RUGIADA

LUCE D'ERBA

 

 

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DA "Fermami il tempo" alcuni passi del III° capitolo

Post n°57 pubblicato il 11 Marzo 2008 da aidanred
Foto di aidanred

 

                                       

 

- Rita, la chiameremo come Santa Rita Da Cascia, sarà la sua protettrice, vero Rita, Ritì?

Faceva molto caldo quel pomeriggio d’estate, la città era deserta, molti erano partiti col tram per raggiungere il lago o si erano incamminati su per i sentieri dei Ronchi a cercare un po’ di frescura.

Di domenica   sarebbe stato difficile trovare una levatrice disponibile e mia madre lanciava urla di dolore nel trattenere le spinte del mio voler uscire alla vita.

Mio padre aveva lasciato il laboratorio e dal piano di sotto, alle grida di Fernanda, era salito su per la scala, di corsa, superando i gradini, due a due. Trafelato, s’era buttato in camera sul letto di mamma  e le diceva di resistere che la Nina stava tornando, avrebbe portato con sé la signora Giovanna e tutto sarebbe andato per il meglio.

Chiuse le ante e si asciugò il sudore salato di  quella estenuante tensione.

La paura gli colava in grandi goccioloni caldi giù dal colletto bianco inamidato.

 - Pochi minuti ancora, forza! – le ripeteva  con dolcezza,

ma mia madre non seppe aspettare ed io nemmeno.

In un urlo più forte le scivolai tra le gambe. 

Ero venuta al mondo così, da sola, con la bocca spalancata di pianto: volevo farmi sentire.

- E’ nata, é nata, qualcuno mi dia una mano, mi aiuti, non so cosa fare!

Fernanda, figlia del cugino Antonio, era poco più di una bambina, quando era venuta a vivere da noi. Mia mamma  incinta  doveva essere alleggerita dal peso dei lavori domestici e  lei le dava una mano, ma in quel momento  era più impacciata di mio padre.

Nessuno le aveva spiegato il modo in cui nascevano i bambini e quando io scivolai fuori come un pesce avvolto da un liquido gelatinoso, restò immobile, spalancò gli occhi e la bocca e fece cadere sul pavimento i panni bianchi del fasciatoio.

Per lunghi giorni non seppe proferire parola e continuò ad aggirarsi per la casa come un fantasma.

Nei mesi a venire imparò ad osservarmi, ma mai troppo da vicino, come se io fossi una creatura diversa, un essere speciale. 

La levatrice era giunta in tempo per staccarmi dal ventre di mia madre e per esclamare:

- E’ una femmina dalla voce acuta di soprano.

 

Per la festa del battesimo mio padre scelse stoffe di pizzo e tulle sottile, perché voleva che il suo angioletto si presentasse al fonte con un abitino bellissimo: la sua Ritina doveva apparire la bimba più elegante del mondo.

Dalla campagna, la nonna giunse in calesse con panieri pieni di dolci fatti in casa, galline nostrane, bottiglie di vino dolce e pane bianco avvolto in tovaglioli di lino, perché arrivasse fragrante sulla tavola della mia festa.

Mi portarono in chiesa sul calesse del fattore che aveva accompagnato la nonna, e mio padre durante il percorso mi riparò dal sole sotto un ombrellino bianco.

 

La nonna, nel raccontarmi i miei primi mesi di vita, si soffermava a descrivere alcuni particolari, che nel corso del tempo rimasero ben impressi nella mia memoria. Ella si ricordava che quel giorno in chiesa c’era fresco e si respirava un tenue profumo d’incenso e che

davanti al fonte battesimale, accanto a lei, si riunirono in cerchio  mamma, papà, la Fernanda, il fattore e, dietro di loro, la Nina. Io aspettavo assonnata in braccio alla madrina, cugina di secondo grado della mamma, che viveva poco distante da noi, in città.

Lo disse a tutti che io ero la sua figlioccia e mi promise grandi eredità............sposò, non più giovane, un carabiniere.  Dopo il matrimonio lui fu trasferito in bassa Italia in un paese dal nome strano: Montelupino.

Io mi ricordavo di loro a Natale, perché ci arrivava per posta un pacco di dolci di pasta di mandorle, incartati uno ad uno con fogli di carta trasparente e stropicciata che, per golosità, mangiavo di nascosto dalla mamma.

 

Quando il prete mi versò l’acqua battesimale sulla fronte, bagnò i miei primi riccioli biondi ed io mi risvegliai in un pianto tanto acuto che anche gli altri bimbi battesimati mi risposero in coro.

Il pianto dei neonati fu talmente forte che chi era rimasto fuori dalla chiesa ad aspettare la fine della cerimonia, entrò di corsa, allarmato, chiedendosi cosa stesse accadendo.

Così la mia prima apparizione in pubblico, in un luogo sacro, lasciò un timoroso ricordo al povero prete che, negli anni futuri, se mi vedeva prendere posto tra i banchi della navata centrale, mi faceva cenno con la mano di sistemarmi tra le ultime file e di ripetere a bassa voce le preghiere e, sempre con toni sommessi, mi invitava a non cantare, per non offuscare l’armonia del coro.

Quanto soffrii per quei silenzi forzati e, appena potevo, a casa intonavo le laude che avevo imparato; lo facevo chiusa nel bagno e ad ogni guizzo della voce attorcigliavo tra le dita un riccio dei capelli e tiravo, tiravo forte, tanto quanto lungo doveva essere il mio gorgheggio.

 

Nella sartoria di papà ci lavorava la Nina che mi aveva vista nascere. Lei mi teneva stretta tra le sue braccia e mi accarezzava, per calmare i vocalizzi striduli dei miei pianti disperati.

Era l’unica a sopportare i toni alti della mia vocina.  Io ero il suo canarino e quando cantavo le piaceva ascoltare i miei trilli sottili.

– Ritina,  Ritina, la mia bambina canterina, anche tu un giorno diventerai una sartina!

 

 

 

Ricordo la sartoria e i profumi delle stoffe li sento ancora inconfondibili. Oggi, dopo ottanta anni, saprei riconoscere il dolce aroma di violetta di Parma del camicione nero della Nina, l’odore secco caldo di un velluto rigato, il dolce asprigno della seta, il fresco neutro del pizzo di Sangallo e, al tatto, ad occhi chiusi, il gioco sarebbe ancora più semplice.   

Sono i profumi della mia infanzia, mi sono entrati nella pelle e mi accarezzano il cuore....

 
 
 
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Data di creazione: 21/10/2007
 

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