A me non dispiace la polemica. Anzi, reputo quella acremente bizzosa pur sempre meglio del civilissimo consenso in punta di forchetta. Qualcuno la scambia per astiosità. Sbaglia. Ma, insomma, non si può piacere a tutti, una fra le poche cose autenticamente belle dell’esistenza. Beh, chissà perché l'"universalità" del jazz torna sempre comodo quando si tratta di affibbiare agli africani-americani la patente dei superati (naturalmente a favore degli europei, gli unici, a quanto pare, a partire da Guillaume de Machaut e anche prima, in grado di maneggiare le doti di Euterpe): è un buon traguardo, finalmente si riesce a strappare ai nero-americani (e di contorno, agli americani tout court) anche una fra le poche cose che era sfuggita alla smania colonialistica europea. Si ritorna finalmente a un sano mondo non più globalizzato ma a un'altrettanto sana conduzione europea (con i bei risultati ottenuti, se non erro, a partire dal 1932). Curioso, in un mondo in cui la Sinistra (cui un tempo mi vantavo di appartenere: oggi è meglio pregare perché arrivi una Third Stream anche in tali ambiti...), fino a pochi anni fa, considerava obligé esaltare il nazionalismo africano-americano degli Amiri Baraka, dei Sun Ra, dell'AACM o delle Black Panther (tutta gente che non la pensava troppo diversamente da Wynton Marsalis, almeno su alcuni punti, visto che, in fondo, alcuni considerano lo stesso Marsalis culturalmente un po' troppo inquinato con il potere istituzionale bianco, nella sua sprezzante diffidenza verso un'avanguardia che, a sua volta, egli non considera africana-americana abbastanza: quando la lana caprina si fa fitta...)... Oggi, invece, con i mirabili capovolgimenti che il crollo delle ideologie continua a comportare e, dunque, con l'ondivaga genericità che esso implica, si è pronti a sostenere che nella loro stessa lingua gli africani-americani sono maldestri, in nome dell'universalità della stessa. Passati i tempi in cui gli intellettuali nostrani (quelli che ancora non avevano voltato gabbana in omaggio alla lotta contro quella globalizzazione di cui il jazz è stato primo e imponente profeta culturale) agitavano " Blues People" più del libretto rosso di Mao. Per carità, crollano le Borse, godiamo tutti della caduta a picco non di un comune modello di mercato, come è già accaduto altre volte, ma dell'odiato "capitalismo americano" (una fra le tante idiozie di cui si può leggere di questi tempi), niente di strano, perciò, che finalmente si possa godere anche del crollo (assai ipotetico) dell'orribile jazz "americano", a favore di un sano europeismo, ancorché infarcito di un provincialismo deleterio bene avviluppato nella copertina di un ruttino di supremazia bianca.
E si scopre che è bestemmia sostenere che il jazz sia primariamente una musica africana-americana, inscindibilmente legata ai processi della cultura americana (ben originale) sviluppatasi nel corso del Novecento e eminentemente rivolto proprio ai popoli meticciati, protagonisti della globalizzazione. Ma sì, in fin dei conti una manica di patetici imbecilli ha decretato a Stoccolma che Philip Roth è merce imputridita, vuoi mettere con il sano, bianco, europeo Le Clézio, anche se scrittore turpemente mediocre...
Ed è divertente (e anche un po' razzista ma, insomma, gli europei, si sa, possono concedersi questo ed altro, dall'alto dei loro duemila e passa anni di Storia, fra un'Inquisizione, una Shoa e altre amenità trascurabili) che da queste parti si voglia dettare agli africani-americani anche come comportarsi nella loro stessa cultura: ragazzi, che ve ne fate del nazionalismo di Marsalis... ma come si permette questo buzzurro... pretende persino di imporre una classicità -che è, riconosco, criterio certamente suscettibile di critiche e dubbi- roba da europei... questi neri stanno diventando troppo americani, li preferivamo quando contestavano in un linguaggio a noi appetibile... Ritornassero a fare i neri, che al resto ci pensa la gloriosa cultura europea, con il putridume estetizzante del surrogato culturale prodotto da ECM & C. per incliti evoluti (ma non abbastanza). Per non parlare poi dei terribili musicisti bianchi americani, accettabili solo se sufficientemente europeizzanti e estetizzanti (Que viva Tristano!): il jazz, in fin dei conti, è nato malauguratamente negli Stati Uniti, dove ormai non sanno che farsene (dev’essere un altro effetto del bushismo…)… Un’avanguardia inesistente (peccato che il rapporto fra jazz e performing arts stia dando dei frutti notevolissimi ; peccato che l’incalzare di nuove ondate migratorie, da quella slava a quella asiatica originatasi in India e Pakistan, stia dando vita a connubi linguistici straordinari, di cui una eco ben più ridotta si avverte anche in Inghilterra: immagino che artisti come Vijay Iyer e Rudreesh Mahanthappa siano dei relitti di qualche naufragio culturale; peccato che il dialogo fra gruppi etnici diversi stia creando nuovi laboratori di cui, nella nostra purezza, nordica o mediterranea, non avvertiamo alcun impulso, preferendo noi l’esaltazione delle radici, a rischio di scivolare nella melma appiccicosa della più neo-colonialista world music d’accatto…), un’insistenza sulle proprie radici meticciate (quella volgare insistenza sui dati dello hard bop, che qualcuno già trenta e quaranta anni fa viveva come un rigurgito di conservatorismo), l’evoluzione metrica del bop nelle forme di rap e hip hop, le evoluzioni ritmiche allineatesi alla ricchezza immaginifica della slam poetry, il riallaccio costante alle varie forme culturali derivate dal mondo culturale africano e africano-americano… Minuzie, naturalmente, di fronte all’innovazione europea, che da decenni ormai continua a girare su sé stessa, come Narciso di fronte a uno specchio d’acqua.
Mi stupisce come certa autoreferenzialità autarchica (e pensare che, ad esempio, Enrico Rava ha dato il meglio di sé, che non è poco, proprio nella sua ispirazione più cosmopolita, ben prima che vezzosamente, come una nonna perennemente incinta, si dedicasse a fare il profetta dell’italica cultura popolare con una spruzzata di europeismo, tanto per non sembrare troppo provinciale…), che non di rado sfocia in una spocchiosa auto-sopravvalutazione, venga spacciata per innovazione: insomma, rinnovare il guardaroba dei propri avi rischia di passare non per una sana politica anti-tarme, ma per creatività allo stato puro, non un elegante, ancorché di corto respiro (in un mondo che comunque insegue il sincretismo, vivaddio), accenno alle proprie radici, ma un vero e proprio processo creativo ex novo… Ho sempre ammirato Esbjorn Svensson perché, pur alla ricerca di una sua originalità locale (glocale?), non si vergognava di esibire il fatto che la fonte del suo sostentamento creativo fosse in larga parte extra-europea, anzi americana e africana-americana. Riconosco di avere in uggia l’estetismo europeizzante che puzza di nazionalismo: ho amato il secolo di quei barbari che si chiamavano Ives e Cowell, Gershwin e Armstrong, Copland e Jelly Roll Morton, Cage e Mingus, Feldman e Coltrane. E ci aggiungerei, per buona misura, che so, Chávez e Revueltas, Arturo Márquez e Javier Álvarez, magari pure Peter Sculthorpe o Ernesto Nazareth e, perché no, anche lo stravolgimento indio che Villa-Lobos fece di Bach.
Amerei avere le tue certezze, quelle certezze che ti fanno preferire Franco D’Andrea (eccellente pianista, persona squisita e, certamente, modesta e rigorosa) a Chick Corea… Peccato che D’Andrea, pur con tutta la sua strepitosa bravura, non abbia cambiato la storia della musica improvvisata di una virgola, mentre Corea di virgole ne ha cambiate tante (altrimenti, parte del pianismo modale sarebbe rimasta ferma a McCoy Tyner). Esistono anche i ruoli storici, a meno che non si voglia creare nuove scale di valori. E, certo, apprezzo anch’io l’intelligenza, anche l’astuzia di Paolo Fresu, la sua eleganza, ancorché abbia inventato poco o nulla di nuovo. Anzi, lo ammirerò ancora di più quando l’avrò sentito cavare anche un acuto, così, tanto per fare “nu muorzo e’ vita”, come dicono a Napoli). Lungi da me negare il talento di tanti artisti italiani (oggi orgogliosamente riuniti in casta), non vorrei però doverne negare invece la derivatività, che nel jazz, ahimé, è cosa piuttosto comune in ambito idiomatico, per chi non vuole essere cosciente della primari età africana-americana.
Sì, è pur vero che mio padre era di colore e che i bianchi gli stavano un po’ sulle scatole: devo avere ereditato qualcosa da lui.
Un caro saluto,
GMG |