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Mondo Jazz

Il Jazz da Armstrong a Zorn. Notizie, recensioni, personaggi, immagini, suoni e video.

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martedì 9 ottobre 2018 alle 20.30

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A PROPOSITO DI JAZZ

Post n°1070 pubblicato il 08 Ottobre 2008 da pierrde

Lettura istruttiva quella dell'"editoriale" di Gerlando Gatto sul suo blog, al quale vi rimando a piè di pagina. Condivido ovviamente gran parte delle affermazioni, da quelle sulla "visibilità" dei musicisti italiani non dotati di un ufficio marketing alla Giovanni Allevi fino alle critiche al Top Jazz della rivista per eccellenza dell'editoria italiana, Musica Jazz. Anche quest'anno a quanto pare il referendum si svolgerà con unico soggetto il jazz italiano.

 Scelta decisamente auto-limitante, impossibile non considerare tutto quello che di buono si aggira nel globo terracqueo, e forse paradossalmente non utile nemmeno alla causa del jazz italiano. Sottrarsi al confronto con i musicisti americani ed europei per concentrarsi sull'orticello di casa nostra non rende giustizia alla effettiva grandezza del nostro folto e splendido gruppo di jazzisti. Se è assodato che gente come Gaslini o Fresu o chiunque vi possa venire in mente non ha niente di meno e tantomeno niente da invidiare ai vari Marsalis e compagnia suonando, perchè allora ghettizzarli con un referendum a senso unico ? Forse era più logico semplicemente annullare la classifica solo italiana che c'era fino a due anni fa  e comprendere i nostri musicisti e i loro album nelle classifiche complessive.  

Una ultima annotazione: Gatto annuncia il suo album italiano preferito per il 2008. Si tratta del bellissimo Pieranunzi plays Scarlatti, che anch'io ho recensito qui sul blog attribuendogli il massimo dei voti. Ma, con tutto rispetto, l'album è tanto bello quanto lontano dal jazz anche nelle accezioni più aperte e contaminate. Per me l'album italiano dell'anno è senz'altro il conturbante Suite for Tina Modotti di Francesco Bearzatti. E con questo mi sono sbilanciato, anche se il mio è parere di semplice appassionato e non comparirà sul Top Jazz.   

http://www.online-news.it/jazz/blog/comments.php?y=08&m=10&entry=entry081002-171505

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Commenti al Post:
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Anonimo il 09/10/08 alle 23:31 via WEB
sono x il superamento degli steccati,ma se si aderisce ad un referendum per premiare un disco jazz (anche in senso lato) la scelta più sbagliata è premiare il disco di Pieranunzi. Sono poi d'accordissimo per il referendum circoscritto al jazz italiano. Chi se ne frega di vedere anno dopo anno in testa alle classifiche Rollins,Jarrett,Coleman.....
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 14/10/08 alle 12:03 via WEB
Avrei parecchie perplessità, fermo restando che intorno al jazz italiano (dove non tutto è oro ciò che riluce) tira ormai una ventata di vanesio nazionalismo che, nel suo essere piuttosto provinciale, invita al sorriso (nel senso che non riesce neanche ad essere irritante) Ho sempre trovato certa critica europea, sia quella inglse che francese, smodata nel sostegno sciovinista ai propri artisti, anche quando di valore nullo; da tempo la critica italiana (dalle armi culturali persino inferiori alla critica franco-britannica) si è allineata a questo approccio che non è neanche tronfio, è semplicemente acritico, ricolmo com'è, poi, di un sottile e banale antiamericanismo di radici comuni fra Sinistra e Destra, che sente di prendersi rivincite a destra e a manca, dal 1945 ad oggi, di là e di qua dello scomparso Muro di Berlino. Mi pare anche piuttosto gratuito, se non facilone, il disprezzo a piene mani distribuito nei confronti del nazionalista africano-americano Wynton Marsalis (paragonato addirittura a Gaslini e a Paolo Fresu... via, non scadiamo nell'esilarante...: certi paralleli non hanno senso storico, culturale, linguistico e neanche tecnico) la cui figura, una volta tanto, senza preconcetti, pregiudizi e paraocchi, andrebbe inquadrata con maggiore rispetto e più acuta obiettività. E forse, con una migliore conoscenza di determinate correnti di pensiero all'interno del processo estetico africano-americano. Un caro saluto, Gianni Morelenbaum Gualberto
 
 
pierrde
pierrde il 14/10/08 alle 19:13 via WEB
Un intervento molto stimolante e ricco di spunti, per il quale ti ringrazio sinceramente. Molti i punti sui quali condivido le tue argomentazioni, su altri probabilmente la vediamo in modo differente, ma questo non è di impedimento alcuno ad un piacevole scambio di idee. E’ indubbiamente vero che parte della critica, soprattutto quella francese, tende a “coccolare” eccessivamente i propri rampolli, non vedo un fenomeno di egual portata da noi, dove anzi, a parte i pochi che hanno raggiunto una visibilità, gli altri possono contare al massimo sul Top Jazz autarchico per riuscire a vedere il proprio nome in qualche rilievo sui media. Certo non tutto il jazz italiano è dello stesso spessore, ma complessivamente credo che il livello medio sia notevolissimo. Concordo sul fatto che certi paragoni tra musicisti di area, estrazione e culture differenti siano più “calcistici” che reali, e quindi irrealistici e mal posti ( anch’io mi faccio spesso prendere la mano come giustamente evidenzi)., A tutti credo è capitato di osservare durante festival o rassegne che mettono a confronto europei ed americani che ogni tanto i meno interessanti sono proprio gli americani. Mai mi sono annoiato nell’assistere ad un concerto di Fresu, in tutte le sue incredibili varianti di formazioni e proposte. E se dovessi scegliere tra Franco D’Andrea e Chick Corea in concerto la stessa sera in due teatri differenti, non avrei dubbio alcuno… Non voglio generalizzare naturalmente, credo però che abbiamo sofferto forse troppo a lungo di preconcetti americanocentrici. Lo dico senza spocchia e senza nessun anti-americanismo di ritorno: sono cose vecchie e per fortuna ampiamente superate. A meno di non voler dare per buona la filosofia Marsaliana, e cioè che 1) il jazz è una musica solo americana (anzi, solo nero-americana) 2) il jazz è equiparabile alla musica classica e quindi, di fatto, privo di qualsiasi ulteriore sviluppo. Roba da vecchio conservatore, anzi da quacchero incallito. Sarebbe come dire che la musica classica è solo europea, e quindi i vari Metha, Montero, Agerich, ecc., hanno sbagliato tutto , più o meno come Martial Solal, John Surman, Paul Bley, eccetera. Negare sviluppo al jazz è poi come decretarne di fatto la morte immediata, ma soprattutto negarne la storia, fatta di continui mutamenti e contaminazioni. Oggi il jazz, pur essendo una musica nero-americana, appartiene al mondo intero, esattamente come la musica classica che viene studiata e praticata in Oriente come nelle Americhe. Certamente la mia comprensione del contesto afro-americano in cui nasce Wynton è da migliorare; da parte mia non ho mai smesso di ammirarne le formidabili doti musicali, cosa che, appunto, mi riesce più difficile con le sue concezioni sulla musica (condivido, inutile dirlo, le idee del vecchio Lester Bowie !).
 
   
Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 17/10/08 alle 08:12 via WEB
A me non dispiace la polemica. Anzi, reputo quella acremente bizzosa pur sempre meglio del civilissimo consenso in punta di forchetta. Qualcuno la scambia per astiosità. Sbaglia. Ma, insomma, non si può piacere a tutti, una fra le poche cose autenticamente belle dell’esistenza. Beh, chissà perché l'"universalità" del jazz torna sempre comodo quando si tratta di affibbiare agli africani-americani la patente dei superati (naturalmente a favore degli europei, gli unici, a quanto pare, a partire da Guillaume de Machaut e anche prima, in grado di maneggiare le doti di Euterpe): è un buon traguardo, finalmente si riesce a strappare ai nero-americani (e di contorno, agli americani tout court) anche una fra le poche cose che era sfuggita alla smania colonialistica europea. Si ritorna finalmente a un sano mondo non più globalizzato ma a un'altrettanto sana conduzione europea (con i bei risultati ottenuti, se non erro, a partire dal 1932). Curioso, in un mondo in cui la Sinistra (cui un tempo mi vantavo di appartenere: oggi è meglio pregare perché arrivi una Third Stream anche in tali ambiti...), fino a pochi anni fa, considerava obligé esaltare il nazionalismo africano-americano degli Amiri Baraka, dei Sun Ra, dell'AACM o delle Black Panther (tutta gente che non la pensava troppo diversamente da Wynton Marsalis, almeno su alcuni punti, visto che, in fondo, alcuni considerano lo stesso Marsalis culturalmente un po' troppo inquinato con il potere istituzionale bianco, nella sua sprezzante diffidenza verso un'avanguardia che, a sua volta, egli non considera africana-americana abbastanza: quando la lana caprina si fa fitta...)... Oggi, invece, con i mirabili capovolgimenti che il crollo delle ideologie continua a comportare e, dunque, con l'ondivaga genericità che esso implica, si è pronti a sostenere che nella loro stessa lingua gli africani-americani sono maldestri, in nome dell'universalità della stessa. Passati i tempi in cui gli intellettuali nostrani (quelli che ancora non avevano voltato gabbana in omaggio alla lotta contro quella globalizzazione di cui il jazz è stato primo e imponente profeta culturale) agitavano " Blues People" più del libretto rosso di Mao. Per carità, crollano le Borse, godiamo tutti della caduta a picco non di un comune modello di mercato, come è già accaduto altre volte, ma dell'odiato "capitalismo americano" (una fra le tante idiozie di cui si può leggere di questi tempi), niente di strano, perciò, che finalmente si possa godere anche del crollo (assai ipotetico) dell'orribile jazz "americano", a favore di un sano europeismo, ancorché infarcito di un provincialismo deleterio bene avviluppato nella copertina di un ruttino di supremazia bianca. E si scopre che è bestemmia sostenere che il jazz sia primariamente una musica africana-americana, inscindibilmente legata ai processi della cultura americana (ben originale) sviluppatasi nel corso del Novecento e eminentemente rivolto proprio ai popoli meticciati, protagonisti della globalizzazione. Ma sì, in fin dei conti una manica di patetici imbecilli ha decretato a Stoccolma che Philip Roth è merce imputridita, vuoi mettere con il sano, bianco, europeo Le Clézio, anche se scrittore turpemente mediocre... Ed è divertente (e anche un po' razzista ma, insomma, gli europei, si sa, possono concedersi questo ed altro, dall'alto dei loro duemila e passa anni di Storia, fra un'Inquisizione, una Shoa e altre amenità trascurabili) che da queste parti si voglia dettare agli africani-americani anche come comportarsi nella loro stessa cultura: ragazzi, che ve ne fate del nazionalismo di Marsalis... ma come si permette questo buzzurro... pretende persino di imporre una classicità -che è, riconosco, criterio certamente suscettibile di critiche e dubbi- roba da europei... questi neri stanno diventando troppo americani, li preferivamo quando contestavano in un linguaggio a noi appetibile... Ritornassero a fare i neri, che al resto ci pensa la gloriosa cultura europea, con il putridume estetizzante del surrogato culturale prodotto da ECM & C. per incliti evoluti (ma non abbastanza). Per non parlare poi dei terribili musicisti bianchi americani, accettabili solo se sufficientemente europeizzanti e estetizzanti (Que viva Tristano!): il jazz, in fin dei conti, è nato malauguratamente negli Stati Uniti, dove ormai non sanno che farsene (dev’essere un altro effetto del bushismo…)… Un’avanguardia inesistente (peccato che il rapporto fra jazz e performing arts stia dando dei frutti notevolissimi ; peccato che l’incalzare di nuove ondate migratorie, da quella slava a quella asiatica originatasi in India e Pakistan, stia dando vita a connubi linguistici straordinari, di cui una eco ben più ridotta si avverte anche in Inghilterra: immagino che artisti come Vijay Iyer e Rudreesh Mahanthappa siano dei relitti di qualche naufragio culturale; peccato che il dialogo fra gruppi etnici diversi stia creando nuovi laboratori di cui, nella nostra purezza, nordica o mediterranea, non avvertiamo alcun impulso, preferendo noi l’esaltazione delle radici, a rischio di scivolare nella melma appiccicosa della più neo-colonialista world music d’accatto…), un’insistenza sulle proprie radici meticciate (quella volgare insistenza sui dati dello hard bop, che qualcuno già trenta e quaranta anni fa viveva come un rigurgito di conservatorismo), l’evoluzione metrica del bop nelle forme di rap e hip hop, le evoluzioni ritmiche allineatesi alla ricchezza immaginifica della slam poetry, il riallaccio costante alle varie forme culturali derivate dal mondo culturale africano e africano-americano… Minuzie, naturalmente, di fronte all’innovazione europea, che da decenni ormai continua a girare su sé stessa, come Narciso di fronte a uno specchio d’acqua. Mi stupisce come certa autoreferenzialità autarchica (e pensare che, ad esempio, Enrico Rava ha dato il meglio di sé, che non è poco, proprio nella sua ispirazione più cosmopolita, ben prima che vezzosamente, come una nonna perennemente incinta, si dedicasse a fare il profetta dell’italica cultura popolare con una spruzzata di europeismo, tanto per non sembrare troppo provinciale…), che non di rado sfocia in una spocchiosa auto-sopravvalutazione, venga spacciata per innovazione: insomma, rinnovare il guardaroba dei propri avi rischia di passare non per una sana politica anti-tarme, ma per creatività allo stato puro, non un elegante, ancorché di corto respiro (in un mondo che comunque insegue il sincretismo, vivaddio), accenno alle proprie radici, ma un vero e proprio processo creativo ex novo… Ho sempre ammirato Esbjorn Svensson perché, pur alla ricerca di una sua originalità locale (glocale?), non si vergognava di esibire il fatto che la fonte del suo sostentamento creativo fosse in larga parte extra-europea, anzi americana e africana-americana. Riconosco di avere in uggia l’estetismo europeizzante che puzza di nazionalismo: ho amato il secolo di quei barbari che si chiamavano Ives e Cowell, Gershwin e Armstrong, Copland e Jelly Roll Morton, Cage e Mingus, Feldman e Coltrane. E ci aggiungerei, per buona misura, che so, Chávez e Revueltas, Arturo Márquez e Javier Álvarez, magari pure Peter Sculthorpe o Ernesto Nazareth e, perché no, anche lo stravolgimento indio che Villa-Lobos fece di Bach. Amerei avere le tue certezze, quelle certezze che ti fanno preferire Franco D’Andrea (eccellente pianista, persona squisita e, certamente, modesta e rigorosa) a Chick Corea… Peccato che D’Andrea, pur con tutta la sua strepitosa bravura, non abbia cambiato la storia della musica improvvisata di una virgola, mentre Corea di virgole ne ha cambiate tante (altrimenti, parte del pianismo modale sarebbe rimasta ferma a McCoy Tyner). Esistono anche i ruoli storici, a meno che non si voglia creare nuove scale di valori. E, certo, apprezzo anch’io l’intelligenza, anche l’astuzia di Paolo Fresu, la sua eleganza, ancorché abbia inventato poco o nulla di nuovo. Anzi, lo ammirerò ancora di più quando l’avrò sentito cavare anche un acuto, così, tanto per fare “nu muorzo e’ vita”, come dicono a Napoli). Lungi da me negare il talento di tanti artisti italiani (oggi orgogliosamente riuniti in casta), non vorrei però doverne negare invece la derivatività, che nel jazz, ahimé, è cosa piuttosto comune in ambito idiomatico, per chi non vuole essere cosciente della primari età africana-americana. Sì, è pur vero che mio padre era di colore e che i bianchi gli stavano un po’ sulle scatole: devo avere ereditato qualcosa da lui. Un caro saluto, GMG
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 14/10/08 alle 21:30 via WEB
condivido al 100% la replica all'intervento di GMG, di cui non condivido,nè capisco l'acredine nei confronti del jazz italiano. Se lui preferisce Marsalis o Blanchard,padrone di farlo. Io mi tengo Rava e Fresu
 
 
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Anonimo il 15/10/08 alle 21:55 via WEB
Padrone di farlo. GMG
 
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