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Un blog creato da Sir.Amadeus.Callagan il 07/11/2009

POLITICA E CULTURA

Approfondimento culturale sulle vicende politiche italiane, corredate dai più interessanti stralci degli articoli della carta stampata

 
 

JAMES TONINO BOND

 

LUI RIDE, MAH

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PIÙ BELLA CHE....

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Lo prese come un Benito e ne fece il "Dux"

Post n°31 pubblicato il 28 Novembre 2010 da Sir.Amadeus.Callagan
Foto di Sir.Amadeus.Callagan

tratto da IlGiornale del 28/11/2010

 

Margherita Sarfatti. La donna che inventò Mussolini è il titolo del libro (Colla editore, pagg. 430, euro 22) che Roberto Festorazzi ha dedicato all’amante ebrea del Duce: anzi Dux nella biografia celebrativa e ammirativa che proprio la Sarfatti scrisse. In realtà l’ebraismo di Margherita era stato cancellato, quando la sua relazione con l’Insonne era nella fase più intensa, da un’opportuna conversione al cattolicesimo.

Tra le conquiste femminili che Mussolini faceva privilegiando la quantità piuttosto che la qualità, quella della Sarfatti ebbe caratteristiche particolari. Fu, anzitutto, un incontro alla pari. La Sarfatti, di ricca famiglia veneziana, spregiudicata, femminista ante litteram, ambiziosa, molto intelligente, ben introdotta negli ambienti della cultura e del giornalismo, non era né una casalinga come donna Rachele, né un’esaltata come la trentina Ida Dalser, né un’innamorata adorante come fu poi Claretta Petacci. Di tre anni maggiore di Mussolini, aveva con il marito, l’avvocato Cesare Sarfatti, un rapporto coniugale molto aperto e disinvolto (appassionato fu un breve amore di lei per Umberto Boccioni). Il suo salotto (a Milano o a Roma o nella Villa del Soldo, vicino a Como, che ebbe fino alla morte come buen retiro) fu sempre frequentato dall’intellighenzia. La sua ideologia giovanile era stata socialista, e infatti aveva conosciuto Mussolini collaborando, come critica d’arte, all’Avanti! da lui diretto. Un lutto tremendo segnò la sua esistenza nel 1917. Morì al fronte - ed ebbe la medaglia d’oro alla memoria - il figlio diciassettenne Roberto, arruolatosi volontario negli alpini.

La Sarfatti era - lo attestano le fotografie - d’una bellezza non comune. Aveva capelli ramati e occhi verdi. Si lasciò sedurre dal grande amatore che tuttavia, al loro primo incontro, fece cilecca. E volle anni dopo spiegare le ragioni di quel fallimento alla Petacci dicendo che «il corpo di quell’ebrea ha esercitato su di me un effetto repellente». Era nel frattempo diventato antisemita, e si adeguava alla svolta anche nei ricordi erotici. Festorazzi dedica una lunga digressione all’ipotesi, da lui ritenuta verosimile, che un Mussolini venticinquenne avesse contratto a Oneglia la sifilide e che la malattia avesse determinato una degenerazione caratteriale e fatali errori di valutazione. Al riguardo sono piuttosto scettico.

Con il fascismo imperante Margherita Sarfatti fu per qualche anno se non proprio una dittatrice di cultura senz’altro un’autorevole e ascoltata ispiratrice. Nel privato del rapporto con il Duce era d’un romanticismo quasi delirante: «Sono, mi proclamo, mi glorio di essere appassionatamente, interamente, devotamente, perdutamente Tua»... E in un momento di ruggine: «Sono stanca di amarti, stanca che tu faccia del mio amore un tappeto per calpestarlo». Baruffe d’innamorati. La gran dama veneziana sgrezzò l’uomo selvatico e con Dux lo issò su un piedestallo di genialità e di potenza.

Nel 1930, dopo diciotto anni - e Margherita ne aveva cinquanta - la passione si era ormai spenta. Annota Festorazzi: «Nel gennaio 1931 Mussolini promise alla moglie che avrebbe troncato la relazione con la Sarfatti e che l’avrebbe allontanata dal Popolo d’Italia. Insieme Benito e Rachele bruciarono nel camino di Villa Torlonia un enorme pacco di lettere di Margherita». Alle cerimonie per il decennale della Marcia su Roma l’ex ninfa Egeria del regime non fu nemmeno invitata. Fu invece emarginata e tenuta d’occhio, mai veramente perseguitata. Avveduta com’era, pensò bene di trasferirsi all’estero quando vennero promulgate le leggi razziali. Prima a Parigi, poi in Sudamerica. Lontana dall’Italia, abbozzò un testo, una sorta di «anti-Dux», che fu in parte pubblicato a puntate a Buenos Aires con il titolo Mussolini como lo conocí (Mussolini come l’ho conosciuto), e che ebbe successivamente altri titoli (Mea culpa, Mon erreur, My fault). Ma restò inedita la parte più autocritica di quelle memorie, una sorta di rettifica delle precedenti esaltazioni. La Sarfatti si chiedeva se fosse stato giusto incoraggiare Mussolini nella sua bramosia di potere.

Ma la ex favorita era ormai nella fase d’un tramonto tutto sommato tranquillo. Tornò in Italia. Negli anni Cinquanta trascorse periodi anche lunghi a Roma come cronista, per il Corriere, del «caso Montesi» e del «caso Fenaroli». Alloggiavo all’hotel Ambasciatori in via Veneto. Lì mi capitava d’incontrare un’anziana greve signora che vi risiedeva. Era Margherita Sarfatti. Che tuttavia continuava a trascorrere mesi e mesi nel suo rifugio prediletto, il Soldo. Lì si spense il 10 ottobre 1961.

 
 
 

Il rischio della via giudiziaria alle elezioni --- di Mario Ricciardi

Post n°29 pubblicato il 03 Marzo 2010 da Sir.Amadeus.Callagan
Foto di Sir.Amadeus.Callagan

Tratto da "IlRiformista" del 3/3/2010


La democrazia, come forma di governo, non esiste se non ha una veste giuridica. La volontà popolare deve esprimersi necessariamente nei modi previsti dalla legge per uscire dal dominio dell’ineffabile - cui vorrebbero confinarla da sempre i demagoghi - e manifestarsi come decisione collettiva inequivocabile e vincolante per tutti.Ovviamente, le regole che la incarnano sono sempre in qualche misura imperfette, e proprio per questo si avverte talora l’esigenza di modificarle per renderle migliori, più aderenti all’ideale dell’autogoverno che - sin dai tempi di Pericle - è il fondamento ultimo di legittimità delle procedure democratiche. Non c’è un’alternativa a questo modo di intendere la democrazia che rimanga entro l’orizzonte liberale. Tutte le ipotesi che pretendono di far prevalere la sostanza sulla forma sono pericolose perché stabiliscono precedenti le cui conseguenze sono sempre gravi, e dagli sviluppi imprevedibili.

Vale la pena di ricordarlo a chi - con irresponsabile faciloneria - evoca in queste ore la sostanza contro i “formalismi” o la “burocrazia” che impedirebbero di porre rimedio all’inaudito e colpevole pasticcio che si è verificato a Roma. Chi ritiene di avere qualcosa da guadagnare da una forzatura della legalità, potrebbe subire domani lo stesso torto. Avendo perso però la credibilità necessaria per far valere le proprie ragioni.

Le regole - anche se imperfette - garantiscono tutti. Quindi prima di chiedere che vengano ignorate si dovrebbe riflettere con attenzione. Soprattutto quando si invoca un intervento da parte di chi, come il presidente Napolitano, non ha alcun titolo per interferire in decisioni che spettano alla magistratura. Le funzioni di garanzia del processo democratico del Presidente della Repubblica non gli attribuiscono affatto la facoltà di entrare nel merito della decisione di un giudice che - secondo quanto stabilito dalla legge - valuta il rispetto della procedura prevista per la presentazione delle liste elettorali. Ciò che il Presidente può fare, e correttamente ha fatto, è manifestare preoccupazione per un episodio che corre il rischio di esacerbare ulteriormente un clima politico deteriorato oltre ogni livello di tolleranza.

Frutto di atteggiamenti strumentali che stanno erodendo di giorno in giorno la fiducia dei cittadini nei confronti di tutte le istituzioni repubblicane. Se a Roma le elezioni regionali si svolgeranno senza una lista del Pdl, non è difficile immaginare che il risultato di questa consultazione sarà contestato ogni giorno, a partire dal momento in cui verrà proclamato il vincitore. Se il Pdl dovesse perdere, possiamo aspettarci polemiche ancora più aspre - e irresponsabili - di quelle che stanno avvenendo in queste ore.

Con effetti devastanti per la credibilità dell’amministrazione in carica. D’altro canto, se la lista del Pdl venisse riammessa senza una motivazione giuridica limpida e ragionevole, la situazione sarebbe probabilmente altrettanto grave. La tensione tra forma è sostanza è fisiologica nella democrazia. Essa si alimenta dello scarto inevitabile tra l’imperfezione delle regole e la purezza dell’ideale del “governo degli eguali”. Nel nostro paese, tuttavia, questa tensione si esprime da tempo in modi che a lungo andare sono incompatibili con la stabilità sociale.

Chi ha a cuore la salute della nostra democrazia non può far altro che sperare che una via d’uscita legale ci sia, e che la magistratura la trovi per il bene di tutti. Ma se fosse impossibile trovarla, è la legge che deve avere l’ultima parola. In una situazione del genere, la responsabilità di ciò che potrebbe accadere passerebbe alla leadership dei due schieramenti. A quella del Pdl che dovrebbe impegnarsi a non aprire un nuovo fronte di conflitto con la magistratura. A quella della coalizione che sostiene Emma Bonino, che deve evitare in ogni modo di dare l’impressione che si cerca una via giudiziaria per impedire la presentazione delle liste della coalizione avversaria. Non c’è solo Roma di cui tener conto. L’accettazione del ricorso dei radicali contro la lista Formigoni in Lombardia minaccia infatti di trasformare la questione del rispetto delle regole elettorali in un conflitto su scala nazionale, anche in questo caso dagli esiti imprevedibili. Esaurite le risorse della giurisdizione, si apre lo spazio della saggezza politica. Speriamo che tutti - maggioranza e opposizione - sappiano essere all’altezza del proprio compito di guida del paese.
 
 
 

GLI ALTARINI DI DIPIETRO

Post n°28 pubblicato il 05 Febbraio 2010 da Sir.Amadeus.Callagan
Foto di Sir.Amadeus.Callagan

Tratto da Libero del 2/02/2010

Spuntanto altri  scheletri nell'armadio di Di Pietro. Perché dopo le foto che lo ritraggono con Contrada, dossier occultati, biografie censurate, adesso spunta un misterioso viaggio in America ed un assegno mai chiarito. Tonino ovviamente nega, ma tant'è.
La nuova rivelazione, fatta sul Corriere, arriva da Mario Di Domenico, ex collaboratore di Di Pietro ed ex segretario dell'Idv. Il quale Di Domenico, sta per uscirsene con un libro che rivela particolari nascosti sull'attuale leader dell'Idv. Particolari che, se messi insieme, qualcosina da dire forse potrebbero averla. Intanto al Congresso dell'Idv è scoppiata la bagarre. La riunione di partito si è infatti aperta con una denuncia della Base al "capo" Antonio Di Pietro a cui è chiesto "più trasparenza e maggiore democrazia". Così, a poche ore dall’inizio della due giorni di conclave, i rivoltosi hanno annunciato l’appoggio alla candidatura di Francesco Barbato alla presidenza del partito. Da Milano il leader centrista, Pierferdinando Casini, fa sapere che l'Udc non sarà presente al congresso: "Di Pietro si astenga da lezioni di moralismo". Sono in tantissimi gli iscritti all’Idv che hanno visto respinta la loro adesione al partito o che sono stati sospesi perché "in contrasto con la linea imposta dall’alto". Democrazia e glasnost, sono allora le parole d’ordine dei rivoltosi che accusano l’ex pm di "dirigere in modo dittatoriale" il partito. "Ma nessuna scissione", assicurano i rappresentanti della Base  presentando una mozione su tre punti: istituzione di una vicepresidenza, primarie prima interne e poi aperte a tutti per scegliere presidente e vicepresidente, elezione del tesoriere del partito da parte dell’assemblea nazionale.
De Magistris show- Intanto De Magistris nega di voler rubare la poltrona a Tonino. "Io lo dico subito: io approvo la mozione Di Pietro".  L'ex magistrato ha poi aggiunto: "Tra me e Antonio ci sono venti anni di differenza. Per mia fortuna e per tua sfortuna".
Ma torniamo al nuovo tassello della vicenda Di Pietro - servizi segreti e compagnia bella.

Il viaggio in America- Mario Di Domenico, intervistato dal Corriere, ricostruisce un viaggio oltreoceano di dieci anni fa . Viaggio che ’altra sera a Montecitorio Di Pietro dimostra di non saperne nulla. «In America con Di Domenico? Lo escluderei. Credo proprio di no...».
Eppure di Domenico porta come documenti altre foto, con lui e Di Pietro seduti su un divano del Ponte Vedra Beach Resort di Miami. E racconta. «Partimmo alla conquista dell’America, spinti dal signor Gino Bianchini, un falso ingegnere... ». Ecco un altro passaggio di quella caricatura di spy story che Di Pietro smonta con ironia, autodefinendosi «James Tonino Bond», ma bollando come un acrobatico grafologo il suo accusatore che ha perduto le 19 querele seguite a liti e veleni. La foto «americana » però c’è. Anzi, Di Domenico ne mostra diverse, tutte legate al viaggio che si comincia a preparare nei primi di ottobre, «quando la segreteria Idv a Busto Arsizio riceve una mail da parte di un tal ingegner Gino Bianchini, con un’intestazione intrigante, come se la comunicazione pervenisse dalle organizzazioni ecclesiastiche Vaticane: "Sanctuaryrome"».

Di Pietro chiama subito Di Domenico, gli chiede di prender contatti. Racconta ancora Felice Cavallaro sul Corriere: " E viene fuori che l’«ingegnere» senza laurea, come poi scopriranno, garantisce «cospicui finanziamenti », stando anche ad un capitolo del libro: «Bianchini parlava di suoi potenti amici dell’ambiente politico e imprenditoriale sostenitori di Al Gore negli Stati Uniti d'America...»."" Così prendono il volo per gli States: Di Pietro, Di Domenico, Silvana Mura, oggi deputato, e Bianchini con due influenti personaggi al seguito, l’avvocato Sharon Talbot e l'imprenditore Randy Stelk.  Racconta ancora Di Domenico ricordando la prima vera lite con Di Pietro: «Ogni sera tavolate imbandite in nostro onore. Ma mentre io, da ligio segretario del partito, ripetevo il solito ritornello della povertà francescana, Di Pietro puntualmente si alzava e si allontanava con un pretesto qualsiasi non appena si parlava di quattrini. Una, due, tre volte, la cosa insospettiva. Mi lasciava solo ad affrontare scabrosi discorsi».

Assegno misterioso- Poi il clou: «Una sera Bianchini mi allungò un assegno di 50 mila dollari, ma con scadenza "13 maggio 2001", il giorno delle Politiche, con la ragione causale "elections". In pratica, mi veniva detto dai suoi sostenitori che quello sarebbe stato solo l’anticipo della ben più cospicua somma di finanziamento. Si parlava addirittura di somme dieci volte maggiori... ». Sarebbe stata questa la molla della crisi interna al vertice Idv. Con Di Domenico che, senza rimpianti per la mancata elezione di Bianchini, quell'assegno non cambiò mai".


L'insulto al Tg1- Di Pietro non l'ha presa bene, questa storia di foto e dossier. Ieri ha mandato poco garbatamente a quel paese la giornalista del Tg1 che gli chiedeva conto del suo passato e del dossier di Libero che lo riguarda. "Ma siete del Tg1!Fate domande del ca...o", ha dichiarato. Il telegiornale ha ribattuto secco: "È questa la sua libertà di stampa?". Insomma, qualcuno pone domande scomode  e Tonino perde la testa. Senza però fornire uno straccio di spiegazione. Riassumiamo brevemente per il lettore che si fosse perso qualche puntata.
IL 15 dicembre 1992 Antonio Di Pietro partecipa ad una cena con il numero 3 dei servizi segreti dell'epoca, Bruno Contrada,  una settimana prima dell'arresto dello 007. Quel giorno, spiega il suo ex collaboratore Mario Di Domenico, l'allora magistrato "partecipa con Gherardo Colombo a un incontro al Csm sui reati contro la pubblica amministrazione". "Alle 13.15 di quello stesso giorno, l'Ansa batteva la notizia dell'avviso di garanzia a Bettino Craxi".

Il dossier di Libero- Ieri, Libero ha pubblicato la notizia di un dossier.  Fatto di assegni al partito, fotografie, carte che testimoniano i legami con ambigui personaggi. Tonino ribatte: "roba da telefilm". Ma ci sono in realtà un paio di cosette che dovrebbe proprio spiegare. Un tentativo di spiegazione a emerge dal libro "Attentato allo Stato" di Mario Di Domenico (per i tipi della Koiné).  Di Domenico fu un fedelissimo di Di Pietro, ma oggi, dopo la rottura, di star zitto non ne vuol più sapere. Così in questo libro rivela tante cose.  Come i finanziamenti non proprio puliti che il leader dell'Idv ottenne per il partito da un imprenditore coinvolto in processi per truffa e bancarotta in Virginia e per un sistema fraudolento di esportazioni.

La foto con Contrada- Poi c'è la foto con Contrada. La data è quella del 15 dicembre 1992.  Allo stesso tavolo siedono Antonio Di Pietro e il funzionario del Sisde Bruno Contrada. La vigilia di Natale, lo stesso Contrada verrà messo agli arresti per concorso esterno in associazione mafiosa. Da tempo era nel mirino del pool di Paolo Borsellino sin da tempi della strage di via D'Amelio: nessuno, tantomeno Di Pietro, all'epoca parve curarsene. Del resto Contrada era il numero 3 del Sisde. 
Perché Tonino negò l'incontro? Perché quelle fotografie sono state occultate per diciassette anni. E soprattutto: perché Di Pietro si salvò dall'attentato della mafia fuggendo ai Tropici mentre Borsellino venne ucciso?
Sono domande legittime, ma per non fare confusione al lettore andiamo con ordine.

Idv in caduta libera- Le foto con Contrada e la flessione dei consensi hanno accresciuto il malcontento del partito contro Di Pietro. I sondaggi sono in caduta libera. Se alle Europee 2009 l'Idv poteva contare su un buon 8%, gli attuali sondaggi danno l'Italia dei Valori al 6%. Segno che forse qualcosa non va.

 
 
 

"L’Appello? Scontificio". Travaglio ne approfitta

Post n°27 pubblicato il 09 Gennaio 2010 da Sir.Amadeus.Callagan
Foto di Sir.Amadeus.Callagan

Tratto da "ilGiornale" del 9 Gennaio 2010Ad "Annozero" il giornalista critica le sentenze di secondo grado. Però tace del suo caso: pena ridotta da 8 mesi di carcere a mille euro di multa per aver diffamato Previti. Confermato anche il risarcimento da 20mila euro per l’ex deputato

Condanna confermata, pena scontata. Rispetto agli otto mesi e 100 euro di multa rifilati in primo grado al giornalista Marco Travaglio (querelato da Cesare Previti), al processo d’appello celebrato ieri a Roma l’«ospite» fisso di Annozero si è visto ridurre la pena a soli mille euro di multa. La terza sezione penale presieduta dal giudice Maisto ha dunque parzialmente riformato la sentenza con una forte rideterminazione della pena, ridotta a multa (che è pur sempre una condanna e presuppone l’accertamento del reato di diffamazione a mezzo stampa). Per Travaglio resta la condanna, anche se l’interessato nel dare notizia alle agenzie di stampa parla di «annullamento» del verdetto di primo grado. Resta pure il risarcimento di 20mila euro dovuto a Previti. E resta la diffamazione, perché «la notizia - come scrisse nelle motivazioni il giudice di primo grado Roberta Di Gioia - così come riportata non risponde a verità».
Lo «sconto» in Corte d’appello per Travaglio arriva a poche ore dalle considerazioni, non certo benevole, dello stesso Travaglio, sugli «scontifici» delle Corti d’appello. Nel corso della trasmissione sui Rai2, subentrando a Santoro che a proposito della bomba di Reggio Calabria ipotizzava una rottura degli equilibri dovuti all’arrivo del nuovo procuratore e alla riorganizzazione degli uffici, Travaglio osservava: «Le Corti d’appello molto spesso sono degli scontifici rispetto ai primi gradi (Santoro annuisce), evidentemente questo procuratore generale carica un po’ più di prima i pg e quindi chiedono pene più alte o conferme alle pene di primo grado». Nemmeno 24 ore dopo a beneficiare dello «scontificio» d’appello è stato proprio lui.

La querelle, e la querela, riguardano l’articolo dell’Espresso del 3 ottobre 2002 incentrato sulle rivelazioni del colonnello dei carabinieri Michele Riccio versus l’ex ministro della Difesa presente (in realtà era assente) a un incontro nello studio dell’avvocato Carlo Taormina, con Marcello Dell’Utri e lo stesso ufficiale che raccolse le confidenze del pentito Luigi Ilardo su presunti accordi tra mafia e Forza Italia. Travaglio riportò le dichiarazioni che Riccio aveva verbalizzato alla Procura di Palermo specificando che una fuga di notizie «quasi certamente di natura istituzionale» sarebbe stata all’origine dell’uccisione del mafioso Ilardo, ormai prossimo a vuotare il sacco. «Solo Riccio può ridargli la voce - scriveva Travaglio sul settimanale - cosa che fa attraverso i suoi appunti (...) senonché nel marzo 2001 viene convocato nello studio del suo avvocato, Carlo Taormina, per una riunione con Dell’Utri e il tenente Canale, entrambi imputati per concorso esterno in mafia». Travaglio aggiunge che «Riccio denuncia subito il fatto in procura. “Si è parlato di dare una mano a Dell’Utri - dice -, io avrei dovuto dire che Ilardo non mi ha mai parlato di Dell’Utri come uomo vicino a Cosa Nostra”.
In cambio - continua Travaglio - gli viene promesso un aiuto per rientrare nell’Arma e per ottenere “la rimessione nel mio processo”». Dopodiché, «in quell’occasione, come in altre - chiosa sempre Travaglio riportando le parole di Riccio - presso lo studio dell’avvocato Taormina era presente anche l’onorevole Previti», che invece nega con decisione.
Chi mente, allora, tra Riccio e Previti? Nessuno dei due. Dalla lettura integrale del verbale del colonnello dei carabinieri al pm Di Matteo, il giudice Di Gioia fa notare come Riccio «richiesto più volte dal pm di precisare se in quella sede fosse presente anche Previti, ha dapprima escluso che Previti fosse presente, chiarendo di non essere in grado di ricordare se lo avesse visto in quella o in altre occasioni ma solo per un attimo, precisando che Previti non aveva comunque partecipato all’incontro o ascoltato la conversazione». Sempre secondo il giudice di primo grado, Marco Travaglio ha messo in bocca a Riccio cose che lo stesso Riccio non ha mai proferito. O meglio, il giornalista ha omesso di riportare per intero la frase di Riccio che spiegava come Previti, a quella riunione, non vi partecipò. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado si faceva presente come «l’omissione del contenuto integrale della frase riferita dal Riccio (...) ne ha stravolto il significato, in quanto ha fornito una distorta rappresentazione del fatto riferito dalla fonte, le cui dichiarazioni, lette integralmente, modificano in maniera radicale il tenore della frase (...)». Col risultato di «insinuare sospetti sull’effettivo ruolo svolto nella circostanza da Previti». Il giudice Di Gioia, nelle sue conclusioni, è tranchant: «Il dovere in capo al giornalista di riferire la notizia in termini aderenti alla fonte da cui la stessa è stata attinta è stato, nel caso di specie, palesemente disatteso come dimostrato dalla arbitraria censura della frase virgolettata (...). Le modalità di confezionamento dell’articolo risultano peraltro sintomatiche della sussistenza in capo all’autore di una precisa consapevolezza dell’attitudine offensiva della condotta e della sua concreta idoneità lesiva della reputazione di Previti».

 
 
 

Fini & Casini, calcolatori che sbagliano i conti

Post n°26 pubblicato il 06 Gennaio 2010 da Sir.Amadeus.Callagan
Foto di Sir.Amadeus.Callagan

Tratto da "ilGiornale" del 6 Gennaio 2010

 

La matematica non è il loro mestiere. Ogni volta che ci provano, c’è sempre un cifra che scappa, un conto sbagliato. Questa volta la virgola si chiama Rutelli. Doveva stare con loro e invece cincischia con Berlusconi. E per due ragionieri della politica come Casini e Fini questo è davvero un fatto grave. Quando si sono messi in fila di attesa per aspettare che passasse il dopo Berlusconi, Pier Ferdinando aveva i capelli brizzolati e Gianfranco li aveva ancora neri. Adesso Casini li ha bianchi e Fini brizzolati: stanno invecchiando senza riuscire nemmeno a vedere l’obiettivo. Nel 2005 provarono a far fuori il Cavaliere senza arabeschi e sofismi, in modo quasi onesto. Andò a finire che Berlusconi li perdonò e gli concesse un bis. E ora siamo al tris. C’è qualcosa di letterario in questa eterna e fallimentare incompiutezza, nella parabola dei due alleati che tramano ma non riescono a prendere il posto del loro capo. Casini tenne impegnato tre anni Berlusconi con il suo tira e molla e alla fine fu sbattuto fuori dalla coalizione. Per un mese andò a raccontare in tutte le piazze d’Italia che lui voleva restare nel centrodestra con il suo simbolo e il suo partito. Come sia andata a finire si sa.
Non è certo una provocazione, quindi, quella di Vittorio Feltri che su questo giornale ha suggerito al Cavaliere un inedito apparentamento con Francesco Rutelli e di lasciar perdere Casini. E’ certo che su Pier Ferdinando Casini si potrebbe fare un trattato. Ha preso il suo migliore amico, con cui ha diviso la propria giovinezza politica, Marco Follini, e gli ha affidato il partito. Poi l’ha sbattuto fuori perché non serviva più. In tempi più recenti con lungimirante sagacia, ha concesso un’intervista solenne a La Stampa: «Serve un fronte unico di opposizione a Berlusconi». Il giorno dopo, quando il Cavaliere è stato colpito dall’agguato di Tartaglia, il fronte unico è scomparso nel ridicolo. Casini voleva che tenesse insieme tutti: da Vendola a Di Pietro, e se non si fosse trattato di una bufala si sarebbe trovato nella stessa coalizione con l’ex pm che proprio quel giorno dileggiava Berlusconi sostenendo che se l’era meritata.
Ma il meglio Casini l’ha dato negli ultimi giorni: ha detto che vuole tenere la barra diritta al centro e infatti nelle Marche si è alleato anche con Rifondazione. Ha spiegato che la discriminante sono i valori cattolici e infatti in Piemonte, per qualche poltrona in più, appoggia la candidatura della più laicista dei governatori. Il centro è il suo Dio, ma lo ripudia in tutte le regioni e pendola come un rabdomante alla ricerca dell’acqua, disinteressandosi di qualunque programma, preoccupato unicamente di chiudere l’alleanza all’ultimo momento utile con il candidato che vincerà. Sprinter senza coraggio si è improvvisato succhiaruote. Un pericoloso esercizio di equilibrismo che viene spacciato come virtuoso esercizio morale. Ma il suo partito è questo. Di fatto l’Udc non esiste, è una consociata dell’impero di Francesco Gaetano Caltagirone, che si dedica a una grottesca riedizione del «doppiofornismo» di craxiana memoria. Ma almeno Craxi era vincente, mentre lui in Puglia sembra arenato e incapace di segnare il punto.

Quanto a Fini, salutò la fondazione del Pdl, di cui secondo Granata e Bocchino sarebbe un padre fondatore imprescindibile, con un proclama che era tutto un programma: «Siamo alle comiche finali». Oggi si atteggia a padre della Patria ma non è riuscito a far altro che contestare la propria maggioranza mettendo una compagnia di giro di piccoli vietcong del dissenso, l’ex ciclostilatrice dei campi hobbit, l’ex assessore della Magna Grecia, la brutta copia di Tatarella. Ha firmato la più severa legge sull’immigrazione e ora predica la società multietnica. Si è fatto eleggere con i voti dei repubblichini e adesso discetta sull’antifascismo, lui che si ritrovò ad Auschwitz con una comitiva che raccontava ancora barzellette sugli ebrei: «Lo sai che mio nonno stava qui? Sì, era sulla torretta».

Fosse almeno coerente Fini avrebbe il fascino dei convertiti, come gli ex comunisti degli anni cinquanta, i Koestler, i Silone, che si stracciavano le vesti e dedicarono la loro vita a combattere i mostri del ’900, che per errori di giovinezza avevano servito. Niente.

Il destino di Pier Ferdinando e Gianfranco è quello di essere due secondi che neppure serviti insieme faranno mai un primo.

 
 
 
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MARR'AZZO

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SIRCANA, L'AMICO DI PRODI

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DÉJÀ VU

 

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mah smettilaaaaaaaaaaa!
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ciao sir ho provato a connettermi con il nik e la passwor...
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bellissima frase tanti auguri anche a te e un sereno 2010...
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