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JAZZ DISCUSSION

Post n°2163 pubblicato il 28 Febbraio 2012 da pierrde

Come padrone di casa, avendo più volte espresso la mia opinione, sono rimasto in disparte ad assistere alla discussione, traendo stimoli e giuste osservazioni ora dall'uno ora dall'altro.

Mi pare di poter dire, a questo punto, che a meno di interventi di altri appassionati che ancora non abbiano espresso una loro idea originale, il dibattito si sia esaurito nella cristallizzazione delle rispettive posizioni.

Le posizioni sono state espresse con chiarezza e forza, magari anche a discapito di qualche ruggine personale. Difficile che qualcuno cambi la propria idea, ma in fondo non era questo l'obiettivo quanto mettere sul tavolo e sviscerare le diverse ottiche con le quali è possibile osservare quel vasto movimento di musicisti e idee che va sotto il nome di jazz italiano.

Credo che ognuno, e parlo dei lettori che non sono intervenuti, si sia fatta la propria opinione. La discussione non si ferma certamente qui, come tutte le correnti che hanno attraversato e segnato la storia della musica afro-americana, anche il jazz nato e sviluppatosi fuori dalla sua culla naturale ha una vicenda che è in divenire e che probabilmente sarà descritta e inquadrata più compiutamente dagli storici che verranno. 

Anche sul sito di Gerlando Gatto, A Proposito di Jazz, si è sviluppato un dibattito sul tema che però ha seguito percorsi differenti. Da ultimo un editoriale di Luigi Onori che riepiloga la situazione. Il link per leggere l'intervento :

 http://www.online-jazz.net/wp/2012/02/12/molte-le-cose-da-fare-per-avere-ancora-speranza/

 
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Utente non iscritto alla Community di Libero
Gianni M. Gualberto il 03/03/12 alle 18:41 via WEB
Ringrazio Martinelli per i saggi consigli e per le esortazioni, generosamente elargite forse nella memoria delle non meno meditate parole di Thomas Jefferson: “I find that the harder I work, the more luck I seem to have”. Purtroppo, per quanto affascinato dallo scritto di George Lewis (uno che, seriamente quanto seriosamente, scrive di ciò che sa), il volume di Schiff esibisce i risultati tipici di chi desidera adattare il mondo alle proprie teorie, e non viceversa. Uno sforzo -encomiabile, per carità- di dimostrare la ricchezza dell'opera ellingtoniana, provincialmente paragonandola, senza necessità, ad altre teorie linguistiche più o meno coeve (e delle quali sicuramente Ellington era a conoscenza) ma non necessariamente correlate. Nello sforzo di dimostrare che Ellington s'inserisce nel novero di un contesto unico e trasversale, che va da Debussy a Stravinskij, passando per Bartók e Schönberg e Ravel, alla fine egli detrae dall'originalità ellingtoniana, pur di poterla paragonare a quella dei “grandi” della musica accademica del Novecento. E fa spesso sorridere l'entusiasmo con il quale egli scopre che, in definitiva, Ellington non era un africano-americano istintivo e ignorante ma, ohibò, possedeva persino una ben discreta cultura, che lo spingeva persino ad essere presente ad una “prima” di Elliott Carter... Purtroppo, la musicologia americana, in presenza del jazz, ha spesso adottato questo tipo di comportamento falsamente erudito (alcune annotazioni di Schiff su Ravel e Stravinskij rasentano l'ovvietà, per quanto entusiasta, riportando alla memoria alcune sin troppo acide considerazioni di Baudrillard: Tout mérite protection, embaumement, restauration. Tout est objet d’une seconde naissance, celle éternelle du simulacre. Non seulement les Américains sont missionnaires, mais ils sont anabaptistes: ayant loupé le baptême originel, ils rêvent de tout baptiser une seconde fois, et n’accordent de valeur qu’à ce sacrement ultérieur, qui est, comme on sait, la réédition du premier, mais en plus vrai – ce qui est la définition parfaite du simulacre (…) Nous reprochons aux Américains de ne savoir analyser ni conceptualiser. Mais c’est leur faire un faux procès. C’est nous qui imaginons que tout culmine dans la transcendence, et que rien n’existe qui n’ait été pensé dans son concept. Non seulement eux ne s’en soucient guère, mais leur perspective est inverse. Non pas conceptualiser la réalité, mais réaliser le concept, et matérialiser les idées). La grandezza della tradizione che ha dato vita ad Ellington, insomma, sta nel suo potersi paragonare ad una cultura diversa di cui si ipotizza come scontata la superiorità. Quanto alle collaborazioni transatlantiche e alla disseminazione della cultura che, per non si sa quale taumaturgia, priverebbero in qualche modo il jazz della sua primogenitura africano-americana e americana (un effetto che, chissà perché, nessuno penserebbe, ad esempio, ad attribuire al contesto della musica accademica europea, cui tutti riconoscono una perpetua centralità, per quanto la disseminazione della cultura da tempo abbia trasportato certi linguaggi in tutt'altri contesti e con risultati non meno originali e innovativi), provo francamente dei dubbi. Così come, per l'appunto, l'”imprinting” europeo permane nel contesto accademico, anche in ambiti creativi diversi e ben significativi, altresì mi pare naturale che lo stesso accada per il jazz nei suoi rapporti con il Canone africano-americano, che si tratti di Israele o di altro contesto. Proprio l'esempio israeliano mi pare il più ambiguo da citare: sicuramente, Israele, e in modo particolare citerei Tel Aviv, è oggi sede del più significativo e affascinante melting pot esistente: pure, il “jazz israeliano” (se esiste una tale entità) è modellato, anche grazie all'insegnamento pionieristico di Arnie Lawrence e di altri, sul modello americano, che si parli di Albert Beger come di Assif Tsahar, di Avishai Cohen come di Stephen Horenstein o di Omri Mor o di altri ancora. Laddove è sicuramente vero che, in una nazione in cui l'articolazione di un'identità propria, al contempo ebraica ma distinta dalla Jewry nel mondo, è questione di fondamentale importanza, l'improvvisazione d'ascendenza jazzistica è uno degli strumenti con cui si cerca di articolare un'indagine attraverso le molteplici tradizioni radunatesi in Israele, non ultime quelle legate anche alla comunanza storica con determinate aree della cultura araba. Dice giustamente, e con belle parole, Martinelli: “il jazz è una musica di innovazione, sperimentazione e nuove scoperte. Emerge spesso da giustapposizioni inattese, perfino da errori e fraintendimenti”. Ma non si addice questo a qualsiasi forma di creatività? Non lo si poteva dire anche della musica di Beethoven fra il 1802 e il 1803? O della musica di Charles Ives? O di quella di Brahms? E via discorrendo... Ringrazio sinceramente Martinelli per le sue annotazioni ed esortazioni. Come scriveva Thomas Jefferson: “I find that the harder I work, the more luck I seem to have”.
 
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