Mondo Jazz
Il Jazz da Armstrong a Zorn. Notizie, recensioni, personaggi, immagini, suoni e video.
IL JAZZ SU RADIOTRE
martedì 9 ottobre 2018 alle 20.30
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JAZZ & WINE OF PEACE
Pipe Dream
violoncello, voce, Hank Roberts
pianoforte, Fender Rhodes, Giorgio Pacorig
trombone, Filippo Vignato
vibrafono, Pasquale Mirra
batteria, Zeno De Rossi
Registrato il 26 ottobre 2017 a Villa Attems, Lucinico (GO)
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Chi mi conosce o mi legge sa che per me Estival Jazz, la manifestazione luganese che quest'anno festeggia i 40 anni, è un festival da bollino nero per qualsiasi appassionato di musica jazz.
Due i motivi principali. Il primo sta nella deriva che da ormai molti anni i due direttori artistici hanno impresso al festival: dai nomi più prestigiosi e significativi della musica afro americana ad un etno pop di facile presa e di altrettanto facile dimenticanza.
D'altronde basterebbe leggere il libretto stampato per questa edizione e scorrere i nomi che dal 1977 hanno calcato il palcoscenico di Piazza della Riforma. Credo si tratti di un formidabile autogol da parte di Jacky Marty e soci, si è passati infatti da Miles Davis ai New Trolls o, per rimanere sull'attualità di quest'anno, da Keith Jarrett a Renzo Arbore.
Il secondo motivo per il quale sconsiglio dal frequentare Estival è lo scarso rispetto (un eufemismo) verso gli appassionati. La piazza infatti è praticamente occupata per tre quarti da transenne che delimitano lo spazio per i vip a vario titolo, che naturalmente si presentano a concerto iniziato, chiacchierano amabilmente tra loro, salvo poi applaudire freneticamente a fine brano. Non parliamo poi dei clienti dei ristoranti che fiancheggiano la piazza: apertamente disinteressati all'ascolto, si dilettano nel rendere impossibile fruire del motivo principale per il quale, in teoria, si è li sulla piazza, in piedi, scomodi e purtroppo rassegnati.
Ci sono poi tutti gli effetti collaterali dei concerti gratuiti: folle di passaggio del tutto poco interessate alla musica, voci alte, rumori di gozzoviglie e altre piacevolezze tipiche di situazioni simili.
Insomma, molto meglio stare a casa. Ma dopo tanti anni in cui ho messo in pratica il mio stesso consiglio, venerdi' ho ceduto alle insistenze di amici, e, contando sul fatto che i gruppi jazz vengono fatti esibile in primissima serata (ovvio, la festa vera comincia dopo, quindi prima ci salviamo la faccia con l'opinione pubblica (ahahahah, ma quale ? ) e poi finalmente ci divertiamo con salsa, merengue e i cori russi (il noto cantautore qui aggiungeva il free jazz ed il punk inglese...).
Sta di fatto che in programma c'era il nuovo gruppo di Jack De Johnette, Hudson, come l'album uscito un anno fa, e come la vallata in riva al fiume omonimo dove abitano i quattro musicisti.
Rispetto all'album Scott Colley ha preso il posto di Larry Grenadier, ma nulla è cambiato nella proposta musicale: un funky blues ricchissimo di groove, con una spinta indiavolata della sezione ritmica a sostenere i voli pindarici di John Medeski alle tastiere e John Scofiled alla chitarra.
Repertorio costituito, come sull'album, da alcuni classici del rock anni sessanta (Dylan, Hendrix, Mitchell) e da originals da parte dei componenti del gruppo. Sentito anche il leader in veste di cantante, molto dignitoso, ma rimane molto piu' impresso il beat scatenato e l'energia profusa che smentisce i 76 anni registrati all'anagrafe da De Johnette.
Quattro maestri del rispettivo strumento, indubbiamente, ed un concerto che ha confermato le qualità dell'album. Tuttavia....tuttavia almeno a mio parere non si tratta certo del gruppo più significativo messo in piedi nella sua lunga carriera da De Johnette. Non ci sono gli impasti sonori ne gli arrangiamenti ricercati delle Special Edition, tanto per fare un paragone piuttosto distante nel tempo.
La mia impressione è che il leader abbia preferito un progetto dal successo sicuro e dall'impatto sonoro decisamente impressionante piuttosto che scavare alla ricerca di qualcosa di inudito o di inaudito. Tant'è che, per quanto apprezzi i funambolismi di Medesky sia all'Hammond che al Fender Rhodes, il brano più convincente, l'ultimo in programma (Woodstock), ci ha fatto aprezzare il pianista in veste acustica gettando una luce completamente diversa sulle possibilità inespresse del gruppo.
Successo pieno comunque, applausi convinti sia dai vip seduti che dai peones accaldati e all'impiedi, e poi rapida fuga verso casa prima che si scatenino le danze !
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Andrea Baroni
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