Mondo Jazz
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martedì 9 ottobre 2018 alle 20.30
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Messaggi del 13/12/2011
Post n°2058 pubblicato il 13 Dicembre 2011 da pierrde
Il grande Chet che suona seduto sul davanzale della camera d’albergo. Che viene arrestato nella toilette di un’area di servizio, sulla strada per la Bussola di Focette. Henghel Gualdi che con il suo clarino e quattro accompagnatori improvvisa un concerto, la sera di Natale, sotto il carcere di Lucca, dove Chet Baker è rinchiuso, e viene subito interrotto dalle guardie. Le avventure e le disavventure di Chet Baker, tra i maggiori trombettisti jazz del secolo scorso, erano entrate da tempo nei racconti mirabolanti, magari un po’ romanzati, di chi ne era stato testimone, in quella parte di Toscana compresa tra Lucca e il mare della Versilia. Domenico Manzione, lucchese, magistrato ad Alba, a quei racconti ha aggiunto una ricerca negli archivi del tribunale locale e intorno ci ha costruito un libro, «Il mio amico Chet», appena pubblicato da Maria Pacini Fazzi Editore. «Un’idea nata quando un giorno un amico rievocò i tempi in cui i ragazzini come lui si trovavano sotto le mura per ascoltare il suono della tromba di Baker che usciva dalla cella nel carcere di San Giorgio - dice -. Il racconto mi fece venire la curiosità di vedere che cosa c’era nelle carte processuali, che ho interamente recuperato. A queste ho aggiunto la storia, verissima, dell’edicolante di Valdicastello che divenne amico del musicista detenuto, insaporita da una minima dose d’invenzione». Nell’agosto del 1960, Chet Baker, grande musicista jazz in fuga dagli Stati Uniti per problemi di droga, viene fermato nel bagno di un distributore di benzina sulla provinciale che da Lucca porta all’autostrada per Viareggio. La occupa da un’ora e mezza quando il benzinaio decide di chiamare la polizia, che abbatte la porta a spallate. Trovano una scia di sangue, una siringa, fiale di Palfium e un americano che dice di essere, da verbale, «Baker Chesney Henry». Seguono le indagini, il processo, la condanna, l’appello che arriva a fine ‘61, quando Baker ha giù scontato 16 mesi di carcere. Negli ultimi mesi gli viene concesso di esercitarsi in cella, per cinque minuti, due volte al giorno, e il suono della sua tromba si diffonde per la città come il pianto struggente di un uccello in gabbia. Di qua e di là dell’Oceano all’epoca si parlò molto e si scrisse altrettanto di queste vicissitudini tristi e molto paradossali (l’Italia allora aveva una legislazione particolarmente severa, in altri Paesi europei il Palfium era legale), ma oggi la storia sembrava un po’ dimenticata. «Una vicenda - racconta Manzione - che ci racconta un’Italia che appare lontanissima, anche se in fondo sono passati solo 50 anni. Tanta storia è passata da quelle parti, e per me, e credo per tutti i lucchesi della mia generazione, la Bussola non era tanto il jazz o Chet Baker quanto, semmai, le contestazioni del collettivo pisano che lanciava uova marce sulle pellicce delle signore, la mondanità degli Anni 60. Da magistrato, la sorpresa è stata trovare un sistema giudiziario che pareva funzionare più celermente, da un lato, e dall’altro un modo di lavorare decisamente più sbrigativo, con molte garanzie in meno per l’imputato». Come finì la storia, lo sappiamo bene. Per quanto la detenzione italiana l’avesse di fatto costretto a uscire dalla dipendenza, Baker non tornò più ai fasti degli Anni 50, quelli che l’hanno consegnato alla storia del jazz. Suonò ancora molto, e molto in Italia, e morì nel 1988 a Amsterdam, cadendo dalla finestra della stanza dell’hotel in cui alloggiava. Tutti pensarono che avesse voluto suicidarsi, ma non i lucchesi, che lo ricordano ancora, con la sua tromba, seduto sul davanzale della stanza numero 15 dell’Hotel Universo, in piazza del Giglio. (Piero Negri) Fonte: http://www3.lastampa.it/costume/sezioni/articolo/lstp/433922/
L’autore - Domenico Manzione (10 agosto 1955) è magistrato del Pubblico Ministero dal 1983. Autore di molti saggi (Il giusto processo, Molano 2001; Il mandato di arresto europeo, Torino 2008), è alla sua seconda esperienza narrativa. Per Maria pacini Fazzi ha pubblicato il suo primo romanzo giallo “Lost Dog” (2009). |
Post n°2057 pubblicato il 13 Dicembre 2011 da pierrde
D Dopo una lunga gavetta nei club, Dunlop ha trovato la fama a 85 anni. È stato "scoperto" mentre suonava uno strumento stonato in un ricovero. Incantava gli altri ospiti della casa di riposo provando accordi su un vecchio Packard. Ora ha inciso il suo primo cd e sabato si è esibito nel Delaware con uno Steinway a coda. I due relitti della vita s´incontrarono per caso nella caffetteria di una casa di riposo dove erano andati a morire, il vecchio piano stonato e il vecchio pianista sdentato. Non sapevano che sarebbe risorti insieme. Erano arrivati al capolinea della loro vita, Boyd Lee Dunlop, il "blues man", il jazzista di Buffalo che aveva suonato per i club migliori e per i soldati in guerra, e il piccolo piano verticale che aveva conosciuto giorni di gloria nella casa di una famiglia borghese per le lezioni di piano ai figli, prima di precipitare. Poi il pianista era affondato nell´oceano della vecchiaia e della memoria, in una deriva che lo aveva portato nella casa di riposo per indigenti del Delaware. Il piano, un Packard, era ruzzolato tra svendite e donazioni per beneficenza, perdendo per strada denti d´avorio e dimenticando le proprie sonorità fino alla stessa mensa dove Boyd "The Blues Man" biascicava le minestrine di riso e pollo, aspettando le punture di insulina per il suo diabete. Fino a quando, più che il tempo poté la voglia e Boyd provò a rimettere le mani artritiche sopra quello che restava della tastiera. E l´inspiegabile miracolo della musica avvenne. Era un anno fa circa, nessuno ricorda bene niente in quella casa di riposo, né le cose né le persone, quando gli altri ospiti cominciarono a sentire gli accordi e le improvvisazioni diffondersi nella Casa. «Quando ero giovane sapevo suonare tutto e vincevo scommesse contro gli avventori dei club che nominavano 50 pezzi sicuri che non li avrei potuti eseguire», ride adesso il pianista nell´ospizio. Lavorando tra i tasti rotti, i martelletti logori e le corde allentate, Boyd scoprì che qualche armonia ancora riusciva a spremerla da quegli strumenti danneggiati, le mani e il piano. Gli veniva bene Torna a Surriento, non proprio una colonna del jazz pianistico da Thelonious Monk o da Fats Waller, ma gli accordi e la variazioni funzionavano. Agli ospiti, perduti nella loro minestrina di pollo e nel purè di patate, piaceva. Piacque, e moltissimo, anche a un fotografo che cercava di vendere servizi al New York Times ed era andato in giro per la case di riposo per poveri su e giù per la costa dell´Atlantico, dunque anche nel Delaware, che da Manhattan dista un´ora e mezzo di treno. Di musica, di jazz, e di celebri chitarronate come Torna a Surriento, Brendan Bannon non sapeva nulla, ma il suono di quel piano scordato che riempiva la desolata sala mensa dell´ospizio, tra odori di pollame e di disinfettanti, lo investì come un´onda anomala. Volle conoscere la storia del vecchio afroamericano diabetico di 85 anni, che saltabeccava curvo tra i tasti rotti per strappare qualche suono coerente. Scoprì che Boyd aveva avuto un passato di gloria nei jazz club di Buffalo, al nord dello stato di New York. Che aveva inciso 33 giri con il proprio gruppo ed era considerato una stella nel cielo della "Colored Jazz Music", richiestissimo nelle chiese, nei matrimoni di lusso, nei night, nei teatri. I grandi del piano jazz erano andati ad ascoltarlo e gli avevano offerto di andare in concerto e in tournée con loro. Ma Boyd era rimasto fedele alla sua gelida Buffalo e al Grande Nord, dove per la prima volta, da bambino, aveva messo le mani su una tastiera, scoprendo che negli 88 tasti in bianco e nero c´era la sua vita. La madre, domestica di notte e operaia di giorno, gli aveva proibito di portare in casa un vecchio pianino sgangherato da mercato delle pulci («sporco e ingombrante» era stata la sentenza finale) ma lui, bazzicando sacrestie e circoli del dopo lavoro aveva imparato a leggere la musica e a muovere le dita su un vecchio, classico manuale di esercizi per principianti, lo Czerny, delizia e soprattutto croce degli aspiranti pianisti. Era stato reclutato dalla US Army nel 1941, ma anziché sparare, l´Esercito gli aveva chiesto di suonare. Ma nel dopoguerra, dopo una fiammata negli Anni ´50 e primi ´60, Boyd si era spento. I jazz club si erano rarefatti. Gli armonium e gli organi della chiese erano stati sostituiti da melodie e armonie sintetiche, meno costose. E lui era scivolato giù dal Nord verso quell´unico ospizio per la vecchiaia, nel Delaware, che la sua assicurazione fosse disposta a pagare. È stato il fotografo, che è riuscito a vendere il proprio servizio al New York Times (doppio miracolo del pianoforte) a registrare con un telefonino la musica di Boyd. A scaricarla per un amico produttore di cd che, ascoltandola, sobbalzò e disse: «Ma questa musica vive, chi è questo che riesce a far vivere un piano così scassato?». I manager della casa di riposo ebbero l´idea di organizzare una vendita per beneficenza di cheesecake sfornate dagli ospiti per pagare Vinny Tagliarino, un famoso accordatore cieco che lavorò per giorni e riuscì a rianimare quello strumento in agonia. Ora ha registrato il suo primo cd, Boyd´s Blues insieme con due vecchietti come lui, ripescati dal "Colored Jazz Club" che ancora esiste a Buffalo e sabato scorso 10 dicembre ha dato il suo primo concerto a pagamento, 10 dollari per l´ingresso. Ha suonato sopra uno Steinway a coda, il pianoforte dei grandi, sorridendo come un bambino fortunato a Natale quando ci ha messo le mani sopra e ascoltato le sonorità che da quello strumento riusciva a ottenere. Il pianino dell´ospizio è rimasto nella mensa ad aspettarlo, perché i pianoforti non sono gelosi, quando anche questa fiammata si spegnerà e Boyd tornerà da lui, non a "Surriento", purtroppo, ma nel Delaware. Vittorio Zucconi, La Repubblica, 12/12/2011 Fonte: wwwmicciacorta.it |
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