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Registrato il 26 ottobre 2017 a Villa Attems, Lucinico (GO)
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Messaggi del 02/08/2011
Post n°1908 pubblicato il 02 Agosto 2011 da pierrde
Il David di Donatello come miglior musicista per la colonna sonora del film Basilicata coast to coast e il premio alla carriera di pianista appena ritirato ad Iseo sono solo alcuni dei riconoscimenti ottenuti di recente da Rita Marcotulli, compositrice e virtuosa romana classe ’59. Un’artista che ha lavorato con Chet Baker e Pino Daniele, Enrico Rava e Billy Cobham, spaziando fra jazz, musica per la danza e colonne sonore. Ma quando la Marcotulli iniziò (dal Conservatorio) il percorso che oggi la porta al bel disco in trio con Javier Girotto e Luciano Biondini, Variazioni su tema, forse in pochi avrebbero scommesso su una sua importante carriera. Perché il mondo del jazz, si dice, è maschilista. «In effetti è stata lunga, farsi rispettare e stimare al di là del sesso». Ride ricordando uno dei primi complimenti fattigli dalla stampa: «Scrissero che suonavo bene. Cioè, “come un uomo”». Marcotulli, partiamo dagli esordi. Quali ostacoli ha incontrato ad affermarsi come musicista donna in un ambiente molto “maschile”? All’inizio il problema c’era, penso vi sia anche per le giovani che iniziano ora. Ed è una cosa assurda. Dall’arte si percepisce il modo di essere di un artista, la sua sensibilità, ma non certo il suo sesso. Eppure a me accadeva proprio di essere paragonata solo a pianiste donne, come fosse impensabile un confronto con un uomo. Come ne è uscita? Con tre ricette. Uno, considerare la musica un gioco, una passione. Due, studiando perché mi apprezzassero e stimassero per quello che facevo, imparando adagio adagio pure a farmi rispettare. Tre, andando all’estero. Però il problema del maschilismo nella musica jazz è più attorno all’ambiente, che dentro. Ovvero? Con i colleghi non ho mai avuto problemi, neppure quando ho fatto il salto di qualità diventando solista e leader di formazione. Erano alcuni manager che non volevano il mio nome in evidenza «perché il jazz è uomo». È un problema culturale. Un problema che all’estero si percepisce meno? Io ho vissuto e studiato in Svezia e Francia, fatto tour ovunque… È diverso, sì. Specie nel Nord Europa, dipende proprio da una più alta considerazione delle donne. Là infatti ci sono più musiciste, e le donne avvicinano strumenti che da noi sono “maschili”. Ma comporre al femminile è diverso che al maschile? Sicuramente: nella misura in cui esprime chi siamo, le nostre emozioni, i nostri percorsi. Però non è per nulla un fatto di essere più o meno bravi od adatti. Oggi la situazione le sembra diversa, per le ragazze? Resta difficile soprattutto affermarti, se non sei cantante. Si sottovaluta la meritocrazia. Io credo che le quote rosa nel jazz farebbero bene, ma a patto di non esagerare. Un gruppo di sole donne ha senso se sanno suonare… Bisogna partire dall’educazione. Perché, giusto per spazzare via un altro pregiudizio, non è che si trascuri la famiglia, per la musica… Macché. Anche quest’estate io alterno i concerti agli spazi per mio figlio. Col trio del disco suoneremo anche in Germania, e in quel caso sarà mio marito a fare il “mammo”… Ma solo in quel caso. Fonte: www.avvenire.it |
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