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Mondo Jazz

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JAZZ VS ROCK AND VICE VERSA

Post n°1916 pubblicato il 16 Agosto 2011 da pierrde
 

 

 

Brad Mehldau could make a Rod Stewart tune sound great, but not vice versa.

(Peter Hum, Jazzblog)

Non è un dogma e non può valere in ogni caso ma credo che l'affermazione di Hum sia largamente condivisibile.

Non a caso si contano a migliaia le versioni jazzate di brani pop e rock mentre è molto più raro il contrario, sopratutto se poi si adopera il metro della qualità come spartiacque. Dalla grande canzone americana, dai musical, dai Beatles, da Frank Zappa fino ai Radiohead i jazzisti hanno tratto brani e spunti per versioni tra le più immaginifiche, spesso arrichendo le composizioni di nuova luce e di diversi colori.

Ricordo la mia iniziale sorpresa nell'ascoltare in concerto Live To Tell di Madonna suonata da Bill Frisell o la meravigliosa versione della Brass Fantasy di Lester Bowie di Smooth Operator, celeberrimo brano di Sade che suonato dalle trombe e dai tromboni acquistava una nuova dimensione ed una diversa prospettiva.  

Mi risulta difficile immaginare che il prossimo album di Lady Gaga annunciato per Natale e composto da standards del jazz possa darmi la stessa meraviglia e lo stesso piacere... 

Naturalmente esistono le eccezioni, ci sono brani tipici dell'ambito jazz reinterpretati in maniera memorabile da rocker, e il primo in ordine cronologico che mi viene alla mente è la versione strafatta e stralunata di Summertime di Janis Joplin, ma la proporzione è comunque nettamente a favore dei jazzisti.

Ognuno poi ha le proprie opinioni, qui io mi limito a semplici considerazioni senza pretesa di verità assoluta e a postare il brano Paranoid Android nella versione originale dei Radiohead ed in una delle innumerevoli versioni date da Brad Mehldau sia in concerto che su album. Quale la migliore ?  

 

 

 
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Utente non iscritto alla Community di Libero
Gianni M. Gualberto il 20/08/11 alle 12:11 via WEB
L'affermazione di Hum direi che è banalotta, come tutti gli assiomi elaborati un tanto al chilo. Da tempo nel jazz, dove purtroppo la musicologia è ben più rara del giornalismo musicale, si va diffondendo un Verbo già ampiamente elaborato presso il giornalismo musicale che bazzica il mondo della musica accademica: è implicita nella musica improvvisata (o accademica, a seconda delle inclinazioni di chi scrive), insomma, una dimensione taumaturgica e catartica. Come nella Teodicea di Leibnitz vi è in questi linguaggi musicali una capacità di fare giustizia divina del Male, in questo caso rappresentato dalle musiche "altre" che, per non si sa bene quale metro, non possono aspirare ad alcuna dignità, visto che la loro funzione naturale -sempre in base a non si sa bene quali parametri- è quella di essere insignificanti. Dunque, così come in passato generazioni di jazzisti hanno fatto giustizia delle banalità insite nel Great American Songbook (da Rodgers a Gershwin, da Duke a Porter) e in una pletora di composizioni provenienti dai più diversi contesti "plebei" come Broadway e Hollywood, oggi delle "mani sante" come quelle dei re taumaturghi così ben evocati da Marc Bloch cauterizzano il Male che si annida nella musica del "commercio". Curioso, tale atteggiamento, che si riscontra, talvolta con risultati persino esilaranti, in contesti anche "elevati", a conferma di atteggiamenti settari inclini a confondere ruoli e funzioni: dal disprezzo di Theodor Adorno per il jazz (e per tutto ciò che si celava nella musica cosiddetta d'evasione, cui il jazz veniva assimilato ben sbrigativamente) al disagio di Wilfrid Mellers nell'analizzare certi lavori di Leonard Bernstein. Analisi superficiali che scaturiscono soprattutto dall'affermazione di un approccio settario in verticale, piramidale, per attribuzioni di merito a base di principii assoluti e assolutistici ed elaborazione di gerarchie spesso discutibili e stereotipate. In questo il jazz si comporta spesso come da tempo accade nell'ambito accademico (dove, ancora oggi, il jazz è guardato, se non con sospetto, con una sorta di disagio che comunque scaturisce da una "non accettazione", da un rifiuto di vedervi altro che un'elaborazione più complessa di materiali commerciali e/o popolari: v'è da ringraziare il cielo che oggi vi siano autori come Alex Ross...). Con pochi tratti di penna si cancellano pensieri musicali di funzione diversa, dimenticando, ad esempio, che la cosiddetta "musica leggera" degli anni Venti e Trenta fu fucina di notevoli talenti, sia nella composizione che nell'arrangiamento, e che certa musica "commerciale", a partire dagli anni Cinquanta, con una messe di sub-linguaggi, ha saputo rappresentare con grande acume e indubbia sensibilità determinati e macroscopici sviluppi sociali spesso sfuggiti sia alla musica accademica che al jazz. Non voglio certo dire che, in fondo, non vi è differenza nell'elaborazione del pensiero fra Brahms, Bill Laswell, Stephen Sondheim, Carlos Santana, Carl Craig e Nicola di Bari ma è impossibile effettuare qualsiasi tipo di analisi escludendo funzioni, contesti storici e sociali. Perché se è vero che, come affermava Kurt Weill, esistono solo due tipi di musica, buona e cattiva, questo non riguarda certamente solo il la musica accademica o il jazz. Gli improvvisatori che affrontano temi di Carole King o dei Radiohead non sono officianti di un qualche misterioso e purificatore rito messianico, esercitano piuttosto un lavoro, talvolta artigianale nel quotidiano atto di "music-making", che non necessariamente si risolve in chissà quale purificazione snobistica. Altrimenti non potremmo uscire dal sacro recinto già codificato dalla musica accademica, che tali rituali ha calcificato da tempo, senza peraltro darsi la stupida pena di esorcizzare o ghettizzare nella sua storia i varii Lanner, Lehàr, Kàlman e Johann Strauss.
 
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