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BOLLANI VERSUS GERSHWIN

Post n°2236 pubblicato il 26 Aprile 2012 da pierrde

Per chiudere il discorso sul Bollani pianista classico ecco due recensioni sempre pescate dalla rete di stampo e spirito diversi, l'una scritta da un giornalista e l'altra da un blogger.

Stefano Jacini su Il Giornale della Musica da un ritratto convinto ed entusista della serata trasmessa in diretta radiofonica (e contemporaneamente anche in un centinaio di teatri) e dedicata a Gershwin.

Grande serata della Filarmonica della Scala interamente dedicata a Gershwin e con ottima accoglienza del pubblico. Nella seconda parte il Concerto in fa ha avuto un'esecuzione di prima grandezza con solista Bollani, del tutto a proprio agio col compositore americano; complice Chailly è riuscito a infondere nell'orchestra una prestanza inconsueta.

Risultato, una forte carica che ha trascinato tutti in una lettura trasparente e gioiosa. Rinnovata nel primo dei bis, Rialto Ripples con la sua chiusura beffarda che ha strappato gli applausi. Bollani ha poi regalato un omaggio solista a Scott Joplin; poi con batteria e contrabbasso amplificato una scatenata fantasia su Les feuilles mortes per concludere con un suo cavallo di battaglia, Apanhei-te cavaquinho del brasiliano Ernesto Nazareth.

La prima parte del concerto non è stata altrettanto brillante: Catfish Row da Porgy and Bess, già in programma nelle precedenti due serate della Stagione sinfonica scaligera, e An American in Paris. Entrambe esecuzioni più che corrette, ma con una sensazione di affanno da parte dell'organico che sembra spesso faticare nel tener testa a sonorità che richiederebbero guizzi più disinvolti e swing.


L'autore del blog Il Mondo a Testa in Giù ha una visione forse meno da addetto ai lavori, preferendo raccogliere una serie di riflessioni personali che, avendo ascoltato il concerto alla radio, condivido in buona parte compreso il giudizio finale.

D'altronde è un pò quello che è emerso in forma maggioritaria dai diversi commenti al precedente post sul connubio Chailly-Bollani: non è in discussione la caratura tecnica di Stefano ma la sua capacità di essere perfetto padrone di una situazione per lui tutto sommato secondaria (forse però non ai fini più terrestramente economici).

 

Ieri son stato in Scala per un concerto un po' diverso. Gershwin suonato da Bollani, almeno così recitava il programma. L'idea, furbetta di marketing, però sollecitava l'attenzione, e devo dire che attraeva anche il pubblico. Non avevo mai visto scolaresche in Scala, bambinetti che dopo un po' si lamentavano perché si annoiavano, probabilmente convinti a venire ad assistere ad un concerto perché c'era quel fanciullone di Bollani che vedono in televisione.

Il concerto in realtà è stato per una buona parte il concerto di Chailly. Direttore dal percorso molto originale, tuttora con il sorriso aperto alla ricerca nonostante l'età non più giovanissima, ha proposto un programma orchestrale semplice e furbo: una suite di brani di Porgy and Bess, Un americano a Parigi. Brani conosciuti, sui quali si può discutere molto, ma che sono l'emblema stesso della musica "colta" americana di questo secolo, un incrocio fra forme classiche, jazz, modernità (i clacson dell'americano a parigi per sottolineare il traffico caotico) sempre in bilico con il rischio di diventare musica da film.

Indipendentemente dal fatto che questa musica piaccia o meno, è comunque qualcosa che arricchisce dal punto di vista culturale, che mostra una delle evoluzioni della musica del 900. Finalmente, ultimo brano e Bollani in scena. Concerto per pianoforte in fa. Sostanzialmente sconosciuto, tutto sommato non un capolavoro. Molto più classico come struttura rispetto ai brani precedenti, riprende molti dei temi propri di Gershwin (orchestrazione, sviluppo, variazioni) senza però quei guizzi tematici che rimangono in mente (e che rappresentano anche un po' il limite della sua musica).

Bollani mi è parso molto ingessato in questo brano, costretto in un ruolo già scritto. E questa ingessatura è risultata evidente nei bis: un primo ancora con orchestra, per poi scatenarsi prima in una variazione jazzistica di Summertime, dove l'improvvisazione fra jazz e musica colta ha dato risultati molto interessanti, e poi esibirsi in un trio jazz con il batterista (si, in Gershwin c'è la batteria in orchestra...) e il contrabbasso, inframmezzando con gags gli intervalli tecnici per allestire lo spazio sul palco.

Insomma, a mio sentire Bollani è un jazzista molto interessante, ma non basta questo (e un repertorio che attinge dal jazz come quello di Gershwin) per farlo diventare un pianista da concerto, pur essendo un pianista di gran talento.

 
Rispondi al commento:
Utente non iscritto alla Community di Libero
Gianni M. Gualberto il 26/04/12 alle 16:29 via WEB
Mi pare che entrambi le recensioni tendano a mescolare, come dicesi volgarmente, mele e pere, riproponendo una serie di equivoci: sul jazz, su Bollani, su Gershwin. Da Bollani, ad esempio, ci si aspetta che faccia... Bollani, gag comprese (e la gag ha fatto spesso parte del jazz, da Armstrong a Fats Waller a Dizzy Gillespie, ma con ben altre motivazioni storiche, nulla a che vedere con le facezie, magari anche graziose, di un "jester" [a essere benevolenti] che, proprio per la recita ormai autoimposta [noblesse oblige...], butta indifferentemente nel mixer (o nel tumbler) Gershwin, Scott Joplin e Ernesto Nazareth, nell'imitazione ribaltata dei virtuosi fin-de-siècle che, a conclusione di un concerto, si producevano in "ninnoli" che non erano solo show-pieces ma espressioni di un gusto storicamente ben preciso, si trattasse del Tango di Albéniz o di qualche scintillante variazione o perifrasi (come la Fantasia su temi dalla Carmen di Horowitz). Scott Joplin e Nazareth, dunque, si giustificano solo come tributi compiacenti alle esigenze di astuto show-business dell'interprete che, per l'appunto, "deve" fare il "jazzista", il taumaturgo che nobilita con il tocco supremo dell'improvvisatore istantaneo qualsiasi materiale, magari meno nobile: premesso che né Joplin né Nazareth potrebbero mai far parte di materiali "plebei", non si capisce bene cos'abbiano a che fare non tanto con il jazz ma con Gershwin. Sono, appunto, pretesti e, dunque, relegati a un rango di gran lunga inferiore a quello che spetta loro, trasformati in trampolini per acrobatici salti da parte di un artista di talento che, consapevolmente o meno, ama esibire per le platee plaudenti il guizzo del saltinbanco. Non so se sia il caso di meravigliarsi ancora dell'uso della batteria in Gershwin (basti pensare alla versione originale di Rhapsody in Blue... D'altronde, la batteria era ben presente nell'orchestra di Paul Whiteman, così come era presente, non meno del doppio pianoforte, nelle pit orchestra di Broadway), mi meraviglia di più leggere che Chailly sia interprete "tuttora con il sorriso aperto alla ricerca nonostante l'età non più giovanissima"... Che nel 2012 interpretare Gershwin possa essere ancora considerato un atto "forte", addirittura "di ricerca" (?), può solo indurre a considerazioni meste sullo stato del nostro concertismo, e forse non solo del nostro. Per dirla tutta: gli europei, nel loro inveterato colonialismo, non riescono, se non occasionalmente, ad accreditare di "credibilità" la cultura americana, vista sempe come una sorta di impurissima ed "esotica" commistione fra un "basso" (ivi inclusa tutta la tradizione africano-americana) scarsamente considerato se non per la sua curiosa "piacevolezza" ed un "alto" che si continua a reputare improbabile e poco credibile. E spesso Gershwin viene scelto nelle programmazioni in base a un malinteso: non come compositore di genia e a tutto tondo, ma come piacevole e amabile autore di ridanciani "cocktail" musicali in cui vi sarebbe di tutto un po'. Non vedo, infatti, Chailly (che a interpretare Gershwin immagino si senta una sorta di coraggioso Bakunin della musica, garantito dall'applauso facile) correre a studiare e interpretare Ives e neanche Copland, Roy Harris o William Schuman lasciando perdere, che so, Elliott Carter, Milton Babbitt, George Perle o Charles Wuorinen o, ancora, John Adams. Ché, per l'appunto, Gershwin risulta, sotto qualsiasi profilo, più "facile", perché viene considerato un geniale "facilone", con cui è peraltro "facile", per l'appunto, conquistare le platee. Non a caso, infatti, cosa scrive uno dei recensori: "Brani conosciuti, sui quali si può discutere molto, ma che sono l'emblema stesso della musica "colta" americana di questo secolo, un incrocio fra forme classiche, jazz, modernità (i clacson dell'americano a parigi per sottolineare il traffico caotico) sempre in bilico con il rischio di diventare musica da film". Si può discutere molto? E perché? Perché non sono abbastanza "aristocratici" come certa accademia europea? "Sempre in bilico (fra che cosa?) con il rischio di diventare musica da film?" Dunque, un autore mai abbastanza indiscutibilmente "serio", fermo restando che dovremmo soffermarci un momento sulla "musica da film", a quanto pare un qualcosa di spregevole "tout court" (difatti, a nessuno verrebbe in mente di definire spregiativamente l'"Aleksandr Nevskij" di Prokof'ev musica da film, per quanto scritto per Sergeij Eisenstein...), così legata a quell'infame esempio di industria culturale che sarebbe Hollywood: e così, in un colpo solo, abbiamo accomunato Vin Diesel a Humphrey Bogart, Cameron Diaz a Katharine Hepburn, Vincent Minnelli e Billy Wilder o Hal Ashby o Robert Altman a Roland Emmerich, e Max Steiner, Alfred Newman, Erich Korngold, Alex North, Bernard Herrmann, John Williams a High School Musical. E lasciamo perdere quei desperados di Richard Rodgers (autore peraltro di alcuni (Balanchine e Slaughter on Tenth Avenue, una mostruosità...), Cole Porter (riscattatosi, meno male, con "Within the Quota, orchestrato addirittura da quell'altro poveraccio di Charles Koechlin), Vernon Duke, Harold Arlen (il "Mago di Oz", che orrore...)e via discorrendo, per non parlare di Leonard Bernstein (che fra i suoi modelli ebbe proprio Gershwin) o Stephen Sondheim, tutti ben più in bilico del povero Gershwin. E quanto la tradizione culturale americana venga sottovalutata è evidente laddove si indicano le composizioni gershwiniane come "l'emblema stesso della musica "colta" americana di questo (QUESTO?) secolo, un incrocio fra forme classiche, jazz, modernità (i clacson dell'americano a parigi per sottolineare il traffico caotico)": inutile dibattere su Griffes o sul "Ballet Mécanique" di Antheil, o su Cowell, Ornstein, Carpenter o Cage in QUEL secolo... Gershwin, song-writer meno male nobilitatosi con qualche lavoro soi disant "sinfonico" (tu vuo' fa' l'europeo, insomma...), per quanto, in fin dei conti, un autore di canzonette, rappresenta un'America che, nel travisamento completo della stessa opera gershwiniana, è poco più di una cartolina, di un'oleografia simpatica, un po' come la Manhattan skyline o l'Empire State Building nell'immaginario collettivo degli incliti. E' dura, lo capisco, dover ammettere che i colonizzati di un tempo hanno completamente ribaltato il nostro mondo: sempre americani sono, un po' guasconi e, nel migliore dei casi, un po' canzonettari di genio. Eppure, i nostri istinti culturali si ribellano dignitosamente (e giustamente) se nei nuovi mondi i tedeschi risultano solo mangiatori di crauti, i francesi solo mangiatori di rane, gli italiani solo mangiatori di spaghetti con sottofondo di melodie "napulitane"... salvo poi scivolare in analoghi stereotipi. E siamo veramente sicuri che Gershwin abbia attinto al jazz? E cos'era il jazz ai tempi di Rhapsody in Blue, ai tempi della cosiddetta e irrealistica Jazz Age? Nella massa informe, nel gigantesco e reciproco give and take fra Tin Pan Alley, Broadway, Black Broadway, i fratelli Castle e le orchestre da Abe Lyman a Art Hickman, Roger Wolfe Kahn o, nuovamente, Paul Whiteman (che fu certamente più geniale di quanto si pensi), Sophie Tucker, Al Jolson, Bessie Smith e Ma Rainey, Will Vodery, il proto-jazz, il post-ragtime e il pre-stride e quant'altro, siamo ben sicuri dell'abbinamento fra Gershwin e il jazz? Tale guazzabuglio di equivoci porta ad altri equivoci: credo che le suddette recensioni ne siano un buon esempio. Quanto al connubio Chailly-Bollani scatenato-Gershwin-Ravel-Joplin-Nazareth mi pare che sia nient'altro di più di quello che è: un'operazione di marketing, venuta peraltro mica tanto bene se non sotto il profilo commerciale. Che, certo, per taluni è l'unico che conta. 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