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ENRICO RAVA - ON THE DANCE FLOOR (E.C.M.) 2012

Post n°2345 pubblicato il 03 Agosto 2012 da pierrde
 

Perchè parlare ancora di Rava ? E, sopratutto perchè proprio in questo blog dove le critiche al trombettista non sono certo mancate nei commenti, spesso ben argomentate e ben poco concilianti.

E poi, perchè un intero album di musiche di Michael Jackson, per di più da parte di un musicista come Enrico che normalmente suona sopratutto proprie composizioni ? Altri prima di Rava hanno saccheggiato il booklet di Jacko, ma l'hanno fatto prendendo un brano: Human Nature  se l'è preso Miles, Thriller è stato rielaborato da Lester Bowie, e ancora molti altri jazzisti hanno attinto, da Lionel Hampton a Chico Freeman.

Un conto infatti, è prendere un brano pop e rielaborarlo, è in fondo, molta della storia del jazz che insegna questo approccio. Ben diverso un album concept, dove il rischio di toppare o di annoiare è molto più elevato. 

Anche la scelta dei brani è particolare: a parte Thriller si pesca nel repertorio minore, quello degli ultimi album, quando la stella del cantante cominciava visibilmente ad appannarsi.

E poi, non bastasse, le affermazioni forti che Rava ha dispensato in molte interviste sulla statura artistica di Jackson, definito senza mezzi termini "genio della musica e della danza".

Ovviamente è sacrosanto che Rava manifesti le sue opinioni, personalmente però su Jacko la vedo come Frank Zappa: " E' talmente strambo da far apparire normale perfino me. Passerà certamente alla storia, non tanto per la sua musica o per il suo esibizionismo pacchiano, ma perchè non sono biodegradabili i chili di plastica che si è iniettato adosso" 

E allora, perchè ancora parlare di On The Dance Floor ? Per rinvigorire polemiche decisamente abusate ? No, nulla di tutto ciò. Semplicemente perchè nonostante tutti i miei pregiudizi iniziali, la mia scarsa conoscenza unita ad un minimo apprezzamento per la musica di Jackson si tratta di un album fresco e bellissimo. 

Gli arrangiamenti che Mauro Ottolini ha scritto per l'orchestra Parco della Musica richiamano in parte quelli di Lester Bowie e della Brass Fantasy, sopratutto in Thriller, ma poi prevale un gusto melodico ed una cantabilità che ben si amalgamano con i temi semplici e ritmati, a tratti rockeggianti (Little Susie, Blood on the dance floor) e a volte più lirici (Speachless, Smooth Criminal), addiritura godibilmente reggae in They Don't Care About Us. 

Dan Kinzelman è autore di alcuni pregevolissimi momenti solistici, la chitarra di Marcello Giannini sfodera un piglio risoluto rieccheggiando il John McLaughlin di memorie davisiane, la sezione trombe Andrea Tofanelli e Claudio Corvini fa meraviglie, la sezione ritmica non è da meno in un compito veramente ingrato e difficile.

Non ho cambiato opinione, Jackson rimane un artista per me poco appetibile, ma questo On The Dance Floor è opera arguta, divertente, estroversa e piacevolissima. E' anche un album di jazz ? Dipende dai punti di vista.....

V A L U T A Z I O N E :   *   *   *  *

 

 
Rispondi al commento:
Utente non iscritto alla Community di Libero
Gianni M. Gualberto il 03/08/12 alle 12:36 via WEB
Sono sostanzialmente d'accordo con te. Per quanto rispetti Rava, senza amarlo del tutto (ormai sono generazionale: l'Enrico Rava che apprezzo è quello, figuriamoci, di "Katcharpari", "Quotation Marks", "Pupa e Crisalide", "The Pilgrim and the Stars"), mi pare che certa musica non sia nelle sue corde, tutto suona molto forzato, ammiccante ma senza un vero substrato. Per troppi anni, d'altronde, certa musica popolare africano-americana e americana è stata "snobbata" dagli artisti europei, per cui l'interpretazione (tardiva) di brani legati a Michael Jackson è, in definitiva, un'operazione "intellettuale" (via, chiamiamola così), che soffre di veri e propri scivoloni non solo per una sorta d'insincerità (magari non voluta) ma per un'esplicita mancanza d'idiomaticità (bisogna saper aderire culturalmente a certi canoni, per quanto li si voglia trasformare o rileggere in modo diverso). C'è uno iato, e non piccolo, che separa Rava e i suoi musicisti dal materiale musicale originario. D'altronde, la materia compositiva, per quanto interessante, non è sempre facile da manipolare: Jackson è stato un artista per certi versi ibrido, straordinario per verve ritmica ma in qualche modo lontano, ben più patinato, dalla tradizione popolare africano-americana più "raw" (ad esempio, James Brown o Curtis Mayfield), se non altro nell'uso della tecnologia e nell'approccio alla spettacolarità, nonché nella sua esistenza come simbolo di una mascolinità ambigua (in questo, Prince è stato sicuramente più interessante rispetto ai modelli africano-americani) che però non voleva scioccare o repellere, piuttosto agiva in un contesto più "sentimentale", senza aggredire nel profondo, ad esempio, l'immaginario del grande pubblico. Michael Jackson, in qualche modo, voleva "farsi accettare" (si è spesso parlato di lui come di una sorta di Peter Pan, dunque eternamente giovane perché eternamente e innocentemente fanciullo, eternamente alla ricerca di una famiglia ideale, con tutti i valori che ne seguono; rispetto alla sessualità ambigua di personaggi come Prince o Freddy Mercury, o a quella più smaccata di Elvis Presley, egli appare addirittura pre-sessuale, come è stato fatto notare da alcuni), e questo ha influenzato la sua opera musicale. Laddove la violenta espressività di certa musica popolare africano-americana, con le sue allusioni all'esuberanza del maschio di colore, poteva inquietare un pubblico bianco che si sentiva "minacciato", Jackson sembrava voler in qualche modo rassicurare sulla innocenza della sua diversità (si pensi a "They Don't Care About Us"), sia come uomo di colore (che sembrava in qualche modo non essere più smaccatamente "di colore": basti pensare alle ricorrenti ipotesi sugli interventi plastici e chirurgici destinati a mutare il suo aspetto esteriore di africano-americano) che come individuo sessualmente non inquadrabile nei canoni correnti (anche quando metteva la mano sui genitali non si avvertiva "minaccia" simbolica ma ammiccamento sessuale: la sua era dichiaratamente una "sregolatezza" non iconoclastica, al contrario, ad esempio, di quella di un Jimi Hendrix, ed è stata proprio questa "innocenza" di fondo a rappresentare un boomerang, nel momento in cui è stata avvertita, invece, come pedofilia, a proposito della passione di Jackson per l'infanzia). Jackson è stato vittima e protagonista di una straordinaria operazione di marketing, che viveva di una serie di "marchi di fabbrica" (basti pensare alle composizioni dei fratelli Porcaro) realizzati con eccezionale professionalità ad ogni livello.Più che il musicista (Jackson è stato un interprete eccellente, che ha saputo veicolare, in modo sicuramente memorabile per "imagery", la tradizione africano-americana in un momento di maggior commistione con i modelli appetiti anche e soprattutto dal pubblico occidentale, senza però possedere le capacità compositive fuori del comune di uno Stevie Wonder), è l'immagine dell'artista Michael Jackson ad apparire complessa e interessante. Il prodotto musicale realizzato da Jackson è perciò sfuggente, intimamente legato al "personaggio teatrale": difficile, perciò, reinterpretarlo secondo valori solamente e puramente musicali: rispetto all'"eterna giovinezza" jacksoniana, l'interpretazione di Rava appare molto più convenzionale e "vecchia", più banalmente adulta, priva di quelle pulsioni (il senso eclatante e travolgente di danza dionisiaca, ad esempio), molte di natura esplicitamente sessuale, che facevano di Michael Jackson un fenomeno difficile da categorizzare. In questo, Rava, pur in altro contesto linguistico, non si differenzia da Joey Di Francesco: è un adulto che non sa cogliere l'ambiguità, l'ammiccamento, la trasgressione a metà fra il vero e il plastificato, lo spirito di tempi in cui la tradizione africano-americana (alla cui essenza ritmica, e non solo, Jackson comunque si riallaccia inequivocabilmente, pur rileggendola alla luce di una "diversità" che, per quanto pre-costruita, porta ad una trasformazione dei modelli mascolini tradizionali fra gli africano-americani, trasformazione poi portata a compimento successivamente da altri) è stata nuovamente consumata e divorata da un pubblico bianco in un coacervo di equivoci voluti e non voluti. Non vi è il corpo adolescenziale in movimento, nella rilettura di Rava, non vi è l'allusività, non vi è il bacino, la pelvi, vi è solo la testa, ma di un uomo, bianco, europeo, terribilmente adulto, lontano, troppo lontano e alieno a quella "ricerca dell'innocenza" che fa di Jackson un artista inconfondibilmente americano, nella sua spontaneità come nella totale assenza di essa. D'altronde, chi chiederebbe, in ben altro contesto, a Claudio Abbado di dirigere William Grant Still o James P. Johnson (o, se per questo, Gershwin o persino Copland)?
 
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