale”

E poi:

“Il razzismo in Europa, è molto interessante, se comparato a quello americano. In America è esplicito: “Noi detestiamo i neri”. In Europa dicono piuttosto: “Potete venire, vi amiamo”. Ma in realtà è la stessa cosa. L’immagine che hanno del nero è sempre caricaturale, è quella del “tap dancer”, di colui che esegue il ritmo battendo i piedi…”

ANTHONY BRAXTON Jazz Magazine, Novembre 1972 “da un'intervista concessa a Philippe Carles"

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Commenti al Post:
Utente non iscritto alla Community di Libero
riccardo il 26/04/14 alle 16:54 via WEB
1972? I concetti espressi in questa intervista sono roba vecchia. Bisogna aggiornarsi. Il razzismo al contrario europeo nei confronti del jazz mi pare che oggi manifesti facce ancora più subdole e sottili. Per esempio scambiare musicisti neri totalmente privi di feeling che furbescamente assecondano l'ideale di intellettuale in musica degli europei per geni del jazz e nel contempo denigrare quelli che non lo fanno ma lo sono o lo sono stati per davvero.
 
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
riccardo il 27/04/14 alle 10:03 via WEB
...che poi qualcuno dovrebbe spiegarmi perché avere feeling e senso del ritmo sia in contrapposizione con il pensare e l'intellettualità, come pare implicitamente lasci intendere Braxton. Non mi pare che Ellington, Davis, Coltrane o Rollins, tanto per citare qualcuno di più importante nel Jazz di Braxton, abbiano manifestato carenze di intellettualità o di pensiero, eppure avevano feeling e senso del ritmo da vendere. Esiste anche una cultura del ritmo e certo tipo di feeling non è altro che espressione musicale di una emozionalità che ha profonde radici culturali sedimentate generazione dopo generazione e portate ad un livello di interiorizzazione tale che non richiede più necessariamente l'esplicazione in termini di pensiero razionale e quindi di cerebralità. Per quel che mi riguarda il discorso impostato in questo modo da Braxton non sta in piedi e forse serve solo a giustificare se stesso, mi spiace.
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
MJ il 28/04/14 alle 21:50 via WEB
e, in effetti, è proprio quel che fa Braxton nel brano proposto in questo post:-)
 
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
riccardo il 29/04/14 alle 09:58 via WEB
scusa Luca, non sono così intelligente da capire i tuoi sottintesi. Cos'è che farebbe Braxton in questo brano bandistico?
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Gianni M. Gualberto il 29/04/14 alle 17:41 via WEB
Hmmm, non so, la cosa mi ricorda una vecchia pubblicità in cui un simil-pescatore ligure, rivolgendosi a un paio di improbabili interlocutori, esclamava: "Avete ragione tutti e due...!". Perché "March" non è un buon esempio da analizzare, è molto meno tipico e self-explaining di quanto possa sembrare: il modello strutturale è quello tipico non della marcia europea ma della marcia codificata strutturalmente e linguisticamente da John Philip Sousa (e prima da Patrick S. Gilmore e poi da Arthur Pryor, ecc., ecc.), ben più di quella articolata in precedenza da un africano-americano come Francis Johnson o, dopo Sousa, da Alton Adams (lasciando da parte la marcia sviluppatasi a New Orleans e il repertorio di Jim Europe e dei suoi contemporanei o, ancora, il repertorio che William Dawson trascriveva da Robert Nathaniel Dett, Florence Price, Samuel Coleridge-Taylor). E il rapporto degli africani-americani con Sousa (e viceversa) merita un capitolo freudiano a sé stante: rileggere una marcia à la Sousa è, da parte di Braxton, una sorta di ironica perversione che lo accomuna ad autori diversissimi, da William Grant Still a Ulysses Kay o Clarence Cameron White, John Duncan, John Price, William Davis e Julian Work, Hale Smith o Adolphus Hailstork, tutti affascinati dal modello di Sousa poi ripreso da Edwin Franko Goldman (verrebbe da pensare anche a Melba Liston con il suo pezzo "African Joys").
 
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