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Per quanto possano servire le mie parole ti indico il punto esatto in cui sono state sepolte.
Ti ricordi le notti insonni passate a ridere nelle nostre stanze? E i racconti di quell’altro io cancellato anzitempo? Ricordi la piazza dove ci siamo scambiati il primo bacio? Pioveva e c’era freddo e tu mi accogliesti sotto il tuo ombrello non curandoti dei commenti dei presenti assenti. Ricordi ancora quelle parole scritte, non dette, baciate, immaginate con il desiderio segreto degli amanti?
Se tu le dovessi ritrovare nei ricordi andati a male o dentro il cuore del prossimo temporale fanne buon uso, non le bruciare per scaldare ciò che resta di noi due insieme.
Oramai il tempo stringe, manca poco alla fine. Da questa finestra aperta sul mondo giunge il profumo della tua rabbia e tutto in me s’acqueta. Il dolore muta forma e diventa gioia per un infinito istante.
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Meticolosamente, il dolore muta corpo senza sosta
e si ostina incessantemente a scorrere la sua lista
piena di occhi e di pensieri che non hanno nome
che lui, ineluttabile mano, segna ad uno ad uno
con gesto tanto lento da sembrare volersi soffermare
su ognuno ancora per un interminabile momento.
Così il dolore accede alla nostra vita
senza mai bussare alla porta, senza chiedere permesso
e quando dentro si ritrova, ospite indesiderato,
non si cura di essere cortese o di mostrarsi cordiale
come ladro mette a soqquadro ogni nascondiglio
sapendo di offendere e di far male
a chi è solo e non lo può affrontare.
E' nella solitudine degli uomini che lui fa breccia
nutrendosi della loro paura fino alla loro resa.
Chi ha provato a guardarlo in faccia con impavida sfida
aveva qualcosa da difendere oltremodo,
qualcosa che valesse tutte le lacrime del mondo:
una piccola gioia nascosta fra le pieghe della vita
apparentemente fragile e leggera come foglia
che in autunno se ne sta in bilico ingiallita.
Eppure ne vale la pena conservarla addosso,
sentirla respirare dentro il nostro silenzio
quella gioia che non è stata mai adulta.
E che sia brezza quel respiro lo rivela l'onda
che culla questa nave alla rada,
questo uomo immobile in una stanza
dentro cui non ci sono vele, nè timone né remi
che possano colmare fra i giorni le distanze
e tutti gli attimi di vita passati insieme,
scie non più spumeggianti che si spengono
divenendo nuovamente acqua e sale.
Rimane allora dietro ogni passo della fragorosa chiglia
quel lieve ricamo marino e il bisbiglioso silenzio
che cuce la ferita dopo il taglio e l'affondo
che ogni nave e ogni corpo fa alla propria vita,
rimane sempre dentro noi
la memoria di una gioia mai sfiorita.
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“Certi cambiamenti del corpo mi fanno pensare a quelle vie che percorri da anni. Un bel giorno un negozio chiude, l’insegna è scomparsa, il locale è vuoto, c’è un cartello affittasi, e ti domandi cosa c’era prima, cioè la settimana scorsa.” (tratto da Storia di un corpo di D. Pennac)
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All'inizio del viaggio ogni relazione con l'altro sembrava improntata al riconoscimento dell'altro come un estraneo, un territorio da conquistare.
Si, perché in tutti viaggi di andata l'uomo tende subito a riconoscere l'estraneo per comprenderlo e trascinarlo a sé, poiché la cultura del viaggiatore è quella di sopravvivere al viaggio della conoscenza del mondo attraverso la trasparenza della relazione con gli altri, immaginati quasi sempre come territorio definito per i limiti che bisogna difendere o estendere.
Poi impari lontano dalle tue sicurezze che la relazione tra gli uomini è qualcosa di diverso e di meno trasparente.
La relazione, in effetti, è più opaca e ogni esistenza ha un fondo complesso e oscuro, che non può e non deve essere indagato a tutti i costi alla ricerca di una pretesa conoscenza totale.
Impari piano il dettato che ti sussurra ogni esistenza. Ognuno ha diritto alla sua opacità.
Bisogna vivere con l'altro e amarlo, accettando di non essere compreso totalmente e di non comprendere totalmente l'altro.
Così si torna indietro dopo tempo a casa e ci si accorge che, nel frattempo, si è diventati terra, prototipi di uomini trasformati dall'incontro di culture differenti.
Una terra da vivere senza alcun limite da difendere o da estendere.
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Disordinato. Nulla ritorna al suo posto.
Nè il corpo, nè l'anima, nè gli occhiali maledetti.
Che poi l'anima è una fetta immaginaria di millefoglie che mordi.... mordi in continuazione per il solo piacere di nutrire l'immaginazione.
Disordinato. Senza un nome nuovo addosso battezzato dalla ragione. Soli nomi di sogni... di sogni come contorno, sogni mai consumati o spenti.
Disordinato. Come se non esistessero più barriere e confini alle mie azioni.
Disordinato. Libero finalmente di non ricordare. Libero di confondermi e di invecchiare senza dovere a tutti i costi giustificare la confusione dei miei ultimi racconti.
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