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Mondo Jazz

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Messaggi del 17/10/2008

A PROPOSITO DI JAZZ / ONE MORE

Post n°1078 pubblicato il 17 Ottobre 2008 da pierrde

Ho riflettuto a lungo se e in che modo, possibilmente costruttivo, continuare la “querelle” con GMG. Il rischio è di un continuo botta e risposta, magari senza una partecipazione di altri appassionati e con la assoluta certezza di rimanere alla fine ognuno sulle proprie posizioni. Credo che chiunque sia giunto fin qui e abbia un comune amore per la musica afro-americana abbia di per sé le proprie convinzioni, e leggendo gli scritti miei e di Gualberto si sia formato una opinione senza bisogno che lo si tiri necessariamente da una parte o dall’altra. Penso comunque che la prosa appassionata e indubbiamente colta di Gianni meriti uno spazio più visibile rispetto al commento al post n° 1070, al quale rimando per chi voglia ricostruire l’intera vicenda. Qui riporto il primo ed il secondo intervento di GMG, intervallati dalla mia replica.

Avrei parecchie perplessità, fermo restando che intorno al jazz italiano (dove non tutto è oro ciò che riluce) tira ormai una ventata di vanesio nazionalismo che, nel suo essere piuttosto provinciale, invita al sorriso (nel senso che non riesce neanche ad essere irritante) Ho sempre trovato certa critica europea, sia quella inglse che francese, smodata nel sostegno sciovinista ai propri artisti, anche quando di valore nullo; da tempo la critica italiana (dalle armi culturali persino inferiori alla critica franco-britannica) si è allineata a questo approccio che non è neanche tronfio, è semplicemente acritico, ricolmo com'è, poi, di un sottile e banale antiamericanismo di radici comuni fra Sinistra e Destra, che sente di prendersi rivincite a destra e a manca, dal 1945 ad oggi, di là e di qua dello scomparso Muro di Berlino. Mi pare anche piuttosto gratuito, se non facilone, il disprezzo a piene mani distribuito nei confronti del nazionalista africano-americano Wynton Marsalis (paragonato addirittura a Gaslini e a Paolo Fresu... via, non scadiamo nell'esilarante...: certi paralleli non hanno senso storico, culturale, linguistico e neanche tecnico) la cui figura, una volta tanto, senza preconcetti, pregiudizi e paraocchi, andrebbe inquadrata con maggiore rispetto e più acuta obiettività. E forse, con una migliore conoscenza di determinate correnti di pensiero all'interno del processo estetico africano-americano.

Un intervento molto stimolante e ricco di spunti, per il quale ti ringrazio sinceramente. Molti i punti sui quali condivido le tue argomentazioni, su altri probabilmente la vediamo in modo differente, ma questo non è di impedimento alcuno ad un piacevole scambio di idee. E’ indubbiamente vero che parte della critica, soprattutto quella francese, tende a “coccolare” eccessivamente i propri rampolli, non vedo un fenomeno di egual portata da noi, dove anzi, a parte i pochi che hanno raggiunto una visibilità, gli altri possono contare al massimo sul Top Jazz autarchico per riuscire a vedere il proprio nome in qualche rilievo sui media. Certo non tutto il jazz italiano è dello stesso spessore, ma complessivamente credo che il livello medio sia notevolissimo. Concordo sul fatto che certi paragoni tra musicisti di area, estrazione e culture differenti siano più “calcistici” che reali, e quindi irrealistici e mal posti ( anch’io mi faccio spesso prendere la mano come giustamente evidenzi)., A tutti credo è capitato di osservare durante festival o rassegne che mettono a confronto europei ed americani che ogni tanto i meno interessanti sono proprio gli americani. Mai mi sono annoiato nell’assistere ad un concerto di Fresu, in tutte le sue incredibili varianti di formazioni e proposte. E se dovessi scegliere tra Franco D’Andrea e Chick Corea in concerto la stessa sera in due teatri differenti, non avrei dubbio alcuno… Non voglio generalizzare naturalmente, credo però che abbiamo sofferto forse troppo a lungo di preconcetti americanocentrici. Lo dico senza spocchia e senza nessun anti-americanismo di ritorno: sono cose vecchie e per fortuna ampiamente superate. A meno di non voler dare per buona la filosofia Marsaliana, e cioè che 1) il jazz è una musica solo americana (anzi, solo nero-americana) 2) il jazz è equiparabile alla musica classica e quindi, di fatto, privo di qualsiasi ulteriore sviluppo. Roba da vecchio conservatore, anzi da quacchero incallito. Sarebbe come dire che la musica classica è solo europea, e quindi i vari Metha, Montero, Agerich, ecc., hanno sbagliato tutto , più o meno come Martial Solal, John Surman, Paul Bley, eccetera. Negare sviluppo al jazz è poi come decretarne di fatto la morte immediata, ma soprattutto negarne la storia, fatta di continui mutamenti e contaminazioni. Oggi il jazz, pur essendo una musica nero-americana, appartiene al mondo intero, esattamente come la musica classica che viene studiata e praticata in Oriente come nelle Americhe. Certamente la mia comprensione del contesto afro-americano in cui nasce Wynton è da migliorare; da parte mia non ho mai smesso di ammirarne le formidabili doti musicali, cosa che, appunto, mi riesce più difficile con le sue concezioni sulla musica (condivido, inutile dirlo, le idee del vecchio Lester Bowie !).
A me non dispiace la polemica. Anzi, reputo quella acremente bizzosa pur sempre meglio del civilissimo consenso in punta di forchetta. Qualcuno la scambia per astiosità. Sbaglia. Ma, insomma, non si può piacere a tutti, una fra le poche cose autenticamente belle dell’esistenza. Beh, chissà perché l'"universalità" del jazz torna sempre comodo quando si tratta di affibbiare agli africani-americani la patente dei superati (naturalmente a favore degli europei, gli unici, a quanto pare, a partire da Guillaume de Machaut e anche prima, in grado di maneggiare le doti di Euterpe): è un buon traguardo, finalmente si riesce a strappare ai nero-americani (e di contorno, agli americani tout court) anche una fra le poche cose che era sfuggita alla smania colonialistica europea. Si ritorna finalmente a un sano mondo non più globalizzato ma a un'altrettanto sana conduzione europea (con i bei risultati ottenuti, se non erro, a partire dal 1932). Curioso, in un mondo in cui la Sinistra (cui un tempo mi vantavo di appartenere: oggi è meglio pregare perché arrivi una Third Stream anche in tali ambiti...), fino a pochi anni fa, considerava obligé esaltare il nazionalismo africano-americano degli Amiri Baraka, dei Sun Ra, dell'AACM o delle Black Panther (tutta gente che non la pensava troppo diversamente da Wynton Marsalis, almeno su alcuni punti, visto che, in fondo, alcuni considerano lo stesso Marsalis culturalmente un po' troppo inquinato con il potere istituzionale bianco, nella sua sprezzante diffidenza verso un'avanguardia che, a sua volta, egli non considera africana-americana abbastanza: quando la lana caprina si fa fitta...)... Oggi, invece, con i mirabili capovolgimenti che il crollo delle ideologie continua a comportare e, dunque, con l'ondivaga genericità che esso implica, si è pronti a sostenere che nella loro stessa lingua gli africani-americani sono maldestri, in nome dell'universalità della stessa. Passati i tempi in cui gli intellettuali nostrani (quelli che ancora non avevano voltato gabbana in omaggio alla lotta contro quella globalizzazione di cui il jazz è stato primo e imponente profeta culturale) agitavano " Blues People" più del libretto rosso di Mao. Per carità, crollano le Borse, godiamo tutti della caduta a picco non di un comune modello di mercato, come è già accaduto altre volte, ma dell'odiato "capitalismo americano" (una fra le tante idiozie di cui si può leggere di questi tempi), niente di strano, perciò, che finalmente si possa godere anche del crollo (assai ipotetico) dell'orribile jazz "americano", a favore di un sano europeismo, ancorché infarcito di un provincialismo deleterio bene avviluppato nella copertina di un ruttino di supremazia bianca. E si scopre che è bestemmia sostenere che il jazz sia primariamente una musica africana-americana, inscindibilmente legata ai processi della cultura americana (ben originale) sviluppatasi nel corso del Novecento e eminentemente rivolto proprio ai popoli meticciati, protagonisti della globalizzazione. Ma sì, in fin dei conti una manica di patetici imbecilli ha decretato a Stoccolma che Philip Roth è merce imputridita, vuoi mettere con il sano, bianco, europeo Le Clézio, anche se scrittore turpemente mediocre... Ed è divertente (e anche un po' razzista ma, insomma, gli europei, si sa, possono concedersi questo ed altro, dall'alto dei loro duemila e passa anni di Storia, fra un'Inquisizione, una Shoa e altre amenità trascurabili) che da queste parti si voglia dettare agli africani-americani anche come comportarsi nella loro stessa cultura: ragazzi, che ve ne fate del nazionalismo di Marsalis... ma come si permette questo buzzurro... pretende persino di imporre una classicità -che è, riconosco, criterio certamente suscettibile di critiche e dubbi- roba da europei... questi neri stanno diventando troppo americani, li preferivamo quando contestavano in un linguaggio a noi appetibile... Ritornassero a fare i neri, che al resto ci pensa la gloriosa cultura europea, con il putridume estetizzante del surrogato culturale prodotto da ECM & C. per incliti evoluti (ma non abbastanza). Per non parlare poi dei terribili musicisti bianchi americani, accettabili solo se sufficientemente europeizzanti e estetizzanti (Que viva Tristano!): il jazz, in fin dei conti, è nato malauguratamente negli Stati Uniti, dove ormai non sanno che farsene (dev’essere un altro effetto del bushismo…)… Un’avanguardia inesistente (peccato che il rapporto fra jazz e performing arts stia dando dei frutti notevolissimi ; peccato che l’incalzare di nuove ondate migratorie, da quella slava a quella asiatica originatasi in India e Pakistan, stia dando vita a connubi linguistici straordinari, di cui una eco ben più ridotta si avverte anche in Inghilterra: immagino che artisti come Vijay Iyer e Rudreesh Mahanthappa siano dei relitti di qualche naufragio culturale; peccato che il dialogo fra gruppi etnici diversi stia creando nuovi laboratori di cui, nella nostra purezza, nordica o mediterranea, non avvertiamo alcun impulso, preferendo noi l’esaltazione delle radici, a rischio di scivolare nella melma appiccicosa della più neo-colonialista world music d’accatto…), un’insistenza sulle proprie radici meticciate (quella volgare insistenza sui dati dello hard bop, che qualcuno già trenta e quaranta anni fa viveva come un rigurgito di conservatorismo), l’evoluzione metrica del bop nelle forme di rap e hip hop, le evoluzioni ritmiche allineatesi alla ricchezza immaginifica della slam poetry, il riallaccio costante alle varie forme culturali derivate dal mondo culturale africano e africano-americano… Minuzie, naturalmente, di fronte all’innovazione europea, che da decenni ormai continua a girare su sé stessa, come Narciso di fronte a uno specchio d’acqua. Mi stupisce come certa autoreferenzialità autarchica (e pensare che, ad esempio, Enrico Rava ha dato il meglio di sé, che non è poco, proprio nella sua ispirazione più cosmopolita, ben prima che vezzosamente, come una nonna perennemente incinta, si dedicasse a fare il profetta dell’italica cultura popolare con una spruzzata di europeismo, tanto per non sembrare troppo provinciale…), che non di rado sfocia in una spocchiosa auto-sopravvalutazione, venga spacciata per innovazione: insomma, rinnovare il guardaroba dei propri avi rischia di passare non per una sana politica anti-tarme, ma per creatività allo stato puro, non un elegante, ancorché di corto respiro (in un mondo che comunque insegue il sincretismo, vivaddio), accenno alle proprie radici, ma un vero e proprio processo creativo ex novo… Ho sempre ammirato Esbjorn Svensson perché, pur alla ricerca di una sua originalità locale (glocale?), non si vergognava di esibire il fatto che la fonte del suo sostentamento creativo fosse in larga parte extra-europea, anzi americana e africana-americana. Riconosco di avere in uggia l’estetismo europeizzante che puzza di nazionalismo: ho amato il secolo di quei barbari che si chiamavano Ives e Cowell, Gershwin e Armstrong, Copland e Jelly Roll Morton, Cage e Mingus, Feldman e Coltrane. E ci aggiungerei, per buona misura, che so, Chávez e Revueltas, Arturo Márquez e Javier Álvarez, magari pure Peter Sculthorpe o Ernesto Nazareth e, perché no, anche lo stravolgimento indio che Villa-Lobos fece di Bach. Amerei avere le tue certezze, quelle certezze che ti fanno preferire Franco D’Andrea (eccellente pianista, persona squisita e, certamente, modesta e rigorosa) a Chick Corea… Peccato che D’Andrea, pur con tutta la sua strepitosa bravura, non abbia cambiato la storia della musica improvvisata di una virgola, mentre Corea di virgole ne ha cambiate tante (altrimenti, parte del pianismo modale sarebbe rimasta ferma a McCoy Tyner). Esistono anche i ruoli storici, a meno che non si voglia creare nuove scale di valori. E, certo, apprezzo anch’io l’intelligenza, anche l’astuzia di Paolo Fresu, la sua eleganza, ancorché abbia inventato poco o nulla di nuovo. Anzi, lo ammirerò ancora di più quando l’avrò sentito cavare anche un acuto, così, tanto per fare “nu muorzo e’ vita”, come dicono a Napoli). Lungi da me negare il talento di tanti artisti italiani (oggi orgogliosamente riuniti in casta), non vorrei però doverne negare invece la derivatività, che nel jazz, ahimé, è cosa piuttosto comune in ambito idiomatico, per chi non vuole essere cosciente della primari età africana-americana. Sì, è pur vero che mio padre era di colore e che i bianchi gli stavano un po’ sulle scatole: devo avere ereditato qualcosa da lui.

Ancora una brevissima replica. Non ho mai affermato, ovviamente, che il jazz europeo è superiore o migliore o in qualche modo preferibile rispetto a quello afro-americano. Non essere forzatamente americanocentrici nelle scelte non significa essere automaticamente eurocentrici. Da parte mia amo profondamente tutta l’avanguardia chicagoana, i musicisti della AACM grazie ai quali mi sono avvicinato al jazz, per poi esserne conquistato e formato. Ho infatti effettuato un percorso a ritroso: partito da Braxton, Leo Smith, George Lewis e Art Ensemble of Chicago sono poi risalito ai giganti che li hanno preceduti, amandoli e riconoscendo in essi gli ispiratori della AACM e delle generazioni successive. Condivido buona parte delle tue affermazioni sociologiche, storiche e anche politiche, compreso l‘accenno allo scrittore veramente meritevole del Nobel di quest‘anno. Ricordo con un misto di ironia e rabbia gli anni in cui qualsiasi musicista, purchè suonasse free, era applaudito a prescindere da effettivo merito e valore. e un gigante come Stan Getz inesorabilmente fischiato perché bianco, quindi reazionario e superato. Scemenze che per fortuna costituiscono solo il folklore di un certo periodo. D’accordo anche sul valore nel contesto storico: Corea ha scritto pagine, indubbiamente. Oggi però è molto meno interessante di alcuni dei migliori pianisti italiani, quindi, se voglio andare ad ascoltare musica viva, vibrante, sincera, rigorosa evito Chick e scelgo Franco. Non è che Corea non sappia più suonare, naturalmente, è che ha fatto scelte differenti e sicuramente più gratificanti per il suo portafoglio e non mi basta riconoscerne il valore storico quando vado ad un suo concerto. Gustosi i tuoi ricordi famigliari, io posso solo vantare una nonna tedesca ed un nonno pittore: bianchi, nord-europei e vissuti senza aver mai visto un nero americano.

Ma a questo punto , per evitare di annoiare e di scrivere un libro, passerei volentieri il testimone ad altri. A Gianni un caro saluto, è bello condividere una passione cosi’ forte….

 
 
 
 

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