POLITICA E CULTURAApprofondimento culturale sulle vicende politiche italiane, corredate dai più interessanti stralci degli articoli della carta stampata |
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Post n°31 pubblicato il 28 Novembre 2010 da Sir.Amadeus.Callagan
tratto da IlGiornale del 28/11/2010
Margherita Sarfatti. La donna che inventò Mussolini è il titolo del libro (Colla editore, pagg. 430, euro 22) che Roberto Festorazzi ha dedicato all’amante ebrea del Duce: anzi Dux nella biografia celebrativa e ammirativa che proprio la Sarfatti scrisse. In realtà l’ebraismo di Margherita era stato cancellato, quando la sua relazione con l’Insonne era nella fase più intensa, da un’opportuna conversione al cattolicesimo. Tra le conquiste femminili che Mussolini faceva privilegiando la quantità piuttosto che la qualità, quella della Sarfatti ebbe caratteristiche particolari. Fu, anzitutto, un incontro alla pari. La Sarfatti, di ricca famiglia veneziana, spregiudicata, femminista ante litteram, ambiziosa, molto intelligente, ben introdotta negli ambienti della cultura e del giornalismo, non era né una casalinga come donna Rachele, né un’esaltata come la trentina Ida Dalser, né un’innamorata adorante come fu poi Claretta Petacci. Di tre anni maggiore di Mussolini, aveva con il marito, l’avvocato Cesare Sarfatti, un rapporto coniugale molto aperto e disinvolto (appassionato fu un breve amore di lei per Umberto Boccioni). Il suo salotto (a Milano o a Roma o nella Villa del Soldo, vicino a Como, che ebbe fino alla morte come buen retiro) fu sempre frequentato dall’intellighenzia. La sua ideologia giovanile era stata socialista, e infatti aveva conosciuto Mussolini collaborando, come critica d’arte, all’Avanti! da lui diretto. Un lutto tremendo segnò la sua esistenza nel 1917. Morì al fronte - ed ebbe la medaglia d’oro alla memoria - il figlio diciassettenne Roberto, arruolatosi volontario negli alpini. La Sarfatti era - lo attestano le fotografie - d’una bellezza non comune. Aveva capelli ramati e occhi verdi. Si lasciò sedurre dal grande amatore che tuttavia, al loro primo incontro, fece cilecca. E volle anni dopo spiegare le ragioni di quel fallimento alla Petacci dicendo che «il corpo di quell’ebrea ha esercitato su di me un effetto repellente». Era nel frattempo diventato antisemita, e si adeguava alla svolta anche nei ricordi erotici. Festorazzi dedica una lunga digressione all’ipotesi, da lui ritenuta verosimile, che un Mussolini venticinquenne avesse contratto a Oneglia la sifilide e che la malattia avesse determinato una degenerazione caratteriale e fatali errori di valutazione. Al riguardo sono piuttosto scettico. Con il fascismo imperante Margherita Sarfatti fu per qualche anno se non proprio una dittatrice di cultura senz’altro un’autorevole e ascoltata ispiratrice. Nel privato del rapporto con il Duce era d’un romanticismo quasi delirante: «Sono, mi proclamo, mi glorio di essere appassionatamente, interamente, devotamente, perdutamente Tua»... E in un momento di ruggine: «Sono stanca di amarti, stanca che tu faccia del mio amore un tappeto per calpestarlo». Baruffe d’innamorati. La gran dama veneziana sgrezzò l’uomo selvatico e con Dux lo issò su un piedestallo di genialità e di potenza. Nel 1930, dopo diciotto anni - e Margherita ne aveva cinquanta - la passione si era ormai spenta. Annota Festorazzi: «Nel gennaio 1931 Mussolini promise alla moglie che avrebbe troncato la relazione con la Sarfatti e che l’avrebbe allontanata dal Popolo d’Italia. Insieme Benito e Rachele bruciarono nel camino di Villa Torlonia un enorme pacco di lettere di Margherita». Alle cerimonie per il decennale della Marcia su Roma l’ex ninfa Egeria del regime non fu nemmeno invitata. Fu invece emarginata e tenuta d’occhio, mai veramente perseguitata. Avveduta com’era, pensò bene di trasferirsi all’estero quando vennero promulgate le leggi razziali. Prima a Parigi, poi in Sudamerica. Lontana dall’Italia, abbozzò un testo, una sorta di «anti-Dux», che fu in parte pubblicato a puntate a Buenos Aires con il titolo Mussolini como lo conocí (Mussolini come l’ho conosciuto), e che ebbe successivamente altri titoli (Mea culpa, Mon erreur, My fault). Ma restò inedita la parte più autocritica di quelle memorie, una sorta di rettifica delle precedenti esaltazioni. La Sarfatti si chiedeva se fosse stato giusto incoraggiare Mussolini nella sua bramosia di potere. Ma la ex favorita era ormai nella fase d’un tramonto tutto sommato tranquillo. Tornò in Italia. Negli anni Cinquanta trascorse periodi anche lunghi a Roma come cronista, per il Corriere, del «caso Montesi» e del «caso Fenaroli». Alloggiavo all’hotel Ambasciatori in via Veneto. Lì mi capitava d’incontrare un’anziana greve signora che vi risiedeva. Era Margherita Sarfatti. Che tuttavia continuava a trascorrere mesi e mesi nel suo rifugio prediletto, il Soldo. Lì si spense il 10 ottobre 1961. |
Post n°29 pubblicato il 03 Marzo 2010 da Sir.Amadeus.Callagan
Tratto da "IlRiformista" del 3/3/2010 Vale la pena di ricordarlo a chi - con irresponsabile faciloneria - evoca in queste ore la sostanza contro i “formalismi” o la “burocrazia” che impedirebbero di porre rimedio all’inaudito e colpevole pasticcio che si è verificato a Roma. Chi ritiene di avere qualcosa da guadagnare da una forzatura della legalità, potrebbe subire domani lo stesso torto. Avendo perso però la credibilità necessaria per far valere le proprie ragioni. Le regole - anche se imperfette - garantiscono tutti. Quindi prima di chiedere che vengano ignorate si dovrebbe riflettere con attenzione. Soprattutto quando si invoca un intervento da parte di chi, come il presidente Napolitano, non ha alcun titolo per interferire in decisioni che spettano alla magistratura. Le funzioni di garanzia del processo democratico del Presidente della Repubblica non gli attribuiscono affatto la facoltà di entrare nel merito della decisione di un giudice che - secondo quanto stabilito dalla legge - valuta il rispetto della procedura prevista per la presentazione delle liste elettorali. Ciò che il Presidente può fare, e correttamente ha fatto, è manifestare preoccupazione per un episodio che corre il rischio di esacerbare ulteriormente un clima politico deteriorato oltre ogni livello di tolleranza. Frutto di atteggiamenti strumentali che stanno erodendo di giorno in giorno la fiducia dei cittadini nei confronti di tutte le istituzioni repubblicane. Se a Roma le elezioni regionali si svolgeranno senza una lista del Pdl, non è difficile immaginare che il risultato di questa consultazione sarà contestato ogni giorno, a partire dal momento in cui verrà proclamato il vincitore. Se il Pdl dovesse perdere, possiamo aspettarci polemiche ancora più aspre - e irresponsabili - di quelle che stanno avvenendo in queste ore. Con effetti devastanti per la credibilità dell’amministrazione in carica. D’altro canto, se la lista del Pdl venisse riammessa senza una motivazione giuridica limpida e ragionevole, la situazione sarebbe probabilmente altrettanto grave. La tensione tra forma è sostanza è fisiologica nella democrazia. Essa si alimenta dello scarto inevitabile tra l’imperfezione delle regole e la purezza dell’ideale del “governo degli eguali”. Nel nostro paese, tuttavia, questa tensione si esprime da tempo in modi che a lungo andare sono incompatibili con la stabilità sociale. Chi ha a cuore la salute della nostra democrazia non può far altro che sperare che una via d’uscita legale ci sia, e che la magistratura la trovi per il bene di tutti. Ma se fosse impossibile trovarla, è la legge che deve avere l’ultima parola. In una situazione del genere, la responsabilità di ciò che potrebbe accadere passerebbe alla leadership dei due schieramenti. A quella del Pdl che dovrebbe impegnarsi a non aprire un nuovo fronte di conflitto con la magistratura. A quella della coalizione che sostiene Emma Bonino, che deve evitare in ogni modo di dare l’impressione che si cerca una via giudiziaria per impedire la presentazione delle liste della coalizione avversaria. Non c’è solo Roma di cui tener conto. L’accettazione del ricorso dei radicali contro la lista Formigoni in Lombardia minaccia infatti di trasformare la questione del rispetto delle regole elettorali in un conflitto su scala nazionale, anche in questo caso dagli esiti imprevedibili. Esaurite le risorse della giurisdizione, si apre lo spazio della saggezza politica. Speriamo che tutti - maggioranza e opposizione - sappiano essere all’altezza del proprio compito di guida del paese. |
Post n°28 pubblicato il 05 Febbraio 2010 da Sir.Amadeus.Callagan
Tratto da Libero del 2/02/2010 Spuntanto altri scheletri nell'armadio di Di Pietro. Perché dopo le foto che lo ritraggono con Contrada, dossier occultati, biografie censurate, adesso spunta un misterioso viaggio in America ed un assegno mai chiarito. Tonino ovviamente nega, ma tant'è. |
Post n°27 pubblicato il 09 Gennaio 2010 da Sir.Amadeus.Callagan
Tratto da "ilGiornale" del 9 Gennaio 2010Ad "Annozero" il giornalista critica le sentenze di secondo grado. Però tace del suo caso: pena ridotta da 8 mesi di carcere a mille euro di multa per aver diffamato Previti. Confermato anche il risarcimento da 20mila euro per l’ex deputato Condanna confermata, pena scontata. Rispetto agli otto mesi e 100 euro di multa rifilati in primo grado al giornalista Marco Travaglio (querelato da Cesare Previti), al processo d’appello celebrato ieri a Roma l’«ospite» fisso di Annozero si è visto ridurre la pena a soli mille euro di multa. La terza sezione penale presieduta dal giudice Maisto ha dunque parzialmente riformato la sentenza con una forte rideterminazione della pena, ridotta a multa (che è pur sempre una condanna e presuppone l’accertamento del reato di diffamazione a mezzo stampa). Per Travaglio resta la condanna, anche se l’interessato nel dare notizia alle agenzie di stampa parla di «annullamento» del verdetto di primo grado. Resta pure il risarcimento di 20mila euro dovuto a Previti. E resta la diffamazione, perché «la notizia - come scrisse nelle motivazioni il giudice di primo grado Roberta Di Gioia - così come riportata non risponde a verità». |
Post n°26 pubblicato il 06 Gennaio 2010 da Sir.Amadeus.Callagan
Tratto da "ilGiornale" del 6 Gennaio 2010
La matematica non è il loro mestiere. Ogni volta che ci provano, c’è sempre un cifra che scappa, un conto sbagliato. Questa volta la virgola si chiama Rutelli. Doveva stare con loro e invece cincischia con Berlusconi. E per due ragionieri della politica come Casini e Fini questo è davvero un fatto grave. Quando si sono messi in fila di attesa per aspettare che passasse il dopo Berlusconi, Pier Ferdinando aveva i capelli brizzolati e Gianfranco li aveva ancora neri. Adesso Casini li ha bianchi e Fini brizzolati: stanno invecchiando senza riuscire nemmeno a vedere l’obiettivo. Nel 2005 provarono a far fuori il Cavaliere senza arabeschi e sofismi, in modo quasi onesto. Andò a finire che Berlusconi li perdonò e gli concesse un bis. E ora siamo al tris. C’è qualcosa di letterario in questa eterna e fallimentare incompiutezza, nella parabola dei due alleati che tramano ma non riescono a prendere il posto del loro capo. Casini tenne impegnato tre anni Berlusconi con il suo tira e molla e alla fine fu sbattuto fuori dalla coalizione. Per un mese andò a raccontare in tutte le piazze d’Italia che lui voleva restare nel centrodestra con il suo simbolo e il suo partito. Come sia andata a finire si sa. Quanto a Fini, salutò la fondazione del Pdl, di cui secondo Granata e Bocchino sarebbe un padre fondatore imprescindibile, con un proclama che era tutto un programma: «Siamo alle comiche finali». Oggi si atteggia a padre della Patria ma non è riuscito a far altro che contestare la propria maggioranza mettendo una compagnia di giro di piccoli vietcong del dissenso, l’ex ciclostilatrice dei campi hobbit, l’ex assessore della Magna Grecia, la brutta copia di Tatarella. Ha firmato la più severa legge sull’immigrazione e ora predica la società multietnica. Si è fatto eleggere con i voti dei repubblichini e adesso discetta sull’antifascismo, lui che si ritrovò ad Auschwitz con una comitiva che raccontava ancora barzellette sugli ebrei: «Lo sai che mio nonno stava qui? Sì, era sulla torretta». Fosse almeno coerente Fini avrebbe il fascino dei convertiti, come gli ex comunisti degli anni cinquanta, i Koestler, i Silone, che si stracciavano le vesti e dedicarono la loro vita a combattere i mostri del ’900, che per errori di giovinezza avevano servito. Niente. Il destino di Pier Ferdinando e Gianfranco è quello di essere due secondi che neppure serviti insieme faranno mai un primo. |
Inviato da: LaFra1982
il 11/02/2010 alle 15:28
Inviato da: Sir.Amadeus.Callagan
il 08/02/2010 alle 09:19
Inviato da: LaFra1982
il 07/02/2010 alle 10:57
Inviato da: romanticki
il 20/01/2010 alle 22:25
Inviato da: romanticki
il 26/12/2009 alle 11:19