Creato da pierrde il 17/12/2005

Mondo Jazz

Il Jazz da Armstrong a Zorn. Notizie, recensioni, personaggi, immagini, suoni e video.

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martedì 9 ottobre 2018 alle 20.30

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JAZZ & WINE OF PEACE

Pipe Dream

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trombone, Filippo Vignato

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batteria, Zeno De Rossi

Registrato il 26 ottobre 2017 a Villa Attems, Lucinico (GO)



 

 

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Messaggi del 14/05/2013

RUMORE

Post n°2806 pubblicato il 14 Maggio 2013 da pierrde

La musica non è altro che rumore, finchè non raggiunge una mente in grado di riceverla.

Paul Hindemith

 
 
 

SIDNEY BECHET

Post n°2805 pubblicato il 14 Maggio 2013 da pierrde

Per una combinazione curiosa di date oggi è sia l'anniversario di nascita (14.05.1897 New Orleans) che di morte (14.05.1959 Garches) di Sidney Bechet, un musicista temporalmente a noi lontano ma della cui importanza sono pieni i testi sulla nostra musica. Riprendo da Wikipedia proprio il capitolo che si intitola L'importanza di Bechet nello sviluppo del linguaggio solistico nel jazz:

L'ipotesi della posizione centrale di Bechet nello sviluppo del solismo jazz è stata avanzata dal suo maggiore biografo, John Chilton. È possibile che la portata del contributo di Bechet possa apparire oggi meno evidente, e sia giudicata minore rispetto a quella di Louis Armstrong. Questo per alcuni motivi. Il primo è che Bechet incise poco negli anni venti, che sono gli anni in cui più sarebbe stata avvertibile non solo la portata della sua originalità, ma soprattutto la grandezza del dislivello tra lui e tutti gli altri musicisti che per primi svilupparono l'arte dell'improvvisazione jazzistica (con l'unica eccezione, naturalmente, di Louis Armstrong).

 Infatti Bechet incide abbondantemente con Clarence Williams per appena due anni, dal 1923 al 1925, dopodiché va in Europa e ci rimane per 4 anni, rimanendo lontano dalla scena musicale americana. Invece Louis Armstrong, l'altro grande iniziatore del linguaggio solistico nel jazz, rimane negli Stati Uniti e incide la serie d'oro degli Hot Five e degli Hot Seven. Quando, agli inizi degli anni trenta, Bechet torna negli Stati Uniti il suo stile è, se possibile, ancora più maturo ed espressivo che negli anni venti, ma il dislivello tecnico ed espressivo tra lui e le nuove leve è diminuito, quasi colmato. Per esempio, cinque anni prima Coleman Hawkins non sarebbe ancora stato in grado di articolare un vero e proprio assolo jazz e non avrebbe retto il confronto con Bechet.

 Cinque anni dopo non è più così: Hawkins è in grado di non sfigurare. Insomma, agli inizi degli anni trenta molti musicisti di Chicago e di New York hanno ormai assorbito la lezione di Bechet e di Armstrong e combattono ad armi pari. Diventa quindi meno facile capire che Bechet è stato uno dei padri dell'assolo jazz. Un secondo motivo è che Bechet è un solista ma non un leader. Egli non organizza intorno a sé un gruppo di seguaci e di accoliti, come fece Armstrong e come faranno Gillespie e Parker. Non sa mettersi alla testa di un movimento musicale, ma mantiene una posizione laterale. Le sue incisioni sono più occasionali.

Un'altra occasione che diede modo a Bechet di esercitare una influenza profonda sugli sviluppi successivi del jazz fu la collaborazione con la prima orchestra di Duke Ellington, i Duke Ellington's Washingtonians. Sfortunatamente non incise mai con quella orchestra. Nell'orchestra di Ellington Bechet incontrò l'allora giovane ma già promettente Johnny Hodges, destinato a diventare uno dei più grandi solisti di sax alto della storia del jazz. Lo stile di Hodges fu potentemente influenzato da Bechet, e ne adottò la sonorità sontuosa e il fraseggio barocco e decorativo. Ma non basta. Lo stesso Ellington fu influenzato da Bechet, in termini di swing, fraseggio e sonorità. È plausibile che come Fletcher Henderson apprese il linguaggio ritmico del jazz durante il passaggio di Louis Armstrong nella sua orchestra, lo stesso potrebbe essere accaduto ad Ellington con Bechet.

Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Sidney_Bechet

 
 
 

VINCENZA ALL'INSEGNA DI THREADGILL

Post n°2804 pubblicato il 14 Maggio 2013 da pierrde

Giorni fa parlando di festival esprimevo la mia condivisione piena per la scelta di Riccardo Brazzale, direttore artistico di Vicenza jazz, di invitare Henry Threadgill ed il suo gruppo. Nonostante si tratti di un nome da molti anni sulla breccia Threadgill rappresenta a tutt'oggi una delle espressioni più avanzate all'interno della comunità jazzistica americana, e per di più è tutt'altro che facile vederlo ed ascoltarlo all'interno dei grandi festival italiani (e non solo). 

Ma come è andata ? Per me purtroppo Vicenza è lontana e gli impegni di lavoro me la rendono irrangiungibile. Ecco allora la recensione di Paolo Carradori, che conferma e conforta in pieno la mia ammirazione per il sassofonista:

Prima serata, subito un dubbio. Di più, purtroppo: una confermata certezza. Come si fa a programmare in due set Threadgill & Zooid e il trio Mintzer-Abercrombie-Vitous? Affiancare uno degli aspetti più avanzati della contemporaneità del jazz con tre “vecchi” leoni che per sentirsi vivi rileggono standard? La teoria del contrasto forte non funziona, almeno in questo caso. Limitare lo spazio creativo a Threadgill non è solo un peccato assoluto, ma una scelta penalizzante per chiunque debba salire sul palco dopo di lui, e questo è successo.
Zooid è una vera miniera di emozioni. I temi danzanti di Threadgill ancora più prosciugati, rigorosi. Formazione stratosferica per capacità creative coniugate ad una filosofia musicale che da anni rappresenta uno dei lidi più fascinosi della musica afroamericana. Ance e flauti (Henry Threadgill), chitarra (Liberty Elman), trombone e tuba (Jose Davila), violoncello (Christopher Hoffman), batteria (Elliot Kavee); band strumentalmente non ortodossa, contenitore di sapori, colori, ritmi, guizzi astratti, dove tempi sospesi, atonalità, tracce etniche e marce producono un turbinio di interferenze: dall’avanguardia allo swing degli anni duemila. Threadgill nasconde il centro della musica, sovrappone strati sonori, concede pochi pregevoli interventi strumentali, come per dire che basta un tocco, un segno come autografo sul proprio lavoro compositivo. Musica che pulsa in modo circolare sprigionando energia soprattutto dopo gli stop sbilenchi, quando il silenzio amplifica nello spazio sonoro tutti i materiali elaborati.

Proprio mentre ci godiamo questi riverberi arrivano sul palco tre signori che pensano di stare in un jazz club e di conseguenza si comportano. Ci riportano con i piedi per terra (in realtà stavamo molto bene lassù in alto). Trio: Bob Mintzer (sax), John Abercrombie (chitarra), Miroslav Vitous (contrabbasso). Storie importanti, musicisti che hanno segnato con percorsi diversi il jazz degli ultimi decenni. Storie che i tre però rischiano abbondantemente di buttare via con un set incolore, piatto, da pensionati del jazz. Qualche piccolo lampo all’inizio, poi ognuno va per la propria strada farcita di luoghi comuni, interplay zero. Gli standard sono cose serie, è legittimo suonarli, rileggerli, attualizzarli, ma soprattutto rispettarli come capisaldi dell’estetica jazzistica. Vitous cerca di mettere in gioco un po’ di energia rimasta nell’aria, ma il suono del mini contrabbasso con pedale, soprattutto con l’archetto, è, a dir poco, indecente. Resta il dubbio sulla penalizzazione del dopo Zooid, ma anche la certezza che i tre si sarebbero fatti male anche soli.

Fonte: http://www.giornaledellamusica.it/blog/?b=374

 
 
 
 

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