Mondo Jazz
Il Jazz da Armstrong a Zorn. Notizie, recensioni, personaggi, immagini, suoni e video.
IL JAZZ SU RADIOTRE
martedì 9 ottobre 2018 alle 20.30
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JAZZ & WINE OF PEACE
Pipe Dream
violoncello, voce, Hank Roberts
pianoforte, Fender Rhodes, Giorgio Pacorig
trombone, Filippo Vignato
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batteria, Zeno De Rossi
Registrato il 26 ottobre 2017 a Villa Attems, Lucinico (GO)
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Messaggi di Novembre 2012
Post n°2471 pubblicato il 29 Novembre 2012 da pierrde
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Post n°2470 pubblicato il 29 Novembre 2012 da pierrde
Cosa ti affascina nella pratica dell'improvvisazione? La cosa bella dell’improvvisazione è il rischio. A me piace quando un concerto può svilupparsi in tanti modi diversi. Quando suono in gruppi “programmati” mi diverto meno, anche se a volte la musica scritta, se bella, può dare molta soddisfazione. In realtà, il terreno che più mi interessa è quello dei concerti e dei gruppi nei quali nulla è prestabilito, dove non si teme il rischio. A seconda di quello che succede, di come uno si sente, della sintonia che si stabilisce quel giorno con le persone con cui si suona, ci si muove in una certa direzione piuttosto che in un’altra. L’improvvisazione è “un modo di essere del jazz”, un certo tipo di approccio, una predisposizione, un’apertura mentale. Con la diffusione dell’insegnamento del jazz, suonare su una griglia di accordi può essere improvvisazione ma può anche non esserlo, perché diventa molto facile incollare una frase all’altra, proprio come si fa per riempire un cruciverba. Anche su uno standard suonato un milione di volte si può improvvisare creativamente: pochissimi sono però in grado di farlo bene. Una volta il jazz era una musica rivoluzionaria (Armstrong, Beiderbecke, Parker, Ornette); adesso, c’è un buon cinquanta-sessanta per cento di musicisti che lo ha reso una musica conservatrice. In questo caso preferisco la musica classica, più adatta ad essere eseguita com’è scritta, oppure tornare ai grandi maestri che citavo. (Giovanni Guidi) Fonte: http://www.andymag.com/my-lifemy-music/1776-giovanni-guidi.html |
Post n°2469 pubblicato il 28 Novembre 2012 da pierrde
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Post n°2468 pubblicato il 28 Novembre 2012 da pierrde
L "La verità si trova più spesso nella musica che nei libri di filosofia." (Gregory David Roberts, Shantaram)
Leandro “Gato” Barbieri (Rosario, 28 novembre 1934) è un sassofonista jazz argentino. Figlio di un carpentiere con la passione per il violino, studia clarinetto, sassofono e composizione a Buenos Aires. Nel 1953 entra a far parte dell'orchestra di Lalo Schifrin e si dedica completamente al sax tenore. Nel 1962 si trasferisce a Roma dove registra per il giovane arrangiatore Ennio Morricone l'assolo in "sapore di sale" di Gino Paoli e nel 1967 è a Milano, dopo una parentesi a New York con Don Cherry, dove partecipa a Nuovi sentimenti di Giorgio Gaslini. Inizialmente influenzato da sassofonisti come John Coltrane e da altri artisti del free jazz, nel 1967 incide i primi due dischi pubblicati con il suo nome. Nel duo con Dollar Brand 1968 imprime alla sua musica una svolta nel recupero delle musicalità sud-americane, creando un suo personalissimo stile con il quale fonde soluzioni tecniche più tipicamente jazzistiche con le sonorità e i ritmi sudamericani. Nel 1972 collabora con Bernardo Bertolucci componendo la colonna sonora del film Ultimo tango a Parigi, che gli è valsa un Grammy Award. La sua produzione musicale ha quindi conosciuto anche incursioni nel jazz-pop, con collaborazioni con i più diversi artisti, fra cui Carlos Santana, Antonello Venditti, Pino Daniele. Dopo un lungo periodo di inattività, iniziato negli anni ottanta a seguito della morte di sua moglie Michelle, è tornato ad esibirsi dal vivo solo alla fine degli anni novanta. Fonte: Wikipedia
Le note di Wiki sono piuttosto approssimative sul periodo d'oro di Gato, le sue incisioni migliori e gli album che sono rimasti nella storia. Mi riferisco a Latin America Chapter 1 & 2, Under Fire e a Bolivia, dischi tutti usciti nel 1973 e che hanno segnato uno stile unico e inconfondibile consegnando Barbieri alla storia del jazz. Vero invece, purtroppo, che la scomparsa di Michelle ha segnato definitivamente la fine del periodo creativo, ed il ritorno successivo sulla scena non ha prodotto album significativi. Certo il suono inconfondibile del tenore è ancora vivo, ma si è spento quel fuoco interiore che lo animava. Comunque, auguri Gato, il tuo sassofono mi ha accompagnato a lungo ed ha un posto nel mio cuore |
Post n°2467 pubblicato il 27 Novembre 2012 da pierrde
Settant'anni di mito. La chitarra che ha fatto la storia del rock smette di stupire il mondo intero quella famosa notte di settembre, quando Jimi Hendrix viene trovato morto in un appartamento del Samarkand Hotel di Kensington, a Londra. Era il 1970. La musica perdeva allora uno dei suoi più grandi geni. Non la leggenda, che contro ogni barriera spazio-temporale continua a vivere. Più che mai oggi, giorno del compleanno del chitarrista di Seattle, nato il 27 novembre 1942. E il miglior modo per celebrare un'icona, un mostro sacro del rock, è accettare il silenzio di fronte alle sue grintose note. Ricordarlo attraverso la visione delle sue migliori performance. Ed è quello che succederà oggi in 150 cinema italiani dove verrà proiettato "Hendrix 70 - Live at Woodstock", il documentario (impreziosito di interviste) costruito intorno all'esibizione che Jimi Hendrix tenne a conclusione del Festival di Woodstock, quei mitici tre giorni (15-18 agosto 1969) trascorsi a Bethel, una piccola cittadina dello stato di New York. Nelle intenzioni 72 ore di "pace, amore e musica" che riunirono i più grandi nomi del rock (tra cui, oltre a Hendrix, Bob Dylan, Janis Joplin, Joan Baez, gli Who e tanti altri), passati alla storia come uno dei simboli dell'epoca delle contestazioni giovanili e della cultura hippie. Nelle ultime due ore del 19 agosto 1969 che animarono Woodstock, il mancino di Seattle comparve sul palco davanti ai quattrocentomila presenti. Una delle sue migliori performance: Hey Joe!, Foxy Lady, Purple Haze, Voodoo Child e per concludere una sorpresa inaspetatta e improvvisata. La sua band (Larry Lee chitarra, Billy Cox basso, Mitch Mitchell batteria, Juma Sultan e Jerry Velez percussioni) mise giù gli strumenti; si sentirono solo le corde della Fender Stratocaster di Jimi vibrare e il suono 'tutto suo' dell'inno nazionale americano. Il film "Hendrix 70 - Live at Woodstock" ripercorre quegli indimenticabili momenti. Il tutto orchestrato da Michael Wadleigh, già premio Oscar per il film "Woodstock". Immagini d'archivio, grazie anche alla collaborazione di Experience Hendrix Llc, società di proprietà della stessa famiglia Hendrix, sono state cucite insieme con mestria per ottenere una versione mai vista prima del leggendario concerto, supportata, oltretutto, da un lavoro straordinario sull'audio. In occasione dei 70 anni della nascita di Jimi Hendrix, inoltre, è già uscita nelle librerie, la biografia del chitarrista scritta dal fratello Leon con Adam Mitchell (prefazione di Enzo Gentile). Si tratta di "Jimi Hendrix. Mio fratello", il libro che ritrae aspetti inediti del giovane e brillante Jimi, che smise di suonare, per sempre, a soli 27 anni. Fonte:www.adkronos.com
La notizia dell'anniversario di Hendrix mi ha procurato stupore e incredulità (70 anni ??? impossibile !!!). Ero poco più di un ragazzino e ascoltavo i suoi album, procurati con incredibili difficoltà, mentre la maggior parte dei miei coetanei ascoltava Lisa dagli occhi blu o Singapore. La scomparsa tragica invece non mi sorprese, era chiaro che dietro a quel mondo in fermento si agitassero droghe e pulsioni che il successo e il denaro amplificavano fino a far perdere il controllo ai meno forti. Negli anni successivi ho assistito al culto del mito: centinaia di registrazioni, per lo più di scarto, venivano pubblicate per compensare la fame di un mercato troppo presto privato da una delle sue galline dalle uova d'oro. Con il tempo poi abbiamo saputo dell'amicizia tra Hendrix e Miles purtroppo mai concretizzata su vinile, della possibile loro collaborazione progettata probabilmente con l'intervento di Gil Evans. Ed è proprio quest'ultimo al quale dobbiamo il migliore omaggio assoluto reso dai musicisti jazz alla musica di Hendrix. Un album e molti concerti con una delle migliori big band di sempre. Da allora molti altri si sono cimentati, il più delle volte con risultati altalenanti o di scarso significato. In questi ultimi anni un progetto particolare ha ottenuto i risultati migliori dopo Gil. Si tratta del gruppo di Dee Alexander, una cantante nera, che ha riarrangiato i brani di Hendrix per un gruppo strumentalmente insolito: contrabbasso, violoncello, batteria e/o violino e chitarra. Infine, un ricordo personale: ai tempi il doppio album Electric Ladyland suonava alieno alla maggioranza, perfino i più appassionati faticavano ad accettare feedback e distorsori, suoni inauditi e provocatori per i tempi. Io ero molto attratto dall'intero doppio album, e mi entusiasmavo in particolar modo per questo brano:
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Post n°2466 pubblicato il 26 Novembre 2012 da pierrde
Ripensando ai concerti dei musicisti più giovani visti in questo anno che sta per concludersi un posto speciale nei miei ricordi va sicuramente a Tigran Hamasyan. L'ho ascoltato al Teatro Villoresi di Monza nel mese di marzo, e ne ho parlato sul blog. Un inizio di concerto sbalorditivo per tecnica, tocco, narrazione, incanto. Poi la serata ha preso una piega più consueta e meno interessante alle mie orecchie ma le potenzialità intraviste in quel giovane pianista armeno sono veramente notevoli. Apprezzatelo in questo breve filmato dove, insieme ad un approccio sbalorditivo al pianoforte, Tigran enuncia le sue influenze e la sua, per ora, breve storia.
una produzione Ohana Film&Music S.r.l. regia di Dimitri Sassone direttore della fotografia Raoul Torresi mix e presa diretta Gianna Chillà montaggio e grafica Nicola Formicola |
Post n°2465 pubblicato il 25 Novembre 2012 da pierrde
Il concerto di Guido Manusardi e del suo trio chiude un ciclo di tre concerti in dieci giorni (Il trio di Fornarelli e Umberto Petrin con Teatro Danza), una manna insperata in queste terre aride per ciò che concerne la musica jazz, e lo fa in maniera vigorosa e appassionata. Ho avuto modo di assistere a molti concerti di Guido, ma sicuramente quello di sabato sera al Teatro della Società Operaia è stato uno dei migliori per intensità, ispirazione, concentrazione e poesia. Il repertorio è pescato dal consueto sterminato booklet costituito dai grandi autori americani del 900', al quale intere generazioni di jazzisti di ogni parte del mondo hanno attinto a piene mani: Cole Porter, George Gershwin, Jerom Kern, Kurt Weill, Richard Rodgers & Lorence Hart, Kosma, Young e anche i meno battut Isham Jones e Gary McFarland, con in più un brano di Paul Chambers per evidenziare l'ottimo lavoro di Marco Vaggi al contrabbasso ed una ballata intimistica dello stesso Manusardi dall'esplicativo titolo, Introspection . Come sempre il pianismo di Manusardi di diversifica e si accende per la sua straordinaria capacità di armonizzare temi che, proprio per essere stati battuti da migliaia di musicisti, in teoria hanno ben poco da offrire di inedito a parte naturalmente le melodie magnifiche. Una lezione appresa studiando i grandi del pianoforte, sicuramente da Bill Evans il più straordinario esploratore di armonie, ma nella tecnica strumentale di Manusardi escono anche rimandi e profumi di altri grandi del passato, a mio modo di vedere su tutti un posto importante nelle influenze è riservato ad Hank Jones. La musica che sgorga dalla tastiera è spumeggiante, ricca di emozioni e di ritmo. Vaggi è un ottimo contrabbassista ed in più occasioni il suo controcanto è carico di lirismo e punteggia la costruzione armonica di Manusardi. Mimmo Tripodi alla batteria è essenziale e swingante. Scorrono capolavori come But not for me, I love you, There is no greater love, Speak Low, ma il momento più alto del concerto lo si raggiunge nella parte centrale, quando Manusardi in solitudine espone tre temi di bellezza struggente, iniziando da Yesterday proseguendo con So in love e chiudendo con Everything happens to me. In questo breve spazio il pianoforte riesce a tessere racconti intrisi di poesia, affabulando ed emozionando come solo i migliori sanno fare. Dopo una splendida esecuzione di Autumn leaves giunge il bis, un brano poco battuto ma quanto mai esplicativo dell'andamento della serata, Weaver of dreams (il tessitore di sogni, di Victor Young). Grande concerto, molto apprezzato da un pubblico finalmente numeroso e caldo. E' noto che nessuno è profeta in patria ma dalla sua città Manusardi vanta ampi crediti non riscossi di stima e di riconoscimento, come giustamente sottolineato dal presidente del Teatro nella presentazione. Speriamo che quello di sabato sia solo il primo passo. |
Post n°2464 pubblicato il 24 Novembre 2012 da pierrde
Post di omaggio alla flautista Nicole Mitchell, prossima ospite il 16 dicembre della rassegna milanese Aperitivo in Concerto. Dapprima le dedico la foto di copertina del blog con un bellissimo ritratto che la vede con il suo flauto in una mise molto AACM: impossibile non pensare all'Art Ensemble of Chicago e al trucco di scena dei vari Don Moye, Joseph Jarman e Malachi Favors. Poi riprendo un articolo dello scorso settembre da JazzTimes, in cui le veniva richiesto di indicare cinque album di musiciste (Women in avant-garde) particolarmente significative a suo giudizio. Le risposte di Nicole mi sembrano completamente condivisibili, con in più la soddisfazione per noi jazzfans italiani di vedere anche la nostra Silvia Bolognesi tra i nomi indicati. Ma ecco il breve articolo scritto dalla Mitchell: Myra Melford Matana Roberts “Song for Eulalie” exposes her compositional ingenuity, as the piece twists into many surprising places. “Eulalie” starts with opposing melodies—one catchy and richly rhythmic, the other a singable blues. As these two lines orbit, suddenly things open into a blur of freedom sounds, where electric guitar duets with violin in pastel lines of color and silence. Then the group marches Braxton-style in double-tongued unison, to enter a cave of sustained tones of mystery. The band explodes into raucousness, and finally Roberts’ beautiful alto sings in fullness, joyfully searching. Lauren Newton & Joëlle Léandre Dee Alexander Mazz Swift/Tomeka Reid/Silvia Bolognesi
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Post n°2463 pubblicato il 23 Novembre 2012 da pierrde
TOP 20 NEW RELEASES 2012 1 Courtney Pine House Of Legends Destin-E TOP TEN ARCHIVE AND REISSUES 2012 1 Keith Jarrett Sleeper ECM Il magazine inglese batte la concorrenza europea sul tempoe pubblica i risultati del referendum tra tutti i giornalisti e redattori della rivista. Non sfugge ovviamente il marcato "nazionalismo" nelle scelte, 5 album di artisti made in England nei primi 10, un risultato che se fosse uscito da un nostro magazine avrebbe provocato non poche polemiche. Ovviamente come tutte le classifiche ha un valore puramente informativo piů che affermativo. Molto piů credibile, a mio parere, il risultato su ristampe e inediti. |
Post n°2462 pubblicato il 22 Novembre 2012 da pierrde
Mi sono abituato a dire addio ai grandi protagonisti della nostra musica. Fa parte delle leggi della vita, ma quando bisogna dare l'addio ad un ragazzo, 22 anni, giovane talento dal possibile grande futuro, allora è davvero dura. Austin Peralta è morto senza un perchè, ancora non si conoscono nemmeno le motivazioni e le cause del decesso. Era un talentuoso pianista e aveva inciso tre album, il primo, Maiden Voyage, con Ron Carter come ospite . Il secondo, Mantra, con il vibrafonista Steve Nelson ed il bassista Buster Williams, ed infine lo scorso anno era uscito Endless Planets in cui suonava anche il sassofonista Ben Wendel. Il video che vedete qui sotto è stato girato a Tokyo nel 2006 quando Austin aveva solamente 15 anni. Il brano è Passion Dance di McCoy Tyner.
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Post n°2461 pubblicato il 21 Novembre 2012 da pierrde
Di questo programma ho parlato diverse volte sul blog. Ora leggo che anche i telespettatori più tenaci cominciano ad annoiarsi (vedi link a fine articolo). Non credo si tratti di un improvviso salto di qualità del telespettatore, se gli ascolti franano non è perchè in contemporanea c'è qualcosa di meglio. Fa paura pensare che la trasmissione di Fazio sia una delle "migliori" del palinsesto Rai. Semplicemente la formula è divenuta lisa, il buonismo senza costrutto alla lunga annoia, l'assuefazione agli stessi 40-60 personaggi che si ripresentano puntualmente quando c'è un libro, un film, un album o uno spettacolo da promuovere dopo anni sfiancherebbe anche un mulo teledipendente. Trattare Battiato alla stregua del Dalai Lama non solo è ridicolo ma alla fine spazientisce anche i più tranquilli. Presentare il grande scrittore e lo scribacchino di successo (effimero) incensando in egual misura sia l'uno che l'altro dopo un po di volte fa cambiare canale o, meglio, spegnere il televisore a molti (personalmente è da molto che l'ho fatto). Il conformismo, anche ( o sopratutto) se di sinistra è stucchevole, noioso, ripetitivo proprio come la comicità elementare e telefonata della Littizetto. Leggo poi, senza stupirmene più di tanto, del compenso che Fazio percepisce annualmente dalla Rai: credo che si potrebbe mettere in piedi un programma di intrattenimento e di cultura con cifre decisamente più consone al momento, ma sopratutto con un taglio ed una qualità decisamente più appropriate al servizio pubblico. Fazio può continuare ad occuparsi del Festival di Sanremo, d'altronde quello è il suo vero riferimento almeno per quanto riguarda la musica. http://www.lettera43.it/cronaca/fazio-che-flop-che-fa_4367573211.htm
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Post n°2460 pubblicato il 20 Novembre 2012 da pierrde
Si è spento ieri il batterista e compositore Pete La Roca, conosciuto per le sue collaborazioni durante gli anni '60 con Sonny Rollins, John Coltrane, Art Farmer e Paul Bley. Aveva 74 anni e da lungo tempo combatteva contro un tumore al polmone. Il vero nome di La Roca era in realtà Peter Sims, ma dopo aver suonato a lungo nelle band latine prese il nome con il quale venne poi conosciuto. Un suo ricordo è comparso nella pagina di Facebook di Dave Liebman:
MASTER-APPRENTICE: Before the advent of so many jazz programs in America, the question used to be to a young musician: ”Who did you play with?” The inference was what “master” did you serve under. (Now the question is: ”What school did you attend?”) Those of you familiar with my background know that I most notably put in a few years with Elvin Jones and Miles Davis (and Chick Corea much later). But my first true employer was drummer Pete LaRoca Sims. (The name LaRoca, meaning the Rock, came from his reputation, but his real name was Sims.) I have written in my biography about my audition with Pete, Steve Swallow and Chick in 1969 playing a few bars of “Softly” before Pete stopped the music and said: ”Let’s rehearse.” I spent the next six months with him mostly doing a gig at a club on 69th Street and Broadway called La Boheme paying five dollars a night-(absolutely true). We ended that cycle playing the Village Vanguard on Thanksgiving weekend in 1969, forty three years ago…my first time there. I was substitute teaching in NY schools at the time to make a living residing in my first of many lofts on West 19th Street in Manhattan trying to learn the music. For those six months every bass player and pianist in New York worked with Pete and me. He was my first teacher in all ways. He was a brilliant guy who after being so disenchanted with the music business became a lawyer. Over the next decades, every once in awhile he would put together a group to work a few weekends in NY, but basically Pete went into sunset mode. He was by far one of the most brilliant minds I ever knew, one of the greatest musicians I ever encountered who for starters would sing the bass line IN KEY and was a drummer like no one else. Coltrane had him before Elvin; he worked with Newk; Miles wanted him to join as did Herbie Hancock when he branched out on his own. Pete was one of a kind … a stubborn, brilliant guy who insisted on perfection. I will never forget the lessons he taught me, which I recite almost daily in my teaching. For me, Pete’s passing is in a sense like the passing of a father or uncle, meaning of all my mentors he was the last to survive. Maybe now, I am truly on my own!! - Lieb on the road |
Post n°2459 pubblicato il 20 Novembre 2012 da pierrde
Pittura, scultura, musica, letteratura, teatro e design. E molto altro, in realtà: guardando alla contemporaneità ed all’antichità. Cercherà di essere il più ecumenica possibile, la nuovissima emittente Sky Arte HD, che la multinazionale della pay tv sta per lanciare (dal 1 novembre) nell’etere satellitare italiano. Un canale culturale che riempie un grande vuoto lasciato, nel nostro paese, dalla chiusura di Rai Sat Arte e dall’assenza di realtà di grande presa all’estero come la franco-tedesca Arte.
Ecco, questa era la presentazione del nuovo canale Sky. Dopo una ventina di giorni dall'esordio credo sia possibile tirare un primo parziale bilancio. Inutile dire che le aspettative erano tante, l'asticella dei desideri posizionata molto in alto e, inevitabile, il paragone con il canale franco-tedesco Artè, dietro l'angolo. Altrettanto inutile dire che un trentennio di immondizia spalmata a tutte le ore dai canali pubblici e privati ha reso la maggioranza del paese insensibile, anzi profondamente aliena, a tutto ciò che a torto o a ragione si può classificare come arte. Fatte le dovute premesse, e auspicando lunga vita e ottima audience al nuovo canale, non posso che passare all'elenco delle lamentele: Per ora passa giornalmente un numero limitato di servizi che poi viene replicato praticamente per una settimana. C'è di tutto, e pare non esistere un filtro logico. Ad esempio, vi invito a fare un passo indietro e a leggere l'ultima riga, anzi l'ultimo nome del comunicato che riporto. Un canale che si chiama Arte e propone servizi su personaggi quantomeno discutibili scade immediatamente. Nel comparto musicale c'è una tendenza all'ecumenismo che potrà sicuramente portare ascolti (Doors, Simply Red, Allevi, ecc.ecc.) ma una maggiore aderenza alla qualità sarebbe un filtro necessario. Non tutto è arte, molto è prodotto di consumo e la differenza si vede, eccome se si vede.... Spesso l'impressione nel vedere i filmati è che si tratti di documentari che per un motivo o per l'altro faticano a rientrare nei palinsesti dei canali già esistenti, ottimi quindi per essere recuperati in una inedita quanto spesso improbabile chiave culturale. Per ora l'unico filmato a tema jazzistico è un brevissimo documentario (40 minuti)sull'edizione estiva appena passata di Umbria Jazz. Nemmeno uno spuntino, e l'appetito invece è grande. Speriamo che nel palinsesto vengano effettivamente inseriti quei filmati tratti dai festival jazz per i quali si è letto esistere una trattativa. Va bene, siamo solo agli inizi, ma i curatori di Sky Arte hanno mai guardato seriamente il quasi omonimo canale franco-tedesco ? Se si ( o anche se no) la differenza è siderale.... |
Post n°2458 pubblicato il 19 Novembre 2012 da pierrde
Interessante blindfold test su JazzTimes con protagonista Ambrose Akinmusire, uno dei trombettisti più interessanti della nuova generazione afro-americana. Come sempre 11 tracce e 11 trombettisti per mettere alla prova Ambrose. Ebbene, 10 risposte esatte su 11, con il solo Brian Lynch non riconosciuto, e, particolare per noi interessante, tra i dieci trombettisti c'erano anche Paolo Fresu ed Enrico Rava. Ecco i commenti di Akinmusire e, successivamente, il link per leggere l'intero articolo: . Paolo Fresu & Omar Sosa BEFORE: It sounds like someone I heard last night. He’s a great trumpet player. I think that’s Paolo Fresu. AFTER: Ohhh! I used to play with Omar Sosa in Oakland. That’s crazy. It doesn’t sound like what I remember him sounding like. I mean, that was 14 years ago, but I really like this track. Paolo I heard at a festival two years ago; I think it was Marseilles, and he was playing something similar to this. He wasn’t playing mute on the festival, but I do remember I really liked his attack; it’s really, really clean and he’s really, really patient. That’s why I knew that it was him. As for Italian trumpet players, I don’t think I know enough about Italian jazz musicians in general to say what they sound like or really to even begin to make a comparison with American players. But I would imagine that one can’t necessarily distinguish an Italian sound from an American approach. Enrico Rava AFTER: I’ve never heard this record but I recognize his tone. Yeah, just the tone. [Later on I recognized] the phrasing, but I knew it was Rava before I heard him solo. Rava is a bad dude. He’s always been pushing. Even on his stuff in the ’70s and ’80s, he always sounds like he’s not really concerned with what’s going on right now, he’s concerned about where he’s going and how he is going to develop in the future. He’s still curious, and that’s something I find really inspiring in people like him and Wayne Shorter, Jimmy Heath, Benny Golson—older musicians who are still investigating, trying to figure out what the next step is. I think that’s really important and definitely a lesson. Plus they all look really young, so maybe that’s the reason why. http://jazztimes.com/articles/58939-before-after-with-ambrose-akinmusire |
Post n°2457 pubblicato il 18 Novembre 2012 da pierrde
Torna a Giocare”, è uno spettacolo di teatro danza coprodotto dall'Ente Valtellina e Valchiavenna per lo spettacolo dal vivo insieme a Sosta Palmizi, compagnia di danza fondata a Cortona (Arezzo) da Giorgio Rossi e Raffaella Giordano. Le coreografie dei quindici quadri dello spettacolo sono di Giorgio Rossi ed Elisabetta Di Terlizzi. Si tratta di un'importante sperimentazione che vede per la prima volta coinvolti ballerini delle compagnie locali della provincia di Sondrio sotto la guida di Rossi, uno dei più grandi danzatori e coreografi italiani. Sul palco a Chiavenna, terza tappa in provincia, tanti nomi conosciuti e apprezzati a livello locale accompagnati al piano elettrico da Umberto Petrin autore delle musiche e Valerio Dell Fonte al contrabbasso. Già all'ingresso in sala allo spettatore attento non sfuggono quelle sagome che si spostano lentamente tra il pubblico vociante, sguardo rivolto in basso, cappotto e cappellino anni 20 con bagaglio in mano, le danzatrici hanno iniziato il loro show approfittando della distrazione dei più. Un inizio molto in sintonia con le coreografie di Carolyn Carlson, musa ispiratrice di molta della danza contemporanea cosi' come l'imprescindibile figura di Pina Bausch ha forgiato lo stretto rapporto tra musica e coreografia. E come le ballerine anche i due musicisti hanno iniziato a suonare in sordina, con le luci accese e la gente in movimento, fino a che Petrin ha recitato un breve testo ironico sulle luci che non si spegnevano e sul musicista che suona per un pubblico distratto, seguito da una breve poesia di Charles Bukowski. Da li si sono snodati e avvicendati quindici quadri, con situazioni sempre diverse, testi ora brevi ora più corposi,in cui la coreografia ha tracciato un percorso lineare, impegnando le danzatrici in una performance di forte impatto collettivo. Un set che ha evidenziato e privilegiato più il gruppo che il singolo, meno fisico e muscolare, e anche meno contaminato dalle nevrosi contmporanee rispetto alle fonti ispiratrici Carlson e Bausch. In Rossi e Di Terlizzi c'è spazio anche per l'ironia, il gioco, il fluire semplice e giocoso delle situazioni magistralmente sostenuto dalle composizioni di Umberto Petrin, purtroppo costretto a rinunciare per motivi di spazio al pianoforte acustico. Non faccio mistero a confessare che Petrin è stato il principale motivo che mi ha spinto in teatro. Musicista fuori dai riflettori principali, Umberto ha maturato nel tempo una personale concezione dell'approccio al pianoforte che trovo molto rara nei jazzisti italiani e che lo rende unico e prezioso. Dopo averlo molto apprezzato nelle sue divagazioni monkiane in duo con il batterista Pheroann Ak Laff a Clusone nello scorso luglio, ieri ne ho ammirato la fresca e felice vena compositiva, ideale complemento ai quadri danzanti coreografati da Rossi e Di Terlizzi. Ma se Petrin è stata la molla, un riconoscimento dovuto va a tutti i danzatori, bravi anche nella parte recitativa con alcune punte di vera eccellenza nell'interpretazione dei testi. Menzione anche a Valerio Della Fonte, contrabbassista locale che trovo sempre più maturo e personale ogni volta che lo incrocio. |
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