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TRIBE AL BIRDLAND

Post n°2161 pubblicato il 25 Febbraio 2012 da pierrde

Mentre io e i miei 150-200 lettori quotidiani siamo qui a interrogarci sul significato e sul valore del jazz italiano, la sua figura più rappresentativa, Enrico Rava, è in tournè negli Stati Uniti e nei giorni scorsi assecondato dal quintetto Tribe (Petrella, Guidi, Evangelista e Sferra) ha dato una serie di concerti al Birdland.

Ecco allora una recensione di Ben Ratliff tratta dal New York Times. Ratliff, scrittore, critico e anche blogger, ma sopratutto personaggio completamente estraneo alle vicende delle quali noi dibattiamo, è sicuramente una voce autorevole e influente.

The Italian trumpeter Enrico Rava has a soft, open, even sound, without vibrato, and he started his early set at Birdland on Thursday with a three-part suite of his own music. Enlarge This Image Richard Termine for The New York Times From left, Gianluca Petrella, Enrico Rava and Gabriele Evangelista of the Enrico Rava Quintet, at Birdland.

Breaking news about the arts, coverage of live events, critical reviews, multimedia and more. Go to Arts Beat » A sortable calendar of noteworthy cultural events in the New York region, selected by Times critics. Go to Event Listings » “Choctaw,” a fast-moving song rooted in a single chord with a lot of expressive, figurative improvising was sandwiched between “Planet Earth” and “Tears for Neda,” ballads with strong melodies and bubbling free rhythm from piano, bass and drums.

If you cued up those songs, from his album “Tribe,” released last year by ECM, you’d be hearing a lot of pathos. On Thursday, happily, the music was harder to define. It sounded a little nostalgic for the stretches of time that he lived and worked in New York, in the 1960s and ’70s. You heard echoes of the strong, strange melodies and agitated mobility of music by Ornette Coleman, Don Cherry, Paul Bley and Carla Bley. But you didn’t hear only that. Mr. Rava, 72, has been playing at Birdland once a year or so, and it’s good to see him in real time.

His sound is special, but he doesn’t make it feel precious, or guarded, or set off. He doesn’t put it on a cushion. He’s never stuck in one position, and he’s a member of his band, not just its regent. His quintet, with much younger players — the trombonist Gianluca Petrella, the pianist Giovanni Guidi, the bassist Gabriele Evangelista and the drummer Fabrizio Sferra — thoroughly changed some of the pieces as they moved along: tonality, rhythm, everything.

“Certi Angoli Secreti” began as a mischievous minor waltz evoking Nino Rota movie scores, but Mr. Guidi smuggled all sorts of other language into it: blues, minimalism, bebop, all running together on an even plane. The song might have contained some pretty clichés, but Mr. Guidi helped the group transcend them.

A version of Cherry’s “Art Deco” began with an unaccompanied duet, full of improvised counterpoint, between Mr. Rava and Mr. Petrella, the front line and core of the group. Their dispositions work beautifully together: Mr. Petrella with his quick reflexes and sudden bursts into pure sound and texture; Mr. Rava’s with his steady, stately playing. But they didn’t merely act as opposites, they often seemed to be trained on the same goal. Their playing was, now and then, the real thing: searching, impulsive, almost self-sacrificial.

 
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Utente non iscritto alla Community di Libero
Gianni M. Gualberto il 28/02/12 alle 20:08 via WEB
Non so se è stata la vis polemica a far scaturire giudizi piuttosto acuminati e, più che ingenerosi, un po' troppo aciduli... Insomma, certi paralleli, è fin troppo facile affermarlo, non hanno motivo di essere: né quello fra Rava e Marsalis o quello fra Don Cherry e Freddie Hubbard (ambedue straordinari musicisti da versanti diversi... e non è che Cherry non abbia lasciato dietro di sé qualche momento non meno imbarazzante di alcuni di cui Hubbard s'è reso responsabile) o, peggio, quello fra Dizzy Gillespie e Miles Davis (del primo temo oggi si conosca e ricordi troppo poco: un genio, senza nulla togliere a Davis o ad altri). Non sono un amante incondizionato dell'opera, ormai piuttosto abbondante, di Enrico Rava. Anzi. Riconosco a Rava una grande intelligenza (non priva, ormai, di una certa supponenza vagamente snob che è, oooooh, così, trés chic...) e, certamente, del buon gusto e, soprattutto, un notevole talento compositivo (vero, oggi certe pagine sembrano assomigliare ad altre precedenti, ma questo è tratto comune all'artista che ha raggiunto una sua classicità). Più ancora del suo fraseggiare talvolta incerto, della sua tecnica fallosa (non è certo mai stata un suo punto di forza), della sua voce strumentale affievolita, credo che il grande merito di Rava sia avere una sua indiscutibile personalità (cosa meno comune nelle nostre plaghe musicali di quanto si tenda a credere), una cifra, che piaccia o meno, inconfondibile, in cui non trascurabile ruolo gioca una vena compositiva di rara "italianità", che sa ritrarre alcuni squarci di mediterraneità senza scadere nell'oleografia, che sa rievocare un ineffabile melodismo senza scadere nell'heart-in-sleeve o nella cantabilità provinciale e scontatamente retorica. Innanzitutto, perché Rava rimane l'unico musicista e autore italiano, nel jazz, ad avere un tratto culturale indiscutibilmente cosmopolita e che viene da lontano. Non si può disconoscere a Rava, m'è capitato di scriverlo altre volte, il merito di essersi misurato, senza un grande bagaglio tecnico, con gli artisti africano-americani e americani quando il solo pensarlo sarebbe sembrata una follia. Il fatto è che, ancora oggi, pur con tutti i difetti che mi sento di attribuirgli come musicista, Rava giganteggia, nel panorama musicale nazionale, in termini di personalità, perché, pur con modelli mai raggiunti quali Davis, Cherry e Booker Little, ha saputo costruirsi un'identità peculiare. Non sto parlando di un bagaglio tecnico che è non eccezionale, né di un senso ritmico piuttosto blando ed errabondo, né di una voce strumentale piuttosto mal ridotta: ché Rava, da uomo indubbiamente intelligente qual è, ha saputo costruirsi un'identità stilistica giocando sui propri difetti. V'è comunque una certa ampiezza nell'orizzonte di Rava (penso a Katcharpari, a Quotation Marks, a The Pilgrim and the Stars), per quanto egli ormai, come molti "classici", tenda a rifare un po', con costanza degna di miglior causa, il verso a se stesso. Il problema è che, checché se ne pensi, egli non oscura alcun talento più degno del suo: egli rimane l'artista italiano più rappresentativo e originale, anche rispetto al nostro odierno "prodotto d'esportazione", quello Stefano Bollani sempre più gigione, che fa della propria indiscutibile tecnica l'uso che un clown fa delle scarpe smisuratamente grandi o del naso rosso à la Patch Adams (peccato che Patch Adams fosse di gran lunga più utile e affascinante). Paralleli con Tomasz Stanko o, peggio, con Marsalis (?!) non possono che lasciare il tempo che trovano... Quanto a Marsalis, non è certo immune da critiche e certe sue operazioni (da Willie Nelson ad Eric Clapton) sono, probabilmente, dettate da calcolo commerciale (un argomento al quale il trombettista non s'è mai mostrato del tutto insensibile) e, comunque, non danno l'esatta misura del talento di questo musicista, sia sotto il profilo tecnico che sotto il profilo della divulgazione culturale. E, comunque, non si può giudicare Marsalis senza considerare il suo approccio da nazionalista africano-americano: la sua opera va letta in tale luce, altrimenti rischia di soffrire di un certo epigonismo altrimenti inspiegabile. Per il resto, trovo francamente seccante il sopravvivere di certi luoghi comuni sull'americano ignorante incapace di capire la grandezza, magari, di Edith Piaf o di altre icone di uno snobismo un po' fuori luogo e teso a rimuginare su chissà quali glorie appassite. Pregiudizi, direi, e che, in quanto tali, tolgono credibilità a molti ragionamenti. D'altronde, ognuno, giustamente, ha le sue fisime, no? Io, ad esempio, ho trovato terribilmente indigesto il vero e proprio cattivo gusto, pieno di vezzi e moine ed esibizionismi autoreferenziali che Bollani e un ritmicamente floscio Riccardo Chailly hanno dispensato a piene mani sull'incolpevole George Gershwin... Un approccio che, per l'appunto, non sa cos'è l'idiomaticità e che può andare bene per certa divulgazione plastificata da trasmissione telivisiva in tarda serata ma che dimostra, ancora una volta, che le doti tecniche non bastano, e neanche la verve a metà fra Jimmy Durante e Ugo Tognazzi (che dall'aldilà spero mi vorrà perdonare l'accostamento)... Ecco, Rava non ha le doti tecniche supreme e forse si prende sufficientemente sul serio per non piegarsi alla clownerie, ma dalla sua ha e sempre avrà quel cosmopolitismo, quell'approccio, diciamo così, da "uomo di mondo" che gli ha permesso di schivare molte trappole. Per il resto, invece, mi pare inutile andare a scomodare da Clifford Brown a Lee Morgan, da Miles Davis a chissà chi... Il problema mi pare ben più circoscritto.
 
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