RUGIADA

LUCE D'ERBA

 

 

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QUATTORDICIANNI

Post n°49 pubblicato il 20 Gennaio 2008 da aidanred
Foto di aidanred

L’estate dei miei quattordici anni fu calda di sole, dissetata da granite al limone fatte in casa con il ghiaccio racchiuso in un asciugamano e frantumato col batticarne;  movimentata dai giri in bicicletta, su e in giù per il paese ad inseguire chi non aveva notato che mi ero  tolta i calzettoni e che anch’io portavo il reggiseno. Ancora sciocca ed infantile, mi infatuavo sempre di quello sbagliato, che aveva già perso la testa per qualcun'altra, come quell’antipatica con la coda di cavallo che era venuta ad abitare da poco nel nuovo quartiere di villette a mattoncini rossi, e che si dava pure tante arie!

Allora ci avevo pianto di rabbia quando lo avevo visto in gelateria con lei, e per non incontrarlo cambiavo il mio percorso in bicicletta. ‘Peggio per lui – pensai - quando si accorgerà di me sarà troppo tardi ed io chissà dove sarò…’ Pensieri disarmanti e consolatori, per non soffrire, perché a quattordici anni l’amore è una fitta lacerante che ti mozza il fiato e ti fa sentire inutile.

Fortunatamente erano dolori intensi che si asciugano in fretta quanto le pozzanghere di un temporale estivo al ritorno del sole. Nel momento della tristezza spuntava magicamente un altro ‘lui’ che appariva all’orizzonte; tu non l’avevi notato prima, ma ora brillava come un miraggio e il tuo percorso in bicicletta cercava nuove vie. Il parco in cui non eri mai entrata in precedenza adesso si vestiva di un verde invitante e quella panchina laggiù, sotto il pioppo, diventava una comoda poltrona, messa lì al punto giusto per vedere lui, ancora in attesa di essere notata…

Finché… Chi l’avrebbe mai detto, io non me lo  aspettavo davvero, ma fu proprio quell’estate che ci fu chi per la prima volta si accorse di me. E mi bastò un sorriso e la sua mano sulla spalla per capire che il salto l’avevo fatto, non ero più una bambina e forse qualcosa di carino stava crescendo anche in me.

Fu alla fine d’agosto che mia cugina, l’unica ricca di tutta la nostra parentela dato che aveva sposato un buon partito, mi invitò a trascorrere le vacanze al lago nella sua casa di Manerba. Ero entusiasta, direi di più - felice! Io al lago c’ero stata solo con mia sorella Vergi, ma erano trascorsi alcuni anni da allora, e poi fu per un giorno solo e non ebbi neppure il tempo di indossare il costume da bagno. Ricordo che mangiammo, sedute su una panchina, un misero panino e nient’altro, perché ci rimanevano solo i soldi per riprendere il pullman.

Ora invece mia cugina mi offriva una vacanza di due settimane in un luogo di villeggiatura, ospite nella sua villa a cento metri dalla spiaggia. Sarei stata pronta a fare qualsiasi cosa pur di vivere quella nuova esperienza, sognavo di incontrare ragazzi della mia età e stringere fantastiche amicizie, e così fu, le mie speranze non furono disattese.

Nella villetta accanto a quella di mia cugina abitava una famiglia con dei figli un po’ più grandi di me, e tra questi una ragazza assai carina che attirava corteggiatori come le api sui fiori. I giovani non faticano a conoscersi e le amicizie nascono in codici di intesa, in sorrisi o sulle note di una canzone.

Ricordo ancora il motivo più gettonato di quell’estate, diceva così: ‘Dio è morto/..la mia generazione più non crede/a un mondo nuovo e ad una speranza senza fede/..Dio è morto/in stanze da pastiglia trasformate…’ La cantavamo, e chi ne sapeva più di me mi convinceva che il suo messaggio era importante, coraggioso, contro un mondo di ipocriti che noi, della nostra generazione, avremmo cambiato… E infatti, alla fine, dopo un elenco di buoni propositi, era la stessa voce a concludere che ‘Dio è risorto’.

            “Cosa ‘l voel dì ‘in stanse da pastiglie trasformate’? E poi ‘Dio è morto’? Dio non si tocca! Gh’al mia ‘ergògna a bestemmià en de na cansù!” – la zia, madre di mia cugina e patita del bel canto, gridava allo scandalo, e proprio non riusciva a capire quali pastiglie prendesse il cantante di quella canzone che sentiva suonare nel juke-box del bar all’angolo della strada che portava in spiaggia. Ma nessuno di loro si prendeva la briga di ascoltarla fino in fondo…

A me la canzone piaceva, l’avevo imparata subito e quel Dio che era morto mi ricordava tanto la decisione che avevo preso di non andare più al catechismo. Forse ero sulla strada buona, qualcosa in comune con quei giovani più grandi di me ce l’avevo, anche se devo ammettere che mi ci vollero degli anni prima di comprendere cosa fossero le ‘stanze da pastiglie trasformate’.

Al bar dell’angolo, dove gli occhi all’orizzonte si tuffavano nel lago, io trascorsi gran parte del tempo libero che mia cugina mi concedeva per stare con i giovani delle villette accanto alla sua. Dalla vivace compagnia io ero ansiosa di apprendere tutto ciò che potevo e cercavo di non perdermi nulla dei loro discorsi, attenta ad ogni battuta scherzosa, pronta a cogliere anche solo un sorriso, magari un atteggiamento da imitare.

 Erano per la maggior parte figli della borghesia bene, pensavano solo come organizzare le feste e in quale locale trascorrere la serata. Si vestivano tutti allo stesso modo: i maschi in calzoni blu e polo bianche, le ragazze in minigonna o calzoni corti con magliette attillate.

Io venivo dalla provincia, e della moda di quell’estate ne sapevo ben poco. Quando mi chiedevano di preciso dove fosse la mia casa, imbarazzata rispondevo: “Arrivati in centro al paese si prende una lunga strada a destra, in fondo, superato il Villaggio..., si gira a sinistra… Lì, tra i campi e la montagna, abito io.” Nessuno capiva, manco abitassi in capo al mondo. Essi mi indicavano dov’erano la via Panoramica, viale Venezia, corso Magenta.., era lì dove erano cresciuti, e dalle loro descrizioni pensavo che abitare in città fosse sinonimo di ricchezza, dell’essere alla moda, di saperne di più e di avere sempre ragione.

Lui, e non so esprimermi in altro modo perché il suo nome l’ho dimenticato, si avvicinò e mi chiese se quella sera mi fossi unita al gruppo che aveva organizzato di andare a ballare al ‘Fungo’, un curioso locale in riva al lago. Era il primo invito che ricevevo, e chi me lo rivolgeva non era un mio coetaneo, ma un ragazzo non male, con qualche anno più di me, una persona importante ai miei occhi di quattordicenne alla sua prima uscita serale nel dancing più frequentato del Garda.

  Mi saltò in alto il cuore, e per alcuni minuti non trovai una risposta. “Fatti trovare qui alle nove, ci spostiamo con tre macchine. Se preferisci vengo da tua cugina e le chiedo di lasciarti uscire stasera..” – ‘Sarebbe meglio’, pensai fra me, e così fu. Ebbi il permesso di uscire e quella fu una serata da non dimenticare. 

Per l’occasione indossai il minipool verde di lanetta morbida che si chiudeva in una scollatura a ‘V’ e metteva in risalto la rotondità del seno, unico elemento marcato della mia crescita che potesse destare desiderio nell’altro sesso. Minipool verde e calzoni lunghi rossi di vellutino rigato: un abbinamento vivace, non c’è che dire!

Mi guardai e riguardai nello specchio non so quante volte; mia cugina mi lasciava fare, e zittiva la zia che a bassa voce le consigliava di non lasciarmi uscire perché ero troppo giovane e andare in macchina di sera poteva essere pericoloso. Quei ragazzi avevano vent’anni ed io ero poco più di una bambina. Se l’avessero saputo i miei genitori non avrebbero approvato. Le mie serate estive le trascorrevo solitamente a giocare a nascondino, con i vicini di casa o in giro per il paese, in sella all’inseparabile bicicletta. Quella sera al lago io facevo il mio ingresso nel mondo della notte, in cui i giovani si impossessano dei loro spazi e si sentono padroni del mondo.

Mi ero pettinata il caschetto di capelli neri alla Caterina Caselli e mi vergognavo come una matta di avere solo quattordici anni. Cosa avrei detto, cosa avrei fatto? Perché mi sentivo così deficiente? Perché gli altri dovevano necessariamente essere più bravi, più intelligenti, più sicuri di sé?

Betti ci sapeva fare con i ragazzi, si truccava e si vestiva in modo a dir poco perfetto. Uscì di casa con qualche minuto di ritardo; indossava una minigonna bianca strepitosa e calzava dei sandali dorati con il tacco a spillo. Così bionda e abbronzata io la trovavo bellissima e non sbagliavo, perché tutti la corteggiavano. La osservavo invidiosa e pensavo che non sarei mai stata come lei, che aveva imparato le regole del gioco.

Quando scesi in giardino sentii il vociare dei ragazzi e il rombo dei motori delle automobili pronte a partire. Per un lungo attimo pensai: ‘Vedrai che lui si dimenticherà di passare a prendermi!’. Non fu così, mi vide e mi chiamò con la mano, poi aggiunse: “Tutto bene?”

Trovai posto sul sedile posteriore di una cinquecento,  tra altre due ragazze più grandi di me che non conoscevo, ma non era importante sapere chi fossero, ed io non lo ero certo per loro. Durante il percorso risero starnazzando come galline, questo lo ricordo ancora.

Scelsi di guardare fuori dal finestrino e pensai:   ‘Incominciamo bene!’. Dall’autoradio si sentiva la voce di Battisti che cantava “Balla Linda/balla come sai,/balla Linda/ non fermarti mai”. Le sentivo mie quelle parole, e mi convincevo che sarebbero state di buon augurio. Emozioni grandi che solo in quegli anni di continue scoperte ti esplodono dentro, ed è luce, calore, energia vibrante che ti attraversa, e tu diventi albero, rami, foglie che si nutrono di ogni goccia di linfa di vita.

Di quella serata alcune immagini si sono perse sulla strada del passato, altre le vedo sempre più nitide, come se mi corressero incontro per farsi notare. Me ne stavo sui gradini della scala d’ingresso alla balera; i giovani avevano l’abitudine  di portarsi fuori da bere, per chiacchierare o fumarsi una sigaretta. Dentro faceva caldo e, dopo aver ballato, il fresco della sera estiva permetteva di riprendere fiato. 

Lui mi portò un bicchiere di lemonsoda e si sedette vicino a me. Mi strinsi su quel gradino per fargli posto e sentii di colpo i muscoli della schiena irrigidirsi e contrarsi. ‘Non importa!’ – pensai, io lì dovevo per forza star bene, e non era quello il momento di fare la cretina.

Ora non potrei che sorridere del suo sguardo e della sua mano appoggiata sulla mia spalla rigida, ma allora quella mano fu una carezza immobile che mi tolse il respiro e mi fece illudere di appartenere in quel momento a qualcuno che mi aveva notata, scelta tra le altre, e che si interessava di me e non delle due galline ridanciane. Brividi di imbarazzo mi scivolavano giù lungo la schiena, vampate di fuoco mi salivano dal collo su per il viso, e nessuno si accorse di quanto fossi infantile. Meglio così.

I Dalton cantavano ‘Monia’, indimenticabile lento della nostra generazione, ed io non potevo pretendere di più. Quella sera rappresentò il grande salto, uscivo senza rimpianti e chiudevo velocemente la porta del mondo di bambina. Ora stava a me spalancare gli occhi alle nuove scoperte che mi avrebbero atteso sul cammino dell’adolescenza.

 

‘L’estate segna la vita degli esseri umani di ricordi indelebili. Le notti insonni in luci di lune piene accarezzano i corpi di chi non vorrebbe dormire, ma vivere fino in fondo l'incanto di un magico incontro… Sorridimi notte d’estate! Portami l’alba su di un vassoio dorato, perché domani sarà un nuovo giorno in cui cullerò i sospiri del cuore.’ 

Un anno solo era trascorso dalla mia ultima estate consumata sulle strade del quartiere a succhiare ghiaccioli alla menta, seduta con le gambe penzoloni sul muro del ponte sul Garza a ridere di nulla con le amiche di sempre, in compagnia di nuovi sogni e di speranze lontane.

“E’ caduta una stella, l’ho vista!”

“Dai, esprimi un desiderio.”

“Dovrà essere biondo e con gli occhi azzurri.”

“Chi?”

“Il mio amore!”

“Io lo vorrei moro, abbronzato e con gli occhi neri.”

“Mi fate ridere, non sapete pensare ad altro? Domani piuttosto, che ne dite, andiamo tutte in piscina?”

“Alle due, all’inizio del primo turno, così l’acqua è ancora pulita.”

“Va bene!”

Era tutto ciò che potevamo sperare d’avere: un ghiacciolo, un bagno in piscina e un incontro speciale.

Un solo anno era trascorso e quel che ero lo avevo scordato, la ragazzina d’allora era lì nell’immagine fissa di una fotografia in bianco e nero scattata da chi non ricordo. Era passato un anno lungo un’eternità, e lo avevo scordato, annegato in un bicchiere di lemonsoda con ghiaccio a cubetti, sorseggiato sui gradini di una discoteca di Manerba, in una delle ultime calde notti che ci concedeva l’estate. Il minipool verde mi accompagnò spesso nelle prime importanti uscite serali e divenne il mio portafortuna.

 
 
 
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Data di creazione: 21/10/2007
 

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