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Mondo Jazz

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IL BAROCCO ED IL JAZZ

Post n°3530 pubblicato il 13 Giugno 2014 da pierrde

Se si pensa poi a quanti jazzisti negli ultimi anni si sono confrontati in vario modo, direttamente o indirettamente con la musica colta europea (John Zorn, Uri Caine, Fred Hersch, Richard Galliano, Paolo Fresu, Carla Bley ecc) , non si può fare a meno di notare che per molti musicisti il jazz non sembra più essere un punto di partenza certo o una bussola per una navigazione perigliosa ma chiara, ma piuttosto un punto da raggiungere faticosamente, dopo un'esplorazione a largo raggio di diversi lidi musicali, per avere la riconferma di un'idea musicale evidentemente messa, se non in discussione, almeno a confronto serrato con altre suggestioni musicali.

Non è la solita contaminazione che sta alla base di tutta la storia del jazz, ma piuttosto un percorso investigativo che cerca conferme e spesso, ma non sempre, le trova.

Alberto Arienti Orsenigo su Tracce di Jazz, leggi il testo completo qui: 

http://www.traccedijazz.it/index.php/primo-piano/32-editoriali/480-jazz-contemporaneo-alcuni-preferiscono-le-vie-contorte

 

1685: nascono tre compositori che avrebbero dato vita a pagine immortali della storia della musica barocca, influenzando l’evoluzione del linguaggio musicale colto attraverso i secoli. G.F.Handel, J.S.Bach e D.Scarlatti, tre personalità fortemente connotate nel contesto barocco in cui si muovono, eppure già testimoni, con la loro opera, di quel concetto di trasversalità della musica che attiene non solo alla cronologia ma anche ai cosiddetti generi.

Paola Parri, dalla recensione dell'album di Enrico Pieranunzi 1685 Plays Bach, Handel, Scarlatti

Gli incontri ravvicinati tra la musica barocca ed il jazz datano, nei suoi frutti più maturi, al Modern Jazz Quartet di John Lewis, ma non hanno mai cessato di esprimersi ed espandersi. 

La musica dei grandi compositori è sempre stata oggetto di studio e ispirazione per generazioni di jazzisti. Negli ultimi decenni una delle esperienze più riuscite è sicuramente la versione delle Goldberg Variations di Bach ad opera di Uri Caine e del suo ensemble. Niente affatto mera riproposizione o stucchevole "jazzificazione"  ma compenetrazione e appropriazione di un materiale che diventa nuovo pur rimanendo in assoluta armonia con la base di partenza.

Rimanendo in Italia un magnifico esempio di questa operazione è quello offerto da Enrico Pieranunzi e dei suoi album dedicati alle musiche di Scarlatti, Bach e Handel. Riprendo parte della recensione di Paola Parri:

 

Enrico Pieranunzi affronta i capolavori barocchi utilizzando un procedimento non univoco, bensì composito e differenziato. In alcuni brani l’approccio è rigorosamente interpretativo e fedele (ad esempio nel Prelude in G BWV 884 o nelle Bourrée I & II e ancora nel Prelude in F # Minor BWV 859 di J.S.Bach o nella Sonata in F# K 319 di D.Scarlatti). In altri brani le composizioni di Bach, Handel e Scarlatti sono punto di partenza per brani originali (come le IMPROHANDEL 481, 438 o le IMPROBACH 122, 402 e 797), ma accade anche che viceversa Pieranunzi parta da alcuni nuclei tematici per approdare alle composizioni di epoca barocca (come nella Impro K183 sulla Sonata in F Minor K183 di D.Scarlatti o la IMPROBACH 859 sul Prelude in F# Minor BWV 859 di Bach).

Secoli separano Bach, Handel e Scarlatti da Enrico Pieranunzi pianista e compositore del Ventunesimo secolo, eppure in queste composizioni non c’è frattura temporale. Senza soluzione di continuità le sonorità barocche confluiscono nella musicalità contemporanea di Pieranunzi e viceversa, il valore esemplare e fondante il genere della cosiddetta musica classica si armonizza con la struttura ritmico-armonica-melodica del jazz, in una compenetrazione di elementi che abbatte ogni definizione settaria.

Pieranunzi NON compone “alla maniera di Bach, Handel, Scarlatti”, non esegue inutili imitazioni stilistiche, non tenta la riproduzione o il calco anacronistico, piuttosto studia in profondità questi compositori, ne comprende l’intenzione, se ne appropria e crea in piena autonomia qualcosa che è perfettamente consonante a quella intenzione, persino quando parte da lontano, persino quando osa dissonanze e ritmi contemporanei.

Fonte: 

http://www.pianosolo.it/enrico-pieranunzi-1685-enrico-pieranunzi-plays-bach-handel-scarlatti-2011-camjazz/

Come discettava Michel Godard a Monza durante il suo concerto dedicato alle musiche di Monteverdi e Handel, i musicisti barocchi ed i jazzisti hanno in comune la capacità di improvvisazione, una sintonia che il tempo non ha intaccato. Semplicemente sono diversi i modi, i tempi ed il contesto, ma è possibile per il musicista di oggi riprendere temi del passato e rileggerli alla luce della propria sensibilità ed ispirazione.

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Commenti al Post:
Utente non iscritto alla Community di Libero
Rodolfo Marotta il 13/06/14 alle 23:49 via WEB
Diciamo che se a casa mia, uno spazio che conosco molto bene e che posso percorrere ad occhi chiusi, mi sposto dal soggiorno alla cucina posso utilizzare il percorso usuale oppure variare più percorsi. Siccome conosco bene lo spazio è ovvio che possa produrmi in numerose variazioni di percorso anche ad occhi chiusi. Quando questo si fa in musica la si chiama improvvisazione ma va da sè che non è improvvisazione poichè nulla viene all'improvviso ma tutto rientra in uno spazio semantico noto dal musicista. Chi suona sa che quando improvvisa non fa altro che suonare patterns o accordi o rivolti di accordi o intervalli che sono già scritti nella sua mente. La musica prodotta dall'uomo è stata, per sua natura, sempre improvvisata, se vogliamo usare questo falso termine. Solo in una civiltà, quella dell'Europa illuministica e solo per un breve periodo della Storia, taluni hanno trovato un metodo per scrivere musica. Si tende sempre a evidenziare questa presunta dicotomia tra musica improvvisata (va da sè, jazz) e musica scritta (ovviamente classica). Personalmente non ho mai ascoltato musica improvvisata in vita mia ma sempre musica molto codificata per quanto talvolta creata sul momento. Quando sento Brotzmann che mi spara a velocità scale cromatiche ascendenti e discendenti su tre o quattro sequenze di tono e poi vedo gli ascoltatori che vanno in brodo di giuggole per queste banalità credo che siano pazzi.
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Rodolfo Marotta il 13/06/14 alle 23:53 via WEB
Diciamo che quando si suona musica estemporanea più che sparare patterns a ripetizione sia un po' più complicato e bello riuscire a strutturare la tua musica, a darle una forma logica. Non tutti, anche tra i nomi illustri, riescono a farlo...
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
riccardo il 14/06/14 alle 11:09 via WEB
Ci sarebbero un po' di cose da discutere e chiarire. Innanzitutto il rapporto dei jazzisti o improvvisatori più in generale con la musica colta europea, e barocca in particolare in questo caso, non è nuovo o solo di oggi. Basti pensare a John Lewis e il MJQ, ma molti se non quasi tutti, specie tra i pianisti o i grandi compositori jazz (Ellington nella Black and Tan Fantasy del 1927 utilizza la Marcia Funebre di Chopin, ad esempio, e Mingus, specie nella produzione compositiva giovanile, tanto per citare i più noti) hanno sempre avuto rapporti col repertorio della musica classica e la tradizione colta europea, che peraltro faceva inevitabilmente parte dei loro studi. Pensiamo anche al combo di John Kirby anni '30. I più battuti sono proprio Bach, Chopin, ma anche Debussy, Ravel, Satie etc. Se non erro Monteverdi lo trovi anche nell'A.E.O.C. in "Les Stances a Sophie" che mi pare sia del 1970. Non parlo di Garbarek e il suo Officium fatto di elaborazioni su musica antica perché sostanzialmente non ha a che vedere col jazz. Senza contare di tutto il movimento intorno al concetto di Third Stream che ha sempre cercato di trovare una (per me improbabile) sintesi tra il Jazz e le sue procedure e la musica accademica. Sulla faccenda che nell'improvvisazione i jazzisti suonino solo patterns, scale etc.etc. ci sarebbe da discutere. Sarebbe come a dire che la matematica si identifica solo nei numeri e la loro tecnica manipolatoria o che i libri sono solo un insieme di parole o pensieri messi in una qualche sequenza standard. Mi sembra una visione molto parziale di queste arti che hanno una loro visione e logica espressiva, che si differenzia a seconda dell'ambito linguistico considerato. Come minimo e ad esempio, mi pare ci si dimentichi che la musica è un linguaggio, certo con la sua tecnica e le sue regole, che raggiunge tuttavia anche (e per fortuna...) scopi espressivi. Peraltro nel jazz contano poi anche gli aspetti ritmici, la formazione personale del suono, gli accenti e le pronunce etc., mica solo scale accordi, rivolti e patterns. Certo non si deve confondere l'improvvisazione con l'estemporaneità, come mi sembra si lasci intendere tra le righe dell'intervento di Rodolfo. Non è che si inventa tutto al momento (e questo vale per esempio anche per Jarrett, giusto per andare all'estremo, nei suoi solo piano). Nel jazz il processo per arrivare ad un assolo "perfetto" segue per sua costituzione la conoscenza e l'apprendimento progressivo per via orale (metodologia che si può far risalire volendo sino ai griot africani) più che scritta (tipica della tradizione colta europea), giorno dopo giorno, prova dopo prova, concerto dopo concerto. Ad esempio le Jam Sessions post lavoro in big band, tipiche degli anni '40, servivano ai solisti per mettere a punto i loro assoli ed è peraltro noto che la perfezione dell'assolo di "Potato Head Blues" di Armstrong è il risultato evidente di una serie di cose messe a punto in precedenza da Louis in termini di work in progress, o l'assolo di Illinois Jacquet in "Flying Home" o in "The King" sono chiaramente costruiti. Quanto alla strutturazione e alla giusta forma nell'improvvisazione, certo è un elemento importante, ma ritengo e ho sempre ritenuto un errore fare confronti valutativi diretti tra l'ottenimento della strutturazione e della forma per via totalmente scritta, rispetto a quella totalmente o parzialmente improvvisata, perché seguono modalità procedurali diverse e soprattutto tempi diversi ed inevitabilmente in tali termini vincerà sempre la procedura scritta, in terminidi complessità e sofisticazione, ma l'improvvisazione è legata sempre al presente e all'attimo in cui avviene la musica, allo stato d'animo del musicista e dei fattori ambientali (l'effetto sorpresa o attesa cambia di molto e si comprende il rischio fallimento e ciò vale anche per chi ascolta. Ad un concerto di jazz inoltre lo spettatore non ha mai il libretto in sala col programma delle cose che si suoneranno sul palco. Il bello e il brutto insieme sta proprio lì: non si sa precisamente cosa accadrà)in un approccio per così dire più esistenziale, mentre nella modalità scritta vi è la ponderazione, la riflessione. Vi è cioè il tempo dell'analisi musicale profonda per arrivare ad una perfetta sintesi che sta sullo spartito. Poi che ci siano stati dei geni che mettevano per iscritto musica immediatamente e perfettamente, questo mi pare legato al genio del singolo, non la regola. E la prassi seguita ad essere molto differente. Non so se sono riuscito a spiegarmi adeguatamente. Comunque argomento davvero interessante.
 
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loopdimare il 14/06/14 alle 13:53 via WEB
anch'io non concordo con quanto scritto da Rodolfo sull'improvvisazione. ha già detto Riccardo molte cose sui percorsi d'improvvisazione che via via si affinano. io vorrei sottolineare il differente approccio tra un esecutore classico ed un jazzista: il virtuoso classico tende a rstituire al meglio, con la sua sensibilità, quanto scritto sul pentagramma, il suo percorso sarà sempre un viaggio verso il miglioramento e più andrà avanti e meno percettibili sarenno le differenze tra le varie versioni sue. esagerando, il suo obbiettivo sarebbe quello di arrivare al massimo e continuare a riprodurlo uguale. il jazzista, al contrario, anche quando ha nella testa e nelle dita, un assolo collaudato, farà esattemente il contrario: il suo percorso sarà sempre di differenziazione dalla versione precedente, magari per pochi particolari, proprio perchè non ha un modello d'arrivo scritto sulle tavole di un pentagramma. sui precedenti rapporti jazz-classica, vorrei invece dire che qualcosa è cambiato: una volta c'erano le citazioni o il brano classico "jazzificato" e reso in puro linguaggio jazz, adesso c'è una contamizazione di stili e metodi, lo swing non è più un imperativo assoluto e quindi il percorsi sono più intricati e le bussole funzionano ma anche no. diciamo che queste forme attuali sono più vicine alla third stream, con la differenza che quella di una volta era una posizione di principio ben chiara e programmatica, che comunque denotava un forte complesso d'inferiorità del jazzista, mentre oggi ci troviamo di fronte più a percorsi individuali e ad approcci molto paritari, senza più complessi d'inferiorità.
 
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Gianni M. Gualberto il 15/06/14 alle 08:32 via WEB
Credo sia giusto, in un certo senso, definire il jazz e altre musiche affini sotto il titolo di "composizione istantanea". Trattasi comunque di composizione, per quanto l'improvvisazione così come noi la concepiamo usualmente abbia scopi, necessità, accenti, moduli, lessico e atteggiamenti strutturali diversi rispetto alla composizione di derivazione accademica. Ciononostante, in ambedue (o più) i casi, si tratta di composizione. E con essa ci si deve misurare, non credo vi siano altre realtà su cui commentare o ipotizzare. Anche l'assolo "jazzistico" risponde a un criterio compositivo, aldilà dei mezzi di cui fa uso il musicista per raggiungere il risultato finale. Ovviamente, vi sono differenze vastissime fra linguaggi e relative loro strutturazioni, ma direi che il processo di base è sempre lo stesso.
 
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