Creato da pierrde il 17/12/2005

Mondo Jazz

Il Jazz da Armstrong a Zorn. Notizie, recensioni, personaggi, immagini, suoni e video.

IL JAZZ SU RADIOTRE

 

martedì 9 ottobre 2018 alle 20.30

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JAZZ & WINE OF PEACE

Pipe Dream

violoncello, voce, Hank Roberts

pianoforte, Fender Rhodes, Giorgio Pacorig

trombone, Filippo Vignato

vibrafono, Pasquale Mirra

batteria, Zeno De Rossi

Registrato il 26 ottobre 2017 a Villa Attems, Lucinico (GO)



 

 

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I PODCAST DELLA RAI

Dall'immenso archivio di Radiotre č possibile scaricare i podcast di alcune trasmissioni particolarmente interessanti per gli appassionati di musica nero-americana. On line le puntate del Dottor Djembč di David Riondino e Stefano Bollani. Da poco č possibile anche scaricare le puntate di Battiti, la trasmissione notturna dedicata al jazz , alle musiche nere e a quelle colte. Il tutto cliccando  qui
 

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Messaggi di Aprile 2011

TERRY RILEY A BATTITI, SABATO 30 APRILE

Post n°1841 pubblicato il 30 Aprile 2011 da pierrde
 

Imperdibile occasione nella notte di Battiti per ascoltare dal vivo il trio California Kirana di Terry Riley. Il musicista californiano, protagonista fondamentale nello sviluppo del nuovo linguaggio musicale chiamato poi minimalismo, si è presentato in concerto il 15 ottobre scorso al Teatro MPX di Padova insieme al sassofonista George Brooks e al tablista, dj e produttore Talvin Singh. Una serata che Terry Riley ha dedicato a Pandit Pran Nath, il maestro della tradizione vocale indiana Kirana con cui ha studiato per tanto tempo insieme a La Monte Young. Il programma proposto in California Kirana è eterogeneo, si passa dai raga tradizionali arrangiati per pianoforte, voce, sassofoni, percussione ed elettronica a brani originali.

 

 
 
 

OGGI IL COMPLEANNO DEL DUCA (WASHINGTON 29/04/1899 - NEW YORK 24/05/1974)

Post n°1840 pubblicato il 29 Aprile 2011 da pierrde

A partire dalla metà degli anni dieci inizia a suonare professionalmente, come pianista, nella natia Washington; solo pochi anni dopo, manifestando già qualità manageriali, raduna attorno a sé alcuni amici musicisti, Sonny Greer e Otto Hardwick, per suonare a danze, feste e in locali da ballo. Nel 1922, grazie a Sonny Greer si trasferisce, insieme a New York per suonare con il complesso di Wilbur Sweatman; al luglio 1923 data il primo importante ingaggio a New York con la Snowden's Novelty Orchestra in uno dei più eleganti locali di Harlem.

Il complessino di Elmer Snowden comprendeva già un primo nucleo della futura orchestra di Ellington: Otto Hardwick e Roland Smith (ance), Arthur Whetsol e Bubber Miley, (trombe), John Anderson (trombone), Elmer Snowden (banjo), Sonny Greer (batteria). Nel 1924 Ellington diviene, dopo l'allontanamento di Snowden, il band-leader del complessino che prenderà successivamente il nome di Washingtonians e rimarrà al Kentucky Club fino al 1927. Nel 1926 Irving Mills, l'uomo giusto al momento giusto, diventa l'impresario dell'orchestra: organizza brevi tournée, ingaggi e sedute di incisione.

Nel 1927 Ellington ottiene un ingaggio nel locale più in vista di Harlem, il Cotton Club: questa si rivelerà una svolta decisiva nella sua carriera. Sono anni fondamentali per la definizione dell'organico e, pertanto, del suono dell'orchestra e della formazione di un repertorio. Nel 1928 entrano a far parte dell'orchestra Johnny Hodges (sassofono contralto e soprano) e Barney Bigard (clarinetto); nel 1927 erano entrati Louis Metcalf (tromba), Harry Carney (sassofono baritono) e Wellman Braud (contrabbasso).

Nel 1926 Ellington aveva ingaggiato il trombonista Tricky Sam Nanton, che assieme a Miley avrebbe aiutato adefinire il suono "growl" e "jungle" che avrebbe contraddistinto l'orchestra nei primi anni. Risalgono al 1927 i primi capolavori riconosciuti di Ellington: brani in stile jungle come richiedeva la moda esotica del momento per gli spettacoli pseudo-africani del Cotton Club (Black and Tan Fantasy, The Mooche, East St.Louis Toodle-Oo) e brani d'atmosfera e di carattere intimista (Black Beauty, Mood Indigo).

Il jungle era gradito ai bianchi: i neri erano visti come creature semplici e primitive. Walter Mauro scrive che lo stile jungle di Ellington potrebbe essere correlato ad una certa sua indifferenza verso i modelli culturali occidentali. Egli non si era "ancora del tutto emancipato" Negli anni trenta entrano altri membri fondamentali: Cootie Williams, Rex Stewart (trombe), Lawrence Brown, Juan Tizol[3] (trombone).

Alla fine del decennio, nel 1939, entrano a far parte dell'orchestra Ben Webster (sassofono tenore) e Jimmy Blanton (contrabbasso). Quest'ultimo, nei tre anni in cui sarà in grado di suonare e incidere (muore infatti nel 1941) rivoluzionerà la tecnica e la concezione del contrabbasso che grazie a lui diventa non solo il motore dell'orchestra ma strumento solista vero e proprio, allo stesso livello di un qualsiasi strumento a fiato o del pianoforte.

Sempre nel 1939 entra a far parte del circolo dei collaboratori di Ellington il giovane compositore, pianista e arrangiatore Billy Strayhorn[4], che fino alla morte (1967) rimane il più fedele collaboratore, co-autore e alter ego musicale di Ellington (anche se la reale portata del contributo di Strayhorn alla musica di Ellington ha iniziato a essere indagata e soprattutto riconosciuta solo negli ultimi anni).

 

Tra il 1940 e il 1943 nasce così una straordinaria serie di incisioni che complessivamente costituiscono uno dei vertici assoluti della musica del Novecento e insieme il contributo più duraturo e generalmente riconosciuto di Ellington alla storia della musica afroamericana. Essendo quasi impossibile estrapolare, da questa lunga e apparentemente inesauribile sequenza, gli innumerevoli capolavori, potrà essere sufficiente citare, tra i tanti, Jack The Bear, Ko-Ko, Concerto For Cootie, Sepia Panorama, Cotton Tail, Harlem Air Shaft.

Molti brani ellingtoniani sfuggono a una ristretta etichettatura di genere, andando ben oltre gli schemi tecnico-interpretativi del jazz dell'epoca. Più spesso, nel caso del Duca, si deve parlare di musica espressionista del Novecento, e l'idea che le sue composizioni fossero dei "quadri musicali" o che egli riuscisse a "dipingere con i suoni", fu un concetto più volte espresso dallo stesso Ellington, che non a caso in gioventù aveva lungamente coltivato anche una certa passione per la pittura (in realtà, prima di diventare musicista, aveva accarezzato l'idea di intraprendere la carriera di cartellonista pubblicitario).

Il brano Mood indigo (che si potrebbe tradurre con umore color indaco) è uno degli esempi più significativi dell'espressionismo di Ellington. Non vi è dubbio che i grandi risultati ottenuti si dovettero anche al fatto che per oltre trent'anni Duke Ellington riuscì a mantenere unita la sua orchestra, caso abbastanza raro a quei tempi, il che gli permise di amalgamare il gruppo e di plasmarlo secondo la sua inventiva, raggiungendo una intesa perfetta con ciascuno strumentista e ricavandone un sound unico e inconfondibile, quasi che l'orchestra fosse un unico strumento nelle sue mani.

A partire dal 1943 Ellington inizia a tenere ogni anno un concerto alla Carnegie Hall (1943-1948) tempio della musica colta d'ispirazione europea, in occasione del quale presenta, a ogni concerto, una nuova composizione in forma di suite ad ampio respiro. Nel 1943 viene presentata, e per fortuna incisa integralmente (cosa che non accadrà più in studio, se non in versioni frammentarie), una composizione ispirata alla storia dell'integrazione razziale dei neri negli Stati Uniti, dal titolo Black, Brown and Beige.

Negli anni quaranta e cinquanta diversi solisti lasciano l'orchestra per seguire la carriera solistica o per ragioni di salute (tra cui il batterista Sonny Greer, per problemi di alcol, il sassofonista Ben Webster, a causa del carattere irascibile di questi e delle continue liti che intercorsero tra i due, e il clarinettista Barney Bigard, per problemi di stress derivanti dai frequenti tour in tutto il mondo).

Gli rimase sempre accanto il fedele Harry Carney[5] sfilarono Al Sears, Paul Gonsalves, Jimmy Hamilton, Russell Procope (sax), Ray Nance (tromba, violino), Al Killian, Shorty Baker, Clark Terry, Cat Anderson, Willie Cook (trombe), Tyree Glenn (trombone, vibrafono), Quentin Jackson, Britt Woodman, Booty Wood (tromboni), Oscar Pettiford, Junior Raglin, Jimmy Woode (contrabbasso), Louis Bellson, Sam Woodyard, Jimmy Johnson (batteria). Il 23 maggio 1950 l'orchestra di Duke Ellington si esibisce nel Teatro Verdi di Pisa.

Dopo un periodo di magra, dal 1951 al 1955, segnato soprattutto dalla dipartita del trombonista Lawrence Brown e dell'altosassofonista Johnny Hodges (il sax contralto che era praticamente la colonna portante della sezione ance dell'orchestra e, di fatto, il più grande contralto della storia del jazz sino all'avvento di Charlie Parker), l'orchestra tornò sulla cresta dell'onda con l'esibizione al Festival del Jazz di Newport nel 1956, nota per il lunghissimo assolo di sax tenore di Paul Gonsalves tra i brani Diminuendo in Blue and Crescendo in Blue. È interessante notare che questi due brani, insieme a Jeep's Blues sono le uniche registrazioni dal vivo contenute nell'originario disco "Ellington - At Newport", uscito nella tarda estate del 1956: per il resto in quel disco tutte le altre registrazioni, benché dichiarate "dal vivo" erano in realtà state incise pochi giorni dopo in studio e mixate con applausi per farle sembrare "live" (con disappunto dello stesso Ellington peraltro).

Solo la casuale scoperta dei nastri della emittente radiofonica "The Voice of America", più di quarant'anni dopo, dimostrerà lo splendore e la forza di tutto il concerto originale, scoperta che rendera' possibile la pubblicazione nel 1998 del doppio Cd " Ellington at Newport. The complete " la meravigliosa testimonianza di un'orchestra che, in quella sera del 7 luglio del 1956, era veramente al top come prestazioni e suono.

In seguito la carriera di Ellington fu scandita da una serie innumerevole di concerti e tour per il mondo e da nuove registrazioni: eccellenti le suites Such Sweet Thunder (1958), ispirata alle opere di William Shakespeare, la Far East Suite (1966) e la New Orleans Suite (1970), nonché il Second Sacred Concert (1968, con la cantante svedese Alice Babs).

I tour furono interrotti il 31 maggio 1967, giorno nel quale muore di cancro all'esofago il suo intimo amico e collaboratore preziosissimo Billy Strayhorn: per le tre settimane seguenti Duke non uscì dalla sua camera da letto, per tre mesi non fece concerti e cadde in una depressione profonda, interrotta solo dalla registrazione del celeberrimo album "And his mother called him Bill..." contenente alcune delle più famose partiture di Strayhorn.

Un altro funesto evento per la sua orchestra fu la morte di Johnny Hodges, per un infarto durante una seduta dentistica, l'11 maggio 1970: la sua orchestra non avrebbe più avuto lo stesso suono. Negli anni sessanta e settanta brillarono le presenze di Norris Turney (sax alto, flauto), e Harold Ashby (sax tenore), Fred Stone (flicorno), Buster Cooper e Julian Priester (trombone), Aaron Bell e Joe Benjamin (contrabbasso), Rufus Jones (batteria).

Duke morirà di cancro ai polmoni il 24 maggio 1974, assistito dal figlio Mercer e senza sapere che pochi giorni prima era morto anche il fidato collaboratore Paul Gonsalves per overdose di eroina: Mercer Ellington infatti non ebbe il coraggio di dargli la brutta notizia.

 

Fonte: Wikipedia

 
 
 

FOTO E VIDEO DELL'ANNO SECONDO JJA

Post n°1839 pubblicato il 28 Aprile 2011 da pierrde

Annunciate le nominations per la migliore foto ed il migliore video breve dell'anno da parte della Jazz Journalist Association: cinque le foto scelte, io pubblico quella di Sonny Rollins ma l'elenco prevede:

Benny Powell, by Lena Adasheva

Carla Bley, by John Watson

Esperanza Spalding, by Andrea Canter

Maceo Parker. by Bill King

Sonny Rollins, by John Abbott

Tom Harrell, by David Kawai

e tutte le foto le foto partecipanti (31) si possono ammirare cliccando qui:

http://www.flickr.com/photos/jazzjournalists/sets/72157626405639960/with/5579782442/

Cinque anche i video scelti che elenco brevemente:

 

1. "Henry Threadgill: Playing It Unsafe," by Jeremy Robins, producer/director   

2. "I Heart Jazz," by Alan Mezquida, producer/director

3. "Jazz Robots," by Joe Hundertmark, producer/director

4. "Sonny Rollins: Getting It Back Together," by Bret Primack, producer/director

5. "TK Blue: Latin Bird," by Brian Grady, producer/director

 
 
 

MARINAI, PROFETI, BALENE E TANTA NOIA PRECONFEZIONATA

Post n°1838 pubblicato il 27 Aprile 2011 da pierrde
 

 

Oggi in luglio e agosto l'Italia pullula di jazzfest dando l'impressione di essere una Mecca internazionale della musica afro-americana, mentre non è affatto vero... (Franco Fayenz, Il Sole 24 Ore, 27 aprile 2011)

 

A scorrere i titoli di quotidiani e siti on line c'è poco da stare allegri: i festival jazz fanno notizia se c'è qualche cantante o rocker o simil-celebrità.

Tra poco parte il Festival di Vicenza, costruito su una panoramica del jazz newyorkese più qualche buon nome e i giornali di chi parlano ?

Ma è ovvio, di Vinicio Capossela e del suo tour per lanciare il nuovo (e presumo noiosissimo) album. Non ce l'ho con Vinicio, che pure mi è simpatico e che in passato ha saputo coinvolgere grandi jazzisti nei suoi dischi, ma non mi pare certo che la sua sia la presenza più significativa al festival.

Anzi, credo che se se ne fosse fatto a meno nessun jazzofilo si sarebbe sognato di protestare.

Di Umbria Jazz si parla perchè ci sarà Liza Minnelli (two balls ....), del Festival di Venezia si annuncia un solo nome, Sting (sai che novità...), spacciato neanche fosse Duke Ellington; delle Nuove Rotte del Jazz (un nome non proprio usato al meglio) di Trieste si legge un lungo e sconsolante elenco di DJ ...

Anche all'estero non se la passano benissimo: Montreaux aspetta a prezzi da affezione una tornata di rockettari, Ottawa vedrà la presenza del cantante dei Led Zeppelin, Nizza ospita Morcheeba e Macy Gray, Lugano offre etno-pop in saldo. 

Mi piacerebbe allora, come par condicio, leggere di Jim Hall invitato al festival metal di Roskilde, o Braxton ospite dell'Haineken Jammin Festival, o almeno della Italian Instabile Orchestra presenza fissa dello show televisivo del sabato sera.

Evidentemente chiedo troppo, sopratutto a direttori artistici in balia di sponsor che alla musica chiedono solo visibilità e numeri per il loro tornaconto.

Per fortuna esistono i festival di tendenza: piccoli, sempre in bilico tra progetti e chiusura, ignorati dai grandi sponsor e, per fortuna, anche dalle grandi masse.

Ma è ormai praticamente solo li' che si ascoltano idee nuove o almeno non preconfezionate. 

 

 

 
 
 

MARC COPLAND IN CONCERTO SU CORRIERE.TV

Post n°1837 pubblicato il 25 Aprile 2011 da pierrde

Marc Copland è un musicista singolare ed oltremodo interessante: inizia da sassofonista per poi passare al pianoforte e, oggi, si esibisce anche alla batteria. Il suo recente concerto romano al Teatro Studio Parco della Musica è stato registrato e sarà trasmesso in rete martedi' 26 aprile alle 21 collegandosi al portale del Corriere della Sera.

Occasione ghiotta per riassaporare l'intensità del Copland pianista, anche se, a dire il vero, il tono delle presentazioni che leggete sotto è oltremodo esagerato.

Copland non è "una leggenda del jazz" e probabilmente non lo sarà mai, si tratta di un ottimo musicita ma che non ha segnato e non segnerà nessuna nuova via.

Non si capisce l'enfasi dei quotidiani nazionali quando parlano di jazz: sono diventati tutti "leggende", "stelle", "giganti", mentre invece nella realtà si tratta semplicemente (quando va bene) di ottimi musicisti.

E' chiaro che se i parametri sono questi anche politici modesti, di dubbia morale e di bassa statura ( intellettuale ) diventano i migliori statisti degli ultimi 150 anni alla faccia dell'evidenza truffaldina...

 

La leggenda del jazz statunitense Marc Copland arriva online, in anteprima esclusiva, su Corriere Tv Night Live, martedì 26 aprile dalle 21, con il recente concerto eseguito dal Teatro Studio Parco della musica di Roma. Il concerto di Copland propone un’ora e mezza di grandi classici reinterpretati e nuove composizioni, dai brani di Joni Mitchell alle ballate ispirate ai poemi di Dylan Thomas, che il pianista di Philadelphia esegue con il suo stile melodico unico, reso inconfondibile da «tocco di pedale» che ha fatto scuola tra i jazzisti in erba.

Marc Copland, il «sussurratore del piano» come è chiamato dagli appassionati del genere, è entrato tra i miti del jazz negli anni Novanta, in particolare grazie alle sue collaborazioni con Gary Peacock (celebre per il sodalizio con un altro grande del piano jazz: Keith Jarrett) e il batterista Billy Hart. Con quest'ultimo ha dato vita al quartetto che lo ha reso famoso negli ultimi anni in tutto il mondo e del quale fanno parte anche il chitarrista John Abercrombie e il contrabbassista Drew Gress.

Fonte : www.corriere.it

 
 
 

BUONE FESTE

Post n°1836 pubblicato il 23 Aprile 2011 da pierrde

Evidentemente non è bastato portare sul palco del Teatro Lucia di Botticino jazzisti di fama internazionale del calibro di Amiri Baraka, Dave Burrell, William Parker, Mary Halvorson, Taylor Ho Bynum, Anthony Davis e James Emery, per di più senza gravare sulle casse del Comune e contando solo su finanziamenti privati.

Ed evidentemente non è bastato raccogliere il plauso unanime dei più accreditati portali jazz attivi sul Web e di una platea quasi sempre al completo. Così, dopo appena due anni di vita e un'edizione, quella del 2010, morta sul nascere per mancanza dei presupposti, il Festival Crosscurrent (ex Botticino Jazz) emigra in terra straniera.

Niente di sbalorditivo in un'Italia in cui la «fuga dei cervelli» è all'ordine del giorno, ma passare dalla piazza bresciana a quella di New York City, lì dove l'avanguardia del jazz mondiale è in costante fermento, deve far riflettere anche chi con questo genere musicale non ha confidenza.

Sarà così per l'omonimo sodalizio guidato dal direttore artistico Luigi Settala, che il prossimo settembre firmerà con le agenzie ExB e Akamu la terza edizione della rassegna Crosscurrent, che verrà proposta in uno dei locali jazz più di tendenza della Grande Mela: Le Poisson Rouge di Manhattan.

«E' il risultato - spiega Settala - della collaborazione avviata all'interno del Botticino Jazz con le due agenzie bolognesi, che dopo aver rappresentato gli interessi in Europa di molti degli artisti di eco internazionale ospitati negli anni scorsi al Teatro Lucia, faranno altrettanto per quanto riguarda il parterre di star che cadenzerà le performance newyorchesi.

Tra queste, lo stesso pianista Dave Burrell, che insieme a Michael Formanek offrirà uno dei punti più alti della programmazione. Ci saranno poi anteprime assolute come quelle proposte dal quartet di Wayne Horvitz e dal polistrumentista Tyshawn Sorey. E ancora: Steve Lehman, Wadada Leo Smith, John Escreet, Matana Robert's».

Di bresciano, oltre alla presenza di Settala e compagni, ci sarà comunque molto nel festival d'oltreoceano. I momenti più emozionanti della rassegna verranno infatti immortalati in un documentario che l'associazione Crosscurrent ha commissionato alle due filmakers bresciane Francesca Mor e Moira Della Fiore.

Fonte: www.bresciaoggi.it

 
 
 

DUE FILM PER RICORDARE CHARLES MINGUS, NATO IL 22 APRILE DEL 1922

Post n°1835 pubblicato il 22 Aprile 2011 da pierrde

Genio pazzo e "arrabbiato" per sua stessa definizione, studia il trombone e il violoncello prima di passare al contrabbasso su consiglio dell'amico Buddy Collette.

Ossessionato dagli atteggiamenti di razzismo nei suoi confronti da parte sia di bianchi che di neri a causa delle sue origini meticce, mostra subito una fortissima spinta a primeggiare. Decide così di diventare il migliore bassista sulla scena, e ci riesce nel giro di pochi anni, suonando con Louis Armstrong, Illinois Jacquet, Dinah Washington; quando nel 1947 entra nell'Orchestra di Lionel Hampton è già leader di propri gruppi e ha già fatto i primi tentativi di composizione.

Le sue fonti di ispirazione sono al momento anche extra-jazzistiche, studia Richard Strauss e Arnold Schoenberg e si avvicina all'intellettualismo di Lennie Tristano - senza mai trascurare il suo grande amore per Duke Ellington. Poi scopre Charlie Parker. Inizia a suonare un cool-bop da camera in trio con Red Norvo (vibrafono, leader) e Tal Farlow (chitarra), per poi entrare in contatto con i grandi beboppers neri (Bud Powell, Parker, Dizzy Gillespie, Miles Davis, Oscar Pettiford).

Nel 1952 fonda insieme a Max Roach la Debut Records, etichetta indipendente dall'esistenza difficile. Nel 1953 partecipa a Toronto a un concerto con C. Parker, D. Gillespie, B. Powell e M. Roach, canto del cigno del bop. Dal 1955 comincia a realizzare incisioni con propri gruppi che incorporano elementi hard-bop e free (da ricordare l'improvvisazione collettiva in Pithecanthropus erectus e le sirene e i rumori di A foggy Day in San Francisco) e riscopre gli amori giovanili per i suoni messicani (Tijuana Moods) e per la church music (Blues and Roots).

Si susseguono nei suoi gruppi i migliori trombonisti (Britt Woodman, Eddie Bert, Willie Dennis, Jimmy Knepper, Quentin Jackson, Jimmy Cleveland), sassofonisti (Jackie McLean, John Handy, Shafi Hadhi, Benny Golson, Pepper Adams, Yusef Lateef, Jerome Richardson, Roland Kirk), trombettisti (Richard Williams, Johnny Coles, Don Ellis, Clark Terry, lo sfortunato Clarence Shaw), pianisti (Mal Waldron, Bill Evans, Horace Parlan, Toshiko Akioshi, Roland Hanna, Jaki Byard) e il fido batterista Dannie Richmond.

Sulla scia della rivoluzione di Ornette Coleman, nel 1960 Mingus licenzia quasi tutti e fonda un quartetto con Eric Dolphy (sassofono alto, flauto e clarinetto basso), il giovane Ted Curson alla tromba e il fido Richmond, coi quali realizza Charles Mingus Presents Charles Mingus, uno dei suoi dischi più riusciti, contenente la versione più convincente di Faubus Fables, brano scritto contro il segregazionista governatore di Little Rock (Arkansas) Orval E. Faubus. A proposito di questo brano, bisogna dire che Mingus aveva scritto il pezzo per inserirlo nell'album Mingus Ah Um (1959), ma la Columbia aveva rifiutato che il musicista lo registrasse comprensivo del testo. Ma Mingus non si diede per vinto e ripubblicò il brano originale l'anno seguente, per la propria casa discografica (Candid Records), intitolandolo perciò Original Faubus Fables.

Con l'aggiunta di Booker Ervin (sassofono tenore al contempo churchy e acrobatico) e, in un brano, dell'ospite Bud Powell, il live ad Antibes è forse il miglior lavoro mai pubblicato - a pari merito con The Black Saint and the Sinner Lady, suite per balletto che riassume le radici musicali di Mingus e gli elementi della sua originalità.

Il periodo più creativo di Mingus, ricco di composizioni e di sperimentazioni sia discografiche sia in concerto condotte in tutte le direzioni musicali (anche oltre il free), si chiude in modo emblematico con la tournée in Europa dell'aprile 1964, per la quale il musicista ha radunato un sestetto formidabile, anche se forse non perfettamente amalgamato: sezione ritmica composta da Mingus, Richmond e Byard, ai fiati Dolphy, il sassofono tenore Clifford Jordan e il trombettista Johnny Coles.

La band si esibisce ad Amsterdam, Oslo, Stoccolma, Copenhagen, Liegi, in Germania, in Italia (a Bologna e Milano) e a Parigi, in due concerti alla Salle Wagram (sera tra venerdì 17 e sabato 18 aprile) e al Théâtre des Champs-Elysées (mattina di domenica 19 aprile), documentati nel memorabile triplo LP The Great Concert of Charles Mingus. Nonostante il gruppo suoni in maniera eccelsa, come testimoniano anche i molti bootleg - e i tre rari video registrati a Oslo, Stoccolma e Liegi di quei concerti e delle loro prove -, il tour è condizionato dalle intemperanze e mattane del leader, costellato di incidenti e sinistri presagi che culminano nel ricovero d'urgenza in ospedale di Coles, svenuto sul palco a Parigi la sera di venerdì 17 per una emorragia interna.

Quando la band fa ritorno negli USA, Dolphy non è con loro. Ha infatti deciso di fermarsi in Europa, dove ha formato un suo gruppo con il pianista Misha Mengelberg, il bassista Jacques Schols e il batterista Han Bennink . Il 28 giugno, Dolphy viene colto da un attacco di iperglicemia diabetica a Berlino, cade in coma e il giorno dopo muore. Una settimana prima aveva compiuto 36 anni.

Per tragica ironia della sorte, uno dei cavalli di battaglia della sua ultima tournèe con Mingus era un brano intitolato So Long Eric (per intero Don't Stay Over There Too Long, Eric): un esplicito invito rivolto dal bassista a Dolphy perché tornasse stabilmente con il suo gruppo quanto prima. La morte di Dolphy (1964) è come un macigno, e dopo un paio di insuccessi organizzativi Mingus si ritira nel suo guscio di psicofarmaci fino alla fine del decennio.

Negli anni settanta torna lentamente sulla breccia, con un nuovo gruppo e nuove composizioni estese (Changes One and Two, con George Adams, Don Pullen, Jack Walrath e Richmond). Nel 1977 gli viene diagnosticato il morbo di Lou Gehrig, e nonostante gli sforzi e i tentativi con una leggendaria guaritrice messicana, il grande musicista soccombe il 5 gennaio 1979. Aveva 56 anni, lo stesso giorno sulla spiaggia di Acapulco si arenarono 56 balene.

La morte lo coglie mentre lavora ad un progetto musicale congiunto con la cantautrice canadese Joni Mitchell, alla quale ha affidato alcune musiche (alcune anche del suo repertorio storico come Goodbye Pork Pie Hat) perché lei ne scriva le parole. Il disco vedrà comunque la luce e significativamente verrà intitolato dalla stessa Mitchell Mingus. La vedova Sue Graham Mingus gestisce il lascito musicale attraverso la Mingus Big Band.

Fonte: Wikipedia

 
 
 

STRAIGHT NO CHASER: IL FILM SU MONK

Post n°1834 pubblicato il 20 Aprile 2011 da pierrde

Il documentario, come genere, ha una vocazione per il realismo, ambisce a catturare la realtà. Ciò nonostante l’uso dei dispositivi e del linguaggio cinematografico, l’atto stesso dell’inquadratura, tendono ad indebolire tale vocazione, e rivelano comunque un punto di vista soggettivo forte quanto le pretese di oggettività.

Alla fine tale realismo si fonda maggiormente su ciò che lo spettatore è disposto a credere come reale, come vero. Ma questa “disponibilità a credere” dello spettatore, il documentario in qualche modo se la deve guadagnare. Thelonious Monk: Straight, no chaser, documentario biografico sul pianista e compositore jazz Thelonious Sphere Monk, restituisce un’immagine di Monk che ci appare come la sua vera immagine. Anche quando ci troviamo di fronte a riprese cinematografiche sofisticate. Questo è forse uno dei maggiori pregi di Straight, no chaser.

La Zwerin adotta anche alcune tecniche del cinema verité, soprattutto l’utilizzo dell’intervista, per rafforzare il realismo del film, ma è proprio quando Monk viene realmente mostrato, secondo modalità proprie dell’ostensione (mostrare un oggetto per comunicarne il significato), che prende forma la sensazione di trovarci davanti al vero Monk.

Attraverso il Monk mostrato si accede con più immediatezza a cosa abbia significato Monk, a cosa egli sia stato. E in questo caso la bellezza del documentario coincide con la bellezza dell’oggetto filmato, ovvero Thelonious Monk. Charlotte Zwerin, che è stata sposata ad un musicista e ha girato parecchi documentari biografici su artisti, pittori e musicisti (suo è anche il documentario Gimme Shelter sui Rolling Stones, dove viene ripreso l’omicidio ad Altamont), in Straight, no chaser dimostra la propria abilità di filmmaker (soprattutto nel montare il materiale girato), ma anche, in sovrimpressione, l’amore per il musicista Monk, anzi per la persona Monk; pur non avendo prestato troppa attenzione alla cronologia, la Zwerin ci accompagna lungo la strada percorsa da Monk, quasi fosse Nellie (la moglie di Monk), con ammirazione, rispetto, comprensione e sincero affetto.

Per questo film la Zwerin ha attinto in gran parte a materiale girato nel 1968 da Michael e Christian Blackwood. Sono quasi tutti filmati che evidenziano una tecnica di ripresa sofisticata: numerosi sono i piano sequenza che avvolgono Monk e diventano quasi metafora di un abbraccio. La cinepresa quasi sempre è mossa con tale abilità che sembra tradire il realismo della “presa in diretta”, anticipa i movimenti di Monk, sembra muoversi seguendo una sceneggiatura, ed è proprio in questi casi che parrebbe ingannarci e trasformare il documentario in fiction.

L’uso delle inquadrature disegna in modo consapevole frame intepretativi: Monk pensoso, chiuso in se stesso o calato in un dolore sordo silenzioso; Monk ironico, Monk sorridente, Monk musicista. Le inquadrature delle mani mentre egli suona rivelano la personale e quasi paradossale tecnica pianistica (Monk suonava con le dita tese e piatte percuotendo i tasti, sovvertendo la tecnica tradizionale che vuole le dita arcuate) e (attraverso una forma di sineddoche) ci rimandano all’originalità di Monk pianista e compositore, per il quale la tecnica pianistica e compositiva erano strettamente legate.

Le interviste hanno diverse funzioni nel dare forma alla struttura narrativa del film: soprattutto hanno la funzione di parentesi, di incisi nel discorso. Ma non aggiungono molto, spesso confermano, (e talvolta contraddicono) quanto mostrato e “detto” attraverso le immagini di Monk che suona, parla, dorme, vaga, gira su se stesso, si addensa in pensieri profondi e remoti.

Altro elemento importante del testo è la musica: non è mai colonna sonora, ma l’elemento che da coerenza alla struttura narrativa e ne è parte integrante: la biografia di Thelonious Monk è anche la storia della sua musica. Monk inizia prima del be-bop e vi finisce dentro quasi accidentalmente. Vi partecipa senza caricare di valore ideologico la propria presenza, a modo suo, come musicista nero ma senza porre la questione razziale. Si inserisce nella rivoluzione musicale del be-bop, da esistenzialista: Monk prima di tutto è Monk.

Ed è anche attraverso narrazioni come quella del documentario di Charlotte Zwerin che si rafforza l’immagine di Monk come icona. Monk è il musicista che segue la propria voce, in modo personale, introverso e anticonformista, originale, libero da schemi, libero nell’espressione, il musicista che sovverte e innova i codici dei linguaggi musicali jazzistici a lui pre-esistenti o contemporanei. Monk in fondo è un’icona della libertà, della libera espressione e della libertà di essere.

Questo è uno dei significati più chiari di Monk, e prevale sulle sue proprietà accidentali come “Monk, quello che è strano”, “Monk il pazzo”, Monk che “girovaga su stesso”, “Monk che sta sveglio per tre giorni e dorme per altri due”.

(*) Straight, no chaser è un’espressione che indica il whisky bevuto liscio

Fonte: 

http://cineclubfratellimarx.splinder.com/post/20112244/thelonious-monk-straight-no-chaser

 

 

 
 
 

BRUBECK E MIRO'

Post n°1833 pubblicato il 19 Aprile 2011 da pierrde
 

Time Further Out è un album del The Dave Brubeck Quartet, pubblicato nel 1961 dalla Columbia Records.

La particolarità maggiore è che le tracce sono ordinate per tempo. Il primo e il secondo brano, It's a Raggy Waltz e Bluette, sono in 3/4; il terzo brano, Charles Matthew Hallelujah, è in 4/4; Far More Blue e Far More Drums sono in 5/4; Maori Blues è in 6/4; Unsquare Dance in 7/4; Bru's Boogie Woogie è invece in 8/8 e, per concludere, Blue Shadows in the Street è in 9/4.

L'album ha raggiunto l'8va posizione nella classifica redatta da Billboard 200, mentre il brano Unsquare Dance è arrivato alla 74esima posizione nella Billboard Hot 100.[1] In copertina è presente un quadro di Joan Miró.

 

Figlio di un orefice e orologiaio, Joan Miró cominciò a disegnare dall’età di 8 anni. Su consiglio del padre, Miró intraprese studi commerciali ma in parallelo frequentò lezioni private di disegno; dal 1910 al 1911 lavorò come contabile in una drogheria, finché un esaurimento nervoso non lo convinse a dedicarsi all’arte a tempo pieno.

Fu il lungo periodo di convalescenza passato nella casa di famiglia a Montroig del Camp a consolidare definitivamente la sua vocazione; lo stesso Miró riconobbe in seguito in Montroig e Maiorca i due poli della sua ispirazione. Tornato a Barcellona nel 1912, frequentò l’Accademia Galí fino al 1915, dopodiché passò al Circolo Artistico di Sant Lluc.

Nel 1916 Mirò affittò uno studio ed entrò in contatto con personalità nel mondo dell'arte. Furono questi gli anni in cui Miró scoprì il fauvismo e in cui tenne la sua prima esposizione personale alle Galeries Dalmau (1918). ttirato dalla comunità artistica che si riuniva a Montparnasse, nel 1920 si stabilì a Parigi, dove conobbe Picasso e il circolo dadaista di Tristan Tzara.

Già in questo periodo, in cui disegnava nell’accademia La Grande Chaumière, cominciò a delinearsi il suo stile decisamente originale, influenzato inizialmente dai dadaisti ma in seguito portato verso l’astrazione per l’influsso di poeti e scrittori surrealisti. niziò in questi anni la sperimentazione artistica di Miró, che si cimentò con le litografie, l’acquaforte e la scultura, nonché con la pittura su carta catramata e vetro.

Con lo scoppio della guerra civile spagnola (1936) tornò a Parigi, dove si dedicò a raccogliere fondi a favore della causa repubblicana, ma fece ritorno in Spagna al momento dell’invasione nazista della Francia. Da questo momento visse stabilmente a Maiorca o a Montroig. Miró fu uno dei più radicali teorici del surrealismo, al punto che André Breton, fondatore di questa corrente artistica, lo descrisse come “il più surrealista di noi tutti”.

Tornato nella casa di famiglia, Miró sviluppò uno stile surrealista sempre più marcato; in numerosi scritti e interviste espresse il suo disprezzo per la pittura convenzionale e il desiderio di “ucciderla”, “assassinarla” o "stuprarla" [1] per giungere a nuovi mezzi di espressione. La prima monografia su Miró fu pubblicata da Shuzo Takiguchi nel 1940.

Fonte: Wikipedia

 
 
 

FESTIVAL JAZZ O POP ? CI SI INTERROGA ANCHE IN CANADA

Post n°1832 pubblicato il 17 Aprile 2011 da pierrde

Interessante post di Peter Hum sul suo Jazzblog a proposito del Festival di Ottawa e dell'annunciato programma che prevede Robert Plant, Elvis Costello e KD Lang.

Molti lettori del blog hanno espresso dubbi e perplessità riguardo a scelte musicali che nulla hanno a che vedere con il jazz, e questo, naturalmente non per mantenere un purismo che non esiste ma per salvaguardare l'integrità e la coerenza di manifestazioni che per lunghi anni si sono ben guardate dalla deriva populista.

Gli argomenti a favore sono sempre gli stessi: più pubblico più visibilità, più incassi con il pop più possibilità di finanziare musicisti ritenuti a torto o a ragione difficili.

Il direttore artistico del Festival di Ottawa, Peter Cancura, ricorda che fin dall'inizio i festival hanno ospitato musiche e musicisti diversi e fa il caso del famoso Newport Jazz Festival il cui filmato ho postato da poco, in cui figurava Chuck Berry. 

Molta stampa canadese ha poi salutato le scelte di Cancura come una svolta ragionevole e necessaria, mentre al contrario molti appassionati hanno espresso il loro totale rifiuto nel trovarsi imbarazzanti figure di rocker che nulla hanno da aggiungere a quanto fatto già da decine di anni.

Invito gli interessati a leggere il lungo post per farsi una idea del dibattito. Personalmente, avendo preso più volte posizione contro le scelte pop dei festival europei, ci terrei a precisare alcuni punti.

Non credo esista una purezza jazz, nel senso che è talmente vasto il numero dei musicisti e la varietà delle proposte che operano più o meno consensualmente all'interno di questa ormai imbarazzante etichetta che è molto difficile stabilire confini o erigere steccati. 

E' più jazz Lino Patruno o Evan Parker ? Non mi interessa stabilirlo, il punto credo sia un'altro.

Se il jazz è frutto di meticciato e di intersecazioni culturali e storiche non ha senso imbalsamarlo come vorrebbe Wynton Marsalis. Sforzo inutile, la vita non si ferma al museo, tutto è in movimento, anche la musica.

E allora ? Allora forse sarebbe più intelligente da parte dei direttori artistici dei festival fare scelte più coraggiose. Le Liza Minelli ed i Robert Plant possono rimanere nella memoria dei loro estimatori. Da loro non giungerà mai una scintilla creativa nuova ma solo stanche repliche del passato.

Perchè non guardare verso nuove sfide, nuovi nomi, nuove contaminazioni ? Non mancano certo le proposte, e magari qualcuno potrebbe perfino portare più dollari (perchè è questo il vero motore di tutto) di nomi stanchi e magari sfiatati.

Grazie alla rete ho ascoltato recentemente un concerto che vedeva protagonista il trio australiano dei Necks con Brian Eno. Poco jazz ma musica viva, ricca di idee e di stimoli.

Roba che la Minelli e Plant non hanno più da un pezzo.

 

http://communities.canada.com/ottawacitizen/blogs/jazzblog/archive/2011/04/15/the-pros-and-cons-of-non-jazz-at-jazz-festivals.aspx

 
 
 

RAI RADIO3 IN FESTIVAL

Post n°1831 pubblicato il 16 Aprile 2011 da pierrde
 

Sabato 16 Aprile # 21.00 - 22.30 @ Magazzino del sale

Il Cartellone di Radio3 Suite:

Conduce Pino Saulo

Stefano Bollani, pianoforte; Enrico Rava, tromba

Quello tra Enrico Rava e Stefano Bollani, prima che un fertile sodalizio artistico, è un profondo rapporto umano. Un’intesa che ha permesso la realizzazione di lavori importanti, registrati e in scena, come appunto il loro ultimo disco in duo per la ECM, The Third Man. Mentore e allievo, nel gioco delle parti. «L’improvvisazione? È come se, dovendo attraversare un canyon, iniziassi a costruire un ponte sospeso nel vuoto – spiega Bollani– camminandoci al contempo sopra. È fare una cosa diversa ogni sera a farmi sentire vivo». La tromba di Enrico Rava e il pianoforte di Stefano Bollani in un memorabile concerto che «farà sentire vivi» i performer e chi avrà la fortuna di ascoltarli.

 

 
 
 

RESTIAMO UMANI

Post n°1830 pubblicato il 15 Aprile 2011 da pierrde

http://guerrillaradio.iobloggo.com/

 
 
 

MONTREAUX JAZZ (??) FESTIVAL

Post n°1829 pubblicato il 14 Aprile 2011 da pierrde

Il Montreux Jazz Festival punta quest'anno sulle "leggende della musica", in modo differenziarsi dalle altre manifestazioni dello stesso genere moltiplicatesi negli ultimi anni.

 Presentato ufficialmente oggi a Zermatt (VS) - dopo la fuga di notizie di ieri - il cartellone comprende nomi di assoluto rilievo quali Carlos Santana, Deep Purple, BB King o ancora Sting. "Parto dall'idea che se un artista porta qualcosa di nuovo, un progetto speciale, allora vale la pena farlo venire", ha spiegato il patron del festival, Claude Nobs.

 La manifestazione intende restare fedele ai suoi musicisti, ma anche il contrario è vero, ha aggiunto. Quest'anno Santana presenterà tre progetti. Per la prima volta da 30 anni sarà sul palco assieme al chitarrista John McLaughlin. L'indomani si produrrà nuovamente suonando i suoi più grandi successi, mentre il terzo giorno andrà in scena con BB King.

Un altro nome importante è quello dell'arpista Andreas Vollenweider, ha spiegato Nobs, di rado in concerto in Svizzera. Tornerà a Montreux dopo 30 anni per suonare con amici di un tempo e di oggi.

Il 2011 è però anche l'anno del 40mo anniversario dell'incendio al casinò scoppiato durante un concerto di Franck Zappa. La vicenda ispirò un classico della storia del rock, "Smoke On The Water" dei Deep Purple, che saranno a Montreux per chiudere il festival accompagnati da un'orchestra sinfonica di 50 elementi.

 Per gli appassionati di jazz, di assoluto rilievo sarà la presenza di Quincy Jones, che si produrrà con i pesi massimi Markus Miller, Herbie Hancock e Wayne Shorter, così come quella di George Benson e di Randy Crawford. Ci sarà però anche spazio per la voce di Liza Minelli, il rock dei canadesi Arcade Fire, il folk di Paul Simon, il soul di Seal e l'hip hop di Coolio

Fonte: swissinfo.ch

 Il festival di Montreaux ha una storia gloriosa, tutti i grandi del jazz si sono esibiti nelle eleganti sale del Casinò, e moltissimi hanno registrato album importanti, uno per tutti, il sommo Bill Evans.

Nella bellissima località elvetica sul lago di Ginevra c'è un auditorium meraviglioso intitolato alla memoria di Miles Davis.

Quest'anno ricorre la 45° edizione del festival ed il programma a grandi linee è quello delineato dall'articolo che ho riportato.

Fatta salva la piena legittimità della direzione artistica di impostare il proprio festival in base ai propri parametri, gusti e riscontri di pubblico e sponsor, a me semplice appassionato rimane però la possibilità di valutazione complessiva delle scelte artistiche in base alle mie preferenze e alla mia sensibilità.

Riassumendo le mie impressioni in un solo aggettivo non posso che definire penoso il programma sopratutto considerando la magnifica storia alle spalle. A fronte di biglietti salati il programma è melenso, sciapito, banalmente commerciale, contradditorio nelle intenzioni e spaventosamente simile negli "eventi" (sigh) a quello di Umbria Jazz. 

http://static.montreuxjazz.com/

 
 
 

LAURENT ALL'ATTACCO

Post n°1828 pubblicato il 13 Aprile 2011 da pierrde
 

Il pianista francese Laurent Coq è protagonista di una polemica che scuote il mondo jazz transalpino.

Prendendo spunto dal movimento che ha cambiato l'assetto della Tunisia, la rivoluzione del gelsomino (The Revolution Jasmine) ha creato un blog dal nome evocativo, Le Revolution de Jasmine, ed ha pubblicato due lettere aperte, una contro la programmazione della radio francese dedicata al Jazz, TSF Jazz, e l'altra contro le scelte artistiche di uno dei più famosi club parigini. Le Duc des Lombards.

In sintesi il pianista contesta alla radio di non essere fedele al proprio motto, e cioè di non trasmettere "tutti gli stili del jazz" ed al club di essere caro, avere una pessima cucina e dimostrare attenzione più al profitto che alla qualità della musica.

Comitive di dipendenti di società in pranzo premio, assolutamente disinteressati al jazz, chiassosi e rumorosi in spregio al lavoro dei musicisti e alla voglia di musica dei veri appassionati costituiscono il pubblico medio del club.

Insomma, ne più ne meno, quello che spesso succede anche dalle nostre parti. E se purtroppo noi non abbiamo una emittente nazionale dedicata al jazz, potremmo però lecitamente criticare il programma del club milanese che ospita in prevalenza musicisti fusion o canzonettari alla faccia del nome che porta.

Manca un Laurent Coq italiano che scagli la prima pietra, e magari, se si facesse vivo, gli suggerirei di lamentarsi anche di quel grande festival italiano che da vent'anni invita quasi sempre gli stessi musicisti pescati tra non più di sessanta nomi. Gli italiani poi sono sempre gli stessi, immutabili quasi che non ci fosse ricambio, mentre invece è vero il contrario. In compenso anche quest'anno in prima serata si è fatto il pieno di stars del pop, come al solito piuttosto bollite, qualcuna reclutata direttamente da qualche clinica... 

In attesa di novità invito a leggere il blog di Laurent, subissato di messaggi di colleghi e, fa parte del gioco, di risposte critiche da parte dei responsabili del club e della radio. Perlomeno in Francia c'è segno di vita......  

 

http://communities.canada.com/ottawacitizen/blogs/jazzblog/archive/2011/04/07/a-parisian-jazz-revolution.aspx

 

http://revolution-de-jazzmin.blogspot.com/

 

 

 

 
 
 

ADDIO A BILLY BANG

Post n°1827 pubblicato il 12 Aprile 2011 da pierrde
 
Tag: NEWS

Il violinista Billy Bang è deceduto all'età di 63 anni dopo una lunga malattia.

Nato come William Vincent Walker prese il nome Billy Bang da un personaggio dei cartoni animati.

Soldato di fanteria durante la guerra nel Vietnam, Bang dedicò a quella dolorosa esperienza due album: The Aftermath nel 2001 e Vietnam: Reflections nel 2005 accompagnandosi ad altri musicisti che come lui vissero l'esperienza lacerante del conflitto.

Ma Bang è ricordato sopratutto per aver co-fondato nel 1977 lo String Trio of New York con il chitarrista Dave Emery ed il contrabbassista John Lindberg.

Una biografia in inglese su :

http://en.wikipedia.org/wiki/Billy_Bang

 

 
 
 
 

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