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« TRAMONTO | E VISSE DI SOGNI » |
Post n°45 pubblicato il 09 Gennaio 2008 da aidanred
Fu la magia di quel luogo che un giorno portò Clelia, la pazza, a decidere nella sua incoscienza, di costruire una casa sul margine del torrente. Recintò il piccolo giardino, per evitare che le sterpaglie entrassero ad invadere i segreti di un’intimità che voleva nascosta agli altri e a se stessa, e in quei 50mq di sassi ed erbe secche, in cui i topi erano soliti nidificare adeguandosi ai periodi di secca e di piena di un torrente imprevedibile, si chiuse nella sua tana come un animale. Chi avesse speculato con quella povera pazza lo sapevano tutti e qualcuno pensò che ci volesse un bel coraggio!. A quel tempo le leggi non rappresentavano un freno alle concessioni edilizie e i miserabili si costruivano i loro pollai mattone su mattone e giorno dopo giorno li trasformavano in umili abitazioni. Clelia il suo pollaio lo aveva costruito sugli argini del torrente, mattoni e cemento, tetto spiovente: un’unica stanza senza gabinetto e senz’acqua, se non quella della fontana in fondo alla mulattiera, dove i campi toccavano le pendici della Maddalena. Viveva sola, come un animale allontanato dal branco e ciò la rendeva ai miei occhi un essere speciale, del quale avrei voluto sapere di più. Di lei si parlava, ma a bassa voce, c’era chi pensava di conoscerne le verità più nascoste, si diceva che in passato avesse lavorato come ragioniera in una importante fabbrica della città, che fosse a quel tempo una persona stimata e che a causa di una grande delusione d’amore avesse perso la ragione. Per alcuni anni l’avevano tenuta rinchiusa in un manicomio, ora s’era calmata e per questo l’avevano dimessa. Chi aveva firmato per farla uscire con la promessa di provvedere ai suoi bisogni? Clelia sulle rive del torrente era giunta da sola o l’aveva portata qualcuno?. Si diceva facesse il sensale, l’uomo grasso vestito di nero ingrigito dalla polvere e dall’età che parcheggiava la topolino dopo la curva, superato il ponte e che appariva di sorpresa nelle ore in cui per strada non passava nessuno. Giungeva presso la casa della donna facendosi strada a fatica sul terreno sconnesso di sassi e senza chiedere il permesso ne varcava deciso la soglia. Come i fantasmi del passato riaffioravano alla sua memoria, così lui le appariva all’improvviso, aveva le chiavi per entrare in quell’unica stanza della quale si sentiva il padrone, si fermava poco, una o due ore: il tempo necessario per far sì che dentro calasse il silenzio. Le sue giornate Clelia le trascorreva guardando il torrente, parlando da sola o al vecchio cane randagio come lei, al quale si aggrappava nelle notti lunghe ai piedi del monte, quando la nebbia s’impossessava delle sue malinconie e delle urla di dolore. Erano lamenti sordi, strazianti, che trovavano eco nella valle - La Clelia la sora!, portomelò al manicomio!- dicevano i contadini che le abitavano vicini. C’era chi non sopportava il suo dolore e non comprendeva la forza che porta ad isolarsi nella solitudine. Esclusa ed emarginata, additata per la sua follia, lottava con i fantasmi della mente e inveiva contro chi le lanciava sassi alla finestra o le faceva trovare carogne di gatti appese alla rete del cancello. Lei li vedeva quei fantasmi e le sue urla squarciavano la notte – A morte i fascisti, siete tutti fascisti, uscite dalla mia vita!. Quando al mattino c’era il sole nel cielo, ella scendeva la strada verso il paese con passo sicuro e sorridente, pronta a sfidare chiunque. Si fermava dal fornaio, poi entrava dal macellaio, riempiva la sua borsa di stoffa scucita e, appesantita dalla spesa, risaliva con passo più lento, ma non meno sicuro la salita, fino alla casa sui margini del torrente. Quando la incontravo per strada, se mi rivolgeva un saluto l’accompagnavo, se ero in bicicletta pedalavo piano per starle vicino e aspiravo il suo profumo che sapeva di donna non ancora appassita e che forse credeva con speranza nella propria femminilità. Cercavo in lei i segni della diversità che la tenevano lontana da quella piccola comunità che si stava formando tra calcinacci e muri non ben definiti, dedita solo al lavoro, con un progetto per il proprio futuro, e lontana dal comprendere un qualsiasi seppur piccolo gesto di umana follia. Clelia scelse l’estate per iniziare la sua nuova vita ai piedi del monte e scelse nuovamente l’estate per sparire in silenzio, senza preavviso, così com’era arrivata. Ritornai più volte davanti al cancello che chiudeva la piccola proprietà, guardavo la casa grigia di cemento mai dipinto, la corda del cane legata ad un albero, tagliata e sfilacciata e provavo un amaro senso di malinconia. Stesi ad un filo penzolavano ancora vecchi stracci rigidi, come pagine stropicciate e strappate da un libro di cui si è voluta leggere solo una parte della storia per non conosce la tristezza della fine. Clelia era vissuta realmente o era solo il frutto della mia fantasia? L’avevo forse creato io quel fantasma, tra i fantasmi, che aveva trovato rifugio sulle rive di un torrente imprevedibile?. Mesi dopo, alcune parole lette casualmente tra gli annunci economici di un quotidiano locale mi riportarono alla realtà - Vendesi villetta recintata, con piccolo orto e giardino in riva ad un ruscello, nel verde paesaggio della valle di........... Clelia era vera, c’era stata e nessuno avrebbe potuto cancellarla dalla mia memoria.
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Solo la follia, incomprensibile per la massa, permette il contatto vero con la natura, (quel mondo esterno alle vicende umane nel quale si può trovare la pace dello spirito) e la possibilità di scoprire che rifiutando il mondo si può scoprire se stessi. Ma questi contatti per noi “normali” sono solo momenti passeggeri (come questo), spesso irripetibili perché troppo forte il legame con le norme della società.
Quando la incontravo per strada, se mi rivolgeva un saluto l’accompagnavo, se ero in bicicletta pedalavo piano per starle vicino e aspiravo il suo profumo che sapeva di donna non ancora appassita...
Emozionante!!! Se il momento lo hai vissuto realmente, ....non ho parole!
Un caro saluto. Salvo(?)