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Post N° 11

Post n°11 pubblicato il 23 Ottobre 2006 da LaPanceraRosa

The Black Dahlia (Usa 2006)

Titolo
e Credits:



The
Black Dahlia (id.) Usa 2006 – Col-B/N 122 min – Regia.
Brian DePalma – Interpreti:
Josh Hartnett, Aaron Eckhart, Scarlett Johansson, Hilary Swank, Fiona Shaw –
Sceneggiatura: Josh Friedman (da James Ellroy)



Trama:



Il
brutale assassinio di una giovane aspirante starlett hollywoodiana,
soprannominata da giornali e polizia La Dalia
Nera, e le indagini conseguenti, innescano una spirale di
intrighi e mettono in luce la corruzione della Los Angeles del 1947, dove nulla
è quello che sembra.



 



Film d'apertura della 63a Mostra del Cinema
di Venezia.



Brian DePalma torna dopo un silenzio di
quasi 4 anni con questo film definito Noir, ma che di tale mirabile genere
ormai (irrimediabilmente) perduto ha ben poco.



L’ambientazione nella Los Angeles del 1947,
sulla carta perfetta, diviene qui superficiale quasi che il regista non abbia
collaboratori in grado di scovare locations ideali (ed essendo molti gli
edifici di LA realizzati nel periodo dai tardi anni ’20 ai primi ’50, riesce
difficile credere che non se ne siano trovati…un po’ come si dicesse che a Roma
è impossibile ritrovare edifici del Rinascimento…).



La sceneggiatura (di J. Friedman, che già
realizzò quella de La Guerra
dei Mondi nel 2005), parte dal romanzo di James Ellroy, tirando fuori un racconto
un po’ sgangherato con attimi di concitazione estrema alternati a lunghi momenti di pause e di più o meno
inutili chiacchere (compresa la voce fuori campo del protagonista che stende la
narrazione), quando non diventano dei veri e propri “vuoti narrativi”.



Ma se già in passato (in special modo mi
riferisco a quel Il Grande Sonno, di cui lo stesso Chandler asseriva mancassero pezzi perché non riusciva a legare gli eventi) tali “vuoti”
sono diventati fattore determinante dello stile narrativo, nel film di DePalma
spiazzano lo spettatore pur senza mai coinvolgerlo completamente.





Certo, DePalma è sempre un grande regista e
i suoi movimenti di macchina (quando si impegna) sono sempre superbi, come la
magistrale lunga scena del ritrovamento del cadavere della Dalia, realizzato con un dolly a gru che dal livello stradale si innalza a
superare un edificio per sorvolare il luogo dove giacciono i resti della
vittima e, senza esitazioni o inutili e rocambolesche trovate, continua inesorabile la
sua corsa virando di quasi 360 gradi e riatterrando al punto di partenza.



Alcuni ralenty (a lui tanto cari) che
aumentano in parte il pathos e in special modo nella scena dell’assassinio di
Lee (peccato solo che sia la copia esatta -anche se al contrario- di quella
famosa delle scale della stazione in the Untouchables, a sua volta ripresa da
quella famosissima della Corazzata Potemkin), o una scena interamente in
soggettiva ci dicono che Brian proprio un principiante insomma non è: certo è
invece che un autore che cita se stesso e usa troppe volte

l’espediente del ralenty, ci da da pensare.



Ci da da pensare che forse questo film non
lo voleva fare, o comunque un po’ controvoglia l’abbia fatto.



La scelta degli attori (di Lucy Boulting
e Johanna Ray)
sarebbe poi da carcere preventivo: Josh Hartnett che sembra il pupo della porta
accanto, ma interpreta –male- un duro; Aaron Eckhart, che la faccia da duro ce
l’avrebbe pure, non fosse che qui sembra uno stralunato generico che abbia

sbagliato teatro di posa; Hilary Swank che più che una dark lady sembra una
improbabile drug queen, con un cipiglio degno di Joe Lewis; la Johansson delicata come
una miniatura, stupenda con il suo perfetto abbigliamento d’epoca (di Dante
Ferretti) ma monocorde e afflitta da un più o meno oscuro passato (che non ci è
dato se non di afferrare a tratti, e certo non per merito dell’espressività
dell’attrice…).



 



Una grande caratterista come Fiona Show
(con un gagliardo passato da attrice shakespeariana) come Ramona
Linscott, madre di Madeleine, al contrario degli altri, rende benissimo la sua
follia con una recitazione che definire sopra le righe è semplicemente
riduttivo.



Interessante invece la trovata della
narrazione di Elisabeth Short, la vittima, che mai apparirà da

viva bensì solo attraverso spezzoni di provini da lei fatti nel tentativo di
una improbabile carriera hollywoodiana.



Il soprannome della vittima, Dahlia
appunto, le viene attribuito dal successo del film di G. Marshall “The Blue Dahlia” (da Chandler) che, essendo uscito nel 1946, era una
pellicola molto nota ai tempi, mentre quel “black” viene dall’abbigliamento
preferito della ragazza (anche se nel romanzo di Ellroy si fa riferimento ad un
fiore che Betty amava portare)



Sorvolo poi sugli errori sia nel materiale
di scena, che di auto e abbigliamento, errori che sono si

sempre in agguato nelle ambientazioni non in tempi coevi, ma che proprio per
questo meritano grandissima attenzione da parte degli addetti ai lavori.



Nella scena dell'autopsia della Dahlia ad
esempio, quando il patologo solleva la sua mano per mostrare delle ferite, è
lampante la mollezza di un manichino, particolare che, personalmente, mi ha
dato il senso stesso dell'approssimazione di questa pellicola.



Un DePalma asfittico e fuori forma.



 



** Da vedere con riserva



 



 

 
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Post N° 9

Post n°9 pubblicato il 20 Agosto 2006 da LaPanceraRosa

DOMINO

Titolo e credits:

Domino (id) coprod. FR/USA 2006 – col/127 min. - Regia: Tony Scott - Interpreti: M. Rourke, K. Knightley, E. Ramirez, C. Walken, L. Liu, T. Waits Sceneggiatura: R. Kelly

Trama:

La benestante Domino Harvey, figlia di un famoso attore e di una modella, rifiuta la sua condizione sociale, ribellandosi in tutti i modi possibili. Dopo varie esperienze, si aggrega ad una banda di cacciatori di taglie, dove fra violenze e personaggi estremi, pare sentirsi finalmente realizzata. Coinvolti in un losco intrigo tra mafia, rapinatori, miliardari e FBI, dovranno lottare per salvarsi la vita.

Commento al film:

Il film è imperniato sulla figura – reale - di Domino Harvey (Keira Knightley), figlia dell’attore Lawrence Harvey e della modella Paulene Stone. Perso il padre a soli 5 anni, la piccola Domino vive in G.B. con la madre che, di li a poco, si trasferisce a Beverly Hills convolando a seconde nozze con un ricco imprenditore. La giovane Domino mal si adatta alla società opulenta e decadente di Beverly Hills, tanto che, espulsa da diverse scuole e college di prestigio per comportamento asociale e violento, si allontana dalla famiglia, facendo diverse esperienze, compresa quella di modella.

Casualmente viene in contatto con una squadra di Bounty killers, capitanata da Ed Mosbey (Mickey Rourke), uomo vissuto e con pochi scrupoli, nel quale Domino pare rivedere una rassicurante figura paterna. Entrata nel team, trova sfogo alla sua vera natura, guadagnandosi la fiducia dei compagni.

Come già fece in “Man on fire” del 2004, Scott torna ad esplorare una sorta di sottobosco violento e sconosciuto ai più, fatto di soldi, boss della mafia, armi, ricatti e rapimenti. Ma se in “Man on fire” la trama scorreva quasi lineare, in “Domino” essa, dopo un inizio abbastanza chiaro, inizia ad aggrovigliarsi via e via più strettamente, tanto che non solo si stenta a seguirla, ma addirittura si avverte un senso quasi di nausea, persi in questa “sceneggiatura a montagne russe”.

La complessità della trama, però, non toglie phatos alla storia, anzi. Se lo spettatore è in grado di non incaponirsi a voler capire tutto, ma si lascia trasportare dagli eventi, potrà apprezzare le creative e ipertecniche inquadrature di Scott, i suoi impietosi primissimi piani dei visi vissuti o marcati dalle lotte, il suo uso sovraesposto della fotografia (di Daniel M. Shore), il suo personale senso dell’ellissi cinematografica, l’effetto moviola, con repentini e spiazzanti rewind e forward alternati , il suo uso non-lineare del tempo narrativo, la sua particolare estetica dell’estremo.

Una delle caratteristiche ricorrenti che portano il marchio di fabbrica di Tony Scott, ai più attenti, risulterà (come si nota ad esempio anche nel succitato “Man on fire”) la sostituzione della classica carrellata in avanti o dello zoom da un totale verso un primo piano, con un susseguirsi di flash in camera, accompagnati dall’effetto audio.

Personaggi estremi, dunque, affidati a volti vissuti come quelli di Mickey Rourke, Delroy Lindo, Rizwan Abbassi.

O Dale Dickey che, nel ruolo di Edna Fender, traccia una stupenda figura di madre oppressiva e violenta, figura che degnamente si va ad aggiungere ad altre famose dark-mothers dello schermo, come la Ma’ Barker di Shelley Winters in “Bloody Mama” o la Ma’ Jarret di Margaret Wycherly in “White Heat”.

E che dire dell’illuminante apparizione nel deserto di un Tom Waits predicatore con tanto di supposte stimmate?

Esilarante poi, l’introduzione di Ian Ziering e Brian Austin Green, i due ex-Beverly Hills 90210, nei ruoli di se stessi, attorucoli in cerca di futuro?

Uno spazio speciale va sicuramente preso per commentare il ruolo di Christopher Walken, attore per il quale confesso ammirazione sconfinata: nel ruolo di Mark Heiss, produttore di reality senza scrupoli, Walker sfrutta perfettamente il suo sguardo ipnotico e inquietante, esaltandosi alla vista di episodi violenti, o la sua logorrea ossessiva, nello spiegare con candore il business della violenza.

Concludo sottolineando la citazione in video di “The Manchurian Candidate” del ’62 di John Frankenheimer, con protagonisti Lawrence Harvey e Frank Sinatra.

***Da vedere.

 

 

 

 

 

 
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Post N° 8

Post n°8 pubblicato il 24 Luglio 2006 da LaPanceraRosa

Il Codice da Vinci (USA 2006) regia: Ron Howard - col/149 min

Con: T. Hanks, A Tautou, J. Reno, I. McKellen, P. Bettany, A.Molina

Sceneggiatura di A. Goldsmith, dal romanzo omonimo di Dan Brown

La prima cosa che dovrebbe venire in mente ad uno spettatore qualsiasi, alla visione di questo film? Semplice: e il Vaticano è insorto, chiedendo ai fedeli di disertare le proiezioni, per un filmaccio di serie B come questo??

Ma per favore…un insopportabile pasticcio narrativo, con un Tom Hanks improbabile, una Tautou che avrebbe fatto meglio ad astenersi dal tentativo recitativo (pare che la sua unica dote sia aprire la boccuccia e sgranare gli occhi sorpresa: va bene farlo un paio di volte, non per un film intero..) un Paul Bettany semirriconoscibile platinato alla Jean Harlow com’è.

E poi: la sequenza di Fibonacci, il Louvre notturno, i vari dipinti e affreschi di Leonardo da Vinci, i Templari, Gerusalemme, la Maddalena, i Custodi di Sion, l’Inquisizione, la caccia alle streghe, antichi papiri segreti (scritti in inglese, ovvio), sir Isaac Newton e chi più ne ha…fortunatamente, pare che Albert Einstein, il presidente Kennedy e lady Diana, siano stati risparmiati...

Non mi pronuncio sul romanzo omonimo, non avendo avuto il “piacere” di leggerlo, ma la sceneggiatura di Goldsman è più che altro un incubo.

Non un solo punto storico di Parigi è stato risparmiato(o forse, nella confusione, mi son persa Notre Dame?) mescolando storie dai Vangeli a quelle mediovali (Malleus Meleficarum compreso, ovvio), il tutto condito da indovinelli e anagrammi indegni pure della Settimana Enigmistica per principianti…

Howard cerca di leggere questo convulso guazzabuglio, con riprese fantasiose, giravolte in steady-cam, sovrapposizioni di immagini, riprese in dolly dall’alto e dal basso, zoomate spiraleggianti, il tutto inserendo in dissolvenza o in multivision ricostruzioni d’epoca –rigorosamente in CG- nel contesto moderno, senza peraltro dare maggiore pathos o giungere da nessuna parte. Il tutto, in un mattone semi-insopportabile di 2 ore e mezza…

Spezzo una lama in favore del povero Reno, attore di grande carisma ma qui costretto in un ruolo insulso, che gli va evidentemente stretto (Jean Reno, massiccio commissario francese, attivista dell’Opus Dei?? Ma andiamo..)

L’unico punto rilucente in questo assurdo filmaccio, è il grande, grandissimo sir Ian McKellen, che con la sua bravura incomparabile riesce a far risplendere le scene in cui è presente (nonostante i tentativi –risibili- di Hanks di rubargli la scena). Ma quella di McKellen è classe, caro Hanks, altro che “bambacionamenti”american style.

Che dire…confesso di essere felice di aver visto il film gratis, cosi ke almeno ho la soddisfazione di non aver ingrassato, nel mio piccolo, le tasche ne di Brown, ne di Hollywood.

Ron Howard farebbe meglio a ritornare (se mai ci è andato, cosa di cui dubito fortemente) a scuola di Cinema e di porre maggiore attenzione alle storie in cui si imbatte, perché (ma forse non se ne è accorto) ne è passato di tempo dalle allegre storielle di Happy Days…

 * Da perdere senza rimpianti

 

 
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Post N° 7

Post n°7 pubblicato il 31 Maggio 2006 da LaPanceraRosa

Dopo un periodo di silenzio, oggi torno a scrivere nel mio blog. L'argomento è, come sempre, un film.

Titolo e credits: X-Men: Conflitto Finale (X-Men: the Last Stand)- USA 2006 - Regia: B.Ratner - Interpreti: P.Stwart, I. Mckellen, H. Jackman, H.Berry, F.Janssen.

Trama: I mutanti, sempre in contrasto con gli umani, hanno ora una scelta possibile: optare per la cosiddetta "Cura" per liberarsi dei loro poteri e vivere come persone normali. Fra sostenitori e detrattori, il dr. Xavier e il suo team cercano di giungere ad un compromesso, ostacolati come sempre dal rivale Magneto. Quest'ultimo ha ora una nuova, temibile alleata: è Phoenix, la rediviva Jane Grey, o meglio, il suo lato oscuro.

Commento al film: Questo terzo e (pare) conclusivo capitolo della saga sui mutanti, è diretto da un nuovo regista, Brett Ratner che ha sostituito il regista dei 2 precedenti episodi Bryan Singer. La storia degli X-Men è ormai nota ai più e poco o nulla pare Ratner e gli sceneggiatori Kinberg e Penn abbiano da aggiungere.

La dottoressa Jane Grey, ormai non più padrona del suo lato oscuro, diventa addirittura una nemica giurata degli X-Men; Magneto (che ha sempre il carisma di sir Ian McKellen, credibile anche se indossasse la maschera di Topolino...), la domina e la usa come arma.

Wolverine sembra sia passato alla beauty farm, per un ritocco all'acconciatura; cosa che invece non pare abbiamo fatto Tempesta e Rogue (la prima come emula di Raffaella Carrà, la seconda come nipote della Sposa di Frankenstein..)

Insomma, il tanto sbandierato ritorno "dark" degli X-Men, a me pare sia passato dal personal trainer, e il regista Ratner fa rimpiangere la direzione di Singer e a calde lacrime.

Anche il conflitto generazionale e sulla diversità dell' X-men Angel col potente padre, si riduce a poco più di un gap da telefilm adolescenziale.

E che dire di Rebecca Romijn-Stamos, così sensuale e intrigante nei panni (succinti) di Mystica e così "ordinaria" - addirittura in tailleur- come se stessa?

L'unica nota positiva pare essere la perdita (volontaria) dei poteri di Rogue (poteri che non si è ancora ben capito a cosa servissero, se non a far venire la verminazione ai malcapitati), che finalmente può baciare il suo fidanzato e addivenire ad una normale vita sessuale (problema che pero', a dirla tutta, ben poco ci toglieva il sonno).

Qualche bella scena di massa (il bosco e il "trasloco" del Ponte di Brooklin), non risolleva più di tanto, e rende ben poco migliore un film che, a dirla tutta, ho trovato a tratti addirittura noioso.

E dire che sono stata una fan dei primi due X-Men...

** Passabile

 
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Post N° 6

Post n°6 pubblicato il 03 Aprile 2006 da LaPanceraRosa
Foto di LaPanceraRosa

Bene, per aggiornare questo blog, oggi parlerò del film V for Vendetta.

Titolo e credits:

V per Vendetta (V for Vendetta) 2006 - Regia: James McTeigue. Interpreti: Hugo Weaving, Natalie Portman, Stephen Fry, John Hurt. Dal fumetto omonimo di Alan Moore. Scritto e prodotto da Andy e Larry Wachowski.

Trama:

La Germania, vincitrice della II Guerra Mondiale, ha trasferito il suo credo politico alla Gran Bretagna, facendone una nazione nazista e spietata. V, misterioso vendicatore mascherato che prende a modello Guy Fawks (che, nel 1605, tentò di far saltare in aria la Camera dei Lords inglese), si oppone strenuamente al regime. Salvando la giovane Evey, la rende sua adepta. Ella proseguirà nell'impresa iniziata da V.

Commento al film:

Diretto da James McTeigue, ma osservando bene, più dai Wachowsky Brothers (quelli di Matrix, per chi non lo ricordasse) e interpretato da Hugo Weaving (il gelido Mr.Smith sempre da Matrix), V for Vendetta è un film totalmente atipico se confrontato con altre pellicole dedicate a più o meno conosciuti supereroi.

V, eroe celato dietro una maschera e un abbigliamento ripresi dallo stile di Guy Fawks, coltiva il desiderio di rendere di nuovo libera la Gran Bretagna, che i nazisti hanno politicamente colonizzato alla fine della II Guerra. Egli si ispira ai grandi ideali del passato (Fawks per primo), guardando a ciclo pressochè continuo "Il conte di Montecristo" film del '34 di R.V.Lee con Robert Donat come protagonista; ne conosce a memoria le battute e si commuove immancabilmente al finale (scopriremo in seguito anche perchè il personaggio di Montecristo lo ispiri tanto..). Potrebbe sembrare un eroe di mezza tacca, un illuso della democrazia, ma....bhe, V non è assolutamente così. Meno "ingombrante" (e, di sicuro, meno american-style) di Superman, di Batman, di Capitan America o altri, V è una sorta di estremista liberale che si esprime con frasi leggiadre tratte da Shakespeare, poeti e pensatori. Questo fa di lui una sorta di finissimo affabulatore, che porta strenuamente avanti la propria crociata contro l'oppressione del popolo.

E' un finissimo spadaccino, usa i coltelli come fossero penne da inchiostro, facendo strage di nemici. Ma non si limita all'azione fisica: diffondendo via etere musica e parole, incita il popolo alla rivolta, non pretendendo di essere il solo artefice della liberazione.

Nella sua dìimora-cripta segreta, accumula tesori d'Arte di ogni genere (quei tesori che il governo oppressore considera "immorali" e quindi da distruggere), fra i quali spicca uno stupendo Van Eyck, ma anche la locandina di "White Heat", noir di culto diretto da Raoul Walsh nel '49.

Gradualmente, V ci coinvolge nella sua lotta, votandoci ai suoi ideali (violenti ma, per così dire, "necessari"), "coadiuvato" (involotariamente) in questo dalla spietata ferocia del dittatore Sutler (uno strepitoso John Hurt, che si ispira, in parte, al ruolo che fu di Richard Burton in "1984"), fino al fantasmagorico e pirotecnico finale.

V non ci mostrera' mai il volto (a discapito del suo interprete, che si vede costretto a fondare tutto sulla dialettica), bensì sarà il popolo ad assumerne le sembianze.

Osannato o denigrato a morte dalla critica, V for Vendetta è invece (e semplicemente) un bel film che punta soprattutto sull'interpretazione degli attori (in special modo su quelli "secondari", che hanno le facce e la superba maestria, oltre che del succitato Hurt, di Stephen Fry, Sinead Cusack, John Standing, fra i più noti), più che su centinaia di duelli ed effettoni a go-go (tranquilli, è pur sempre un Wachowski-film...)

Non commento ulteriormente la presenza di Natalie Portman, pur discreta (specialmente in bellezza) per il semplice fatto di essere ancora traumatizzata dalla sua interpretazione della Regina Padme in Star Wars. Il complesso personaggio di Evey, a mio giudizio (specialmente nelle scene della sua"indottrinazione"), richiedeva una interprete di maggior spessore (ricerca che, ai tempi attuali, non è impresa di poco conto...)

***Da vedere

 
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Post N° 5

Post n°5 pubblicato il 05 Febbraio 2006 da LaPanceraRosa
Foto di LaPanceraRosa

Oggi scriverò di un film che sta facendo molto discutere: Munich di S. Spielberg.

Come molti sapranno, il film parte dall'atto terroristico dei Giochi Olimpici di Monaco del 1972, quando un gruppo di terroristi palestinesi appartenenti a Settembre Nero, prese in ostaggio diversi membri della squadra olimpica israeliana. Dopo 21 ore di trattative, tutti gli ostaggi (e quasi tutti i terroristi) furono uccisi.

Spielberg tratta marginalmente tale evento, concentrando la trama su un ipotetico seguito di accadimenti, ossia la vendetta perpetrata dal Mossad (il servizio segreto israeliano) contro i mandanti dell'atto terroristico.

A differenza di quanto era stato fatto nel caso del rapimento del criminale nazista Eichmann (prelevato a forza dall'Argentina e tradotto in Israele per essere processato), in questo caso si tratta di pura vendetta: uccisioni sommarie senza processo.

Il Mossad forma un gruppo di 5 agenti, ponendo alla guida Avner, agente scelto già addetto alla sicurezza del premier israeliano Golda Meir.

Il gruppo, ucciderà progressivamente quasi tutti i mandanti palestinesi.

Questi i fatti. Ma parliamo di cinema.

I primi minuti del film, in cui Spielberg racconta per immagini (non c'è quasi dialogo, essendo i protagonisti di lingue differenti) sono eccellenti: una fotografia cruda, livida descrive freddamente solo i fatti, i movimenti di macchina sono sgraziati, nervosi a sottilineare la tensione. Bravo Steven.

Ma qui il film si ferma. Le oltre due ore e mezza successive sono un guazzabuglio di luoghi, di nomi, di eventi più o meno verosimili, di esplosioni più o meno riuscite, di pedinamenti, di ansie, di semi-pentimenti e semi-giustificazioni. Mai il Mossad (considerato il miglior servizio segreto del mondo) fu più pasticcione e disorganizzato.

Il protagonista (l'Eric Bana che già fu Hulk ed Ettore) ha la stessa carismatica espressività di un frullatore guasto. Pare possieda 2 sole espressioni - pensieroso e triste- ma il difficile è stabilire chiaramente quando le usi.

E' noto a tutti che Spielberg sia di religione ebraica (Darei la mia vita per Israele, fu una sua frase) ma, in questo film, pare titubante se dar ragione agli ebrei od agli arabi.... tutti hanno le loro ragioni, i loro torti, i loro scheletri nell'armadio.

Spielberg resta clamorosamente in bilico, non tenta a quanto pare di porre il piede in una sola staffa: lo fa esclusivamente quando ci coinvolge quali spettatori attoniti nel prefinale. In un montaggio alternato, mostra Avner che fa l'amore con la moglie mentre rievoca mentalmente il brutale omicidio degli ostaggi. Ma la nostra partecipazione è limitata agli eventi di Monaco, mentre restiamo quasi indifferenti allo sguardo allucinato di Avner, ormai conscio di essere un semplice assassino al servizio del Mossad.

E quel finalone, con l'inquadratura della sky-line di New York, dove ancora troneggiano le Torri Gemelle, monito alla follia terroristica a venire...

Caro Spielberg, si fa presto a dire che si darebbe la vita per la propria Patria di origine, nel lusso di ville hollywoodiane... ma si fa anche presto a capire che Munich non è Schindler's List che, affrontando temi raccapriccianti a noi ben noti, difficilmente necessitava di prese di posizione.

Hai cercato di parlare di Pace dove pace nn c'è; hai parlato di possibile convivenza, hai cercato di pungerci nel vivo del nostro occidentalissimo sdegno, ma il tuo pungiglione era intriso di un veleno melenso e deboluccio, mescolato agli ingredienti di un american sunrise cocktail.

Vai a Sabra, vai a  Chatila, nelle alture del Golan, sulla striscia di Gaza, vivi in un kibbuz, nei campi profughi, guarda le rovine di Beirut, passa da Nablus, Hebron e Ramallah, soggiorna a Gerusalemme o dovunque vuoi in quei territori martoriati, che siano ebrei, arabi, filopalestinesi, filosiriani, filo-quel-che-ti-pare: poi torna e dicci in faccia "Darei la vita per la mia Patria e per la Pace". Ma diccelo sicuro, prendendo posizione, non sorseggiando un ottimo Martini.

**Passabile

 
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Post N° 3

Post n°3 pubblicato il 18 Gennaio 2006 da LaPanceraRosa
Foto di LaPanceraRosa

Il Cinema Orientale è sogno o realtà?

Dunque...per cominciare, ringrazio le persone che hanno fatto una capatina nel mio blog!!! Avrebbero fatto meglio a impiegare più saggiamente il loro tempo ma...ormai è fatta!!! Scherzi a parte, siete stati gentili, anche nei messaggi.

So che la mia passione per il Cinema d'epoca a volte può generare perplessità. Ma quello che io scrivo qui è frutto del mio grande amore sia per il cinema che per le arti visive in genere.

Anche se i puristi dell'Arte a questo punto si metteranno le mani nei capelli, posso dire che un Picasso non mi da le stesse emozioni di un Caravaggio; o almeno, me ne da di differenti.

Non affermo certo che Picasso non sia un grandissimo pittore, lungi da me ma, dovendo scegliere... regalatemi un Caravaggio!

Evidentemente, è una mia mancanza. Ma, in un'epoca di incertezze come la nostra, mi conforta averne almeno 2 o 3, siano pure esse errate.

Il Cinema d'epoca mi piace, mi da emozioni grandi. Il Cinema moderno, poche.

Mi riferisco al cinema statunitense, in particolare. Lo strapotere di Hollywood è evidente.

Quando uscì qui in Italia  “Hero” di Zhang Yimou, mi sconvolse vedere che, sulla locandina, la frase iniziale, a lettere cubitali, diceva: TARANTINO PRESENTA....

Dal momento che il film avrebbe avuto difficoltà ad essere “accettato” dal pubblico americano, Tarantino scese in campo e fece pressione fino alla sua distribuzione.

Ora, pur non avendocela troppo con Tarantino, mi sconvolse pensare che ci si riallacciava al suo successo con “Kill Bill”, per promuovere un film come “Hero”, di un regista premiatissimo come Yimou (Orso d'oro a Berlino per "Sorgo rosso", Oscar, David di Donatello e Leone d'argento per "Lanterne rosse", Leone d'oro e Coppa Volpi a Gong Li per "La storia di Qiu Ju", premio speciale della giuria di Cannes per "Vivere!", Leone d’oro a Venezia per “Non uno di meno” tanto per citare i più noti) .

E se qualcuno avesse mai a dire che un film come Kill Bill possa anche lontanamente aver a che spartire con il geniale Hero, sappia che potrei anche diventare violenta…

Ecco, Hero è, ad esempio, un film “moderno”. Ma non a caso, non è statunitense. Il cinema orientale, anche negli esempi più recenti, lo trovo interessantissimo.

Accennerò solo a “La tigre e il dragone”, pellicola troppo americanizzata, nonostante un disegno orientale di fondo. Non nego un suo certo valore (i suoi 4 Oscar nel 2000, dimostrano solo che negli USA si premiano più spesso film “a misura di pubblico americano”), ma Ang Lee è troppo influenzato dalla sua permanenza negli USA. Il suo “Wu-Xian” pur mantenendo le sue basi orientali, è più simile a “Matrix” dei “fratellini prodigio” Wachowski (non a caso i due film sono dello stesso coreografo di duelli, Yuen Woo Ping) che ai classici Wuxiapian di Hong Kong (ad esempio “La fanciulla cavaliere errante” del ’72 di King Hu o il più recente “Storia di fantasmi cinesi” del 1987 di Ching-Siu Tung, solo per citare a caso). Il filo diretto che lega il wu-xian alle filosofie orientali (allo Zen in particolare) nel film di Ang Lee si sfilaccia parecchio, a favore di una pura spettacolarizzazione.

Sarebbe un po’ come paragonare i duelli e le giostre sapientemente coreografati di “Ivanhoe” o “l’Arciere del re” con la cappa e spada ridanciana e improbabile di “Toto’ contro il pirata Nero”.  Entusiasmanti le prime, divertente, rumorosa e disarticolata la seconda.

Tornando ad “Hero”, confesso che alla sua uscita sono andata a vederlo con l’amaro in bocca di quel “Quentin Tarantino presenta…un film di Zhang Yimou”; la Thurman che brandisce la sua katana mi rimbalzava fastidiosamente nella mente ma, dalla prima scena, il tocco delicato e profondo del fine cineasta cinese, mi ha cancellato immediatamente quell’immagine dalla testa.

Il film è permeato di un fascino totalmente orientale, con un sapientissimo uso dei silenzi, degli spazi vuoti, delle pause nell’azione.

Yimou (come sempre nei suoi film) utilizza con rara maestria il colore: elaborato non solo a fini puramente estetici, bensì come elemento fondamentale nella trama. I colori puri, perfetti, divengono essi stessi narrazione, determinando non solo gli stati d’animo ma sospendendo la narrazione stessa in un attimo puramente infinito.

In alcune scene in particolare l’uso diegetico del colore sembra evidente: il duello tra Neve che vola e Luna, nel quale le foglie gialle sugli alberi e sul terreno (la rabbia, la gelosia e il risentimento), come la singola goccia di sangue che sgorga dalla ferita, si trasformano in rosse (la passione, la ferocia). O il duello tra Spada Spezzata e l’Imperatore, in cui i teli verdi che si frappongono tra i due duellanti, sembrano rappresentare l’odio fra i due ma, più genericamente, tutto l’astio accumulato da una intera nazione contro un Imperatore i cui scopi non vengono compresi.

E quando Neve che vola decide di immolarsi per permettere a Senza Nome di raggiungere l’Imperatore, il suo abito è bianco, vittima sacrificale per un’intera Nazione.

Ma sono solo alcuni esempi, perché la pellicola è una fucina continua di idee, di sensazioni: colma la vista e i sensi dello spettatore.

Più volte, gli addetti ai lavori, hanno sottolineato la sottile linea che collega il film di Yimou al “Rashomon” di Kurosawa: ma personalmente, lo vedo forse più collegato al “Ran” dello stesso autore nipponico, non foss’altro che per l’uso dei colori, netti, taglienti.

Spesso ho sentito definire il film di Yimou con termini quali lento, lentissimo, pesante, onirico, incomprensibile per gli occidentali: e forse lo è. Ma ben venga la lentezza, se questa lentezza porta con se una sì rara poesia. Se nel nostro occidentale e caoticissimo mondo, sempre più pressante pare la necessità di velocità, a volte un poco di lentezza, di indugio – di quell’indugio sognante che avvertiamo proprio in “Hero” – sarebbe da ricercare. Forse proprio come Spada Spezzata, che traccia per ore caratteri nella sabbia, alla ricerca della perfezione grafica di una sola parola. Ma è un Sogno, dolcemente e dolorosamente impossibile.

 

Commento a Hero: ****Piccolo Capolavoro

 

 

 

 

 
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Vi parlo di...

Post n°2 pubblicato il 11 Gennaio 2006 da LaPanceraRosa
Foto di LaPanceraRosa

Visto che probabilmente i pochi e temerari visitatori di questo blog avranno capito come io sia una fanatica del Cinema del passato, vorrei parlarvi di un grande film, di uno dei miei registi preferiti. Il film è "Nodo alla Gola", il regista, il grande Alfred Hitchcock.

Film: Nodo alla Gola

Genere: thriller USA 1948 - colore - durata: 80 min Regia: Alfred Hitchcock - Sceneggiatura: Arthur Lawrence ( da una commedia di P. Hamilton )

Interpreti: James Stewart, Farley Granger, John Dall, Joan Chandler, sir Cedric Hardwicke.

La trama:

Pochi minuti prima dell’inizio di un cocktail da loro stessi organizzato due studenti, Brandon e Philip, uccidono un collega universitario, senza motivo apparente, e ne celano il corpo in un antico cassone posto nel salotto dell’appartamento che condividono. Tra gli ospiti è presente un loro docente che, insospettito da pochi e sottili indizi, riuscirà a ricostruire l’accaduto e a far confessare i due giovani omicidi.

 

La critica e il commento:

Il film, definibile “thriller psicologico”, è tratto da una commedia teatrale di P. Hamilton, a sua volta ispirata da un fatto di cronaca realmente accaduto. Trentesimo film di Hitchcock, è noto anche con il titolo di “Cocktail per un cadavere”.

Si tratta di un grande, innegabile esercizio di stile, poiché l’impianto di tipo teatrale del testo, ha suggerito al regista di risolvere il film con l’impiego di un unico, lunghissimo, piano sequenza.

In realtà, i piani sequenza sono più d’uno, raccordati magistralmente.

Tale escamotage ha permesso di rispettare sia l’unità di tempo che quella di luogo: il film infatti dura esattamente quanto la vicenda “reale” ( circa 80 minuti ) e l’azione si svolge per intero all’interno dell’appartamento dei due studenti. Oltre la finestra, per accentuare la sensazione del reale scorrere del tempo, le luci si incupiscono lentamente, a simulare un pomeriggio che diviene notte. La macchina da presa rappresenta l’occhio dello spettatore in sala  che segue la scena e i movimenti dei protagonisti. Per riuscire nell’intento illusorio, si è reso necessario un perfetto coordinamento tra movimenti di macchina, luci e microfoni, mentre sono stati impiegati fondali mobili di tipo teatrale che, a differenza di quelli cinematografici, consentono spostamenti più rapidi.

Una delle particolarità della pellicola comunque, resta il sottinteso ruolo del cadavere che, dall’interno della cassa dove è stato occultato e all’insaputa degli ospiti, sembra seguire con interesse lo svolgersi della vicenda, quasi ammiccando allo spettatore che, voyeur suo malgrado, sa bene cosa si celi all’interno di quell’ingombrante mobilio.

Non va trascurato neanche il lavoro sui personaggi: l’apparente e assoluta mancanza di movente dell’omicidio, quasi che esso stesso sia un puro “esercizio di stile”, l’assoluta  amoralità nel commettere il delitto, la travagliata e solo sottesa relazione gay ( non palesata data la bigotta censura dei tempi ) tra Brandon e Philip , forse alla base dell’omicidio,  il latente concetto di superuomo.

Particolare attenzione poi viene riservata nel delineare la figura del professore ( uno strepitoso Jimmy Stewart ) che, inconsapevolmente, riveste l’inquietante ruolo di “cattivo maestro”. Lentamente, con sempre maggiore raccapriccio, questi ( e con lui, lo spettatore ) giunge alla comprensione di come all’origine della serie di eventi vi sia una aberrata e allucinante interpretazione dei suoi insegnamenti filosofici che, metaforicamente e del tutto ipoteticamente, ponevano i più meritevoli in cima alla scala gerarchica umana.

Dei due attor giovani, John Dall ( Brandon ) in particolare, delinea un interessante modello di psicotico egocentrico dominante, convinto assertore della propria superiorità ( in ossequio al mito nietzschiano dell’ “Ubermensch” ) mentre, a far da contraltare, troviamo un  Farley Granger ( Philip ) nevrotico e disadattato, pavido succube del suo compagno, degno antesignano del Norman Bates di Antony Perkins in “Psyco”.

Da antologia la scena iniziale, un classico omicidio “silenzioso”, segno distintivo del regista britannico. Il primissimo piano della corda utilizzata per lo strangolamento ( che, significativamente, da il titolo al film stesso ) rende completamente e freddamente partecipe lo spettatore dell’omicidio appena commesso,  testimone muto e impotente del delitto.

Leggermente sottovalutato, forse per le difficoltà insite in un classico “delitto della camera chiusa”, il film riesce invece a tutt’oggi a coinvolgere lo spettatore più attento nella sua atmosfera tesa e claustrofobica, in un “lento turbinare di eventi” che porteranno al disvelamento finale.

Nel 2002, il regista B. Schoeder, ha chiaramente preso spunto da “Rope” nel realizzare “Formula per un delitto - Murder by Numbers”, mediocre detective-movie interpretato e prodotto da Sandra Bullock, del tutto imparagonabile all’eccellente antenato, se non forse per il concetto di “delitto operato per noia”, deviante evoluzione della perversione psicotica superomistica trattata da Hitchcock.

****Piccolo Capolavoro

 
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Post N° 1

Post n°1 pubblicato il 07 Gennaio 2006 da LaPanceraRosa
Foto di LaPanceraRosa

Dunque... mi scappava proprio di creare un blog... non me ne vogliano gli eventuali visitatori.

Ho scelto un argomento come il Cinema che, se non altro, conosco un minimo (creare un blog sulla terza legge della Termodinamica mi sembrava inopportuno, anche perchè non so assolutamente cosa dica la terza legge...).

Il titolo che ho scelto, Cinema old o new, riguarda l'annosa domanda, se sia cioè meglio il cinema attuale o quello del passato.

La mia risposta è sempre (o quasi) il vecchio. Purtroppo. Dico purtroppo perchè anche a me piacerebbe dire che ai nostri tempi vengono realizzati grandi capolavori. Confesso che li cerco, ma non li trovo.

Trovo invece una banalità sconvolgente. Vasta quanto il mare.

Prequel, sequel, remake, rivisitazioni, rimpasti, ibridazioni. Ma di nuovo, poco o nulla. Tutto è ripreso, continuato, modificato, distorto, capovolto.

Uno degli esempi più eclatanti di che tipo di cinema si fa oggi, è senza dubbio l'utilizzo degli eroi dei fumetti, che il cinema americano ha scoperto (o ri-scoperto) e utilizzato trasportando le loro avventure dalla carta stampata al grande schermo.

Dopo i primi tentativi, visto il successo di pubblico, la macchina cinematografica ha ingranato la quarta, sfornandone a decine. Spiderman, Hulk, Batman, I Fantastici 4, Daredevil, Catwoman sono solo alcuni degli esempi possibili. Ovviamente, i più visti e apprezzati, ottengono immediatamente un secondo e un terzo capitolo. Anzi, per risparmiar tempo, si girano i 3 episodi (numero magico secondo Hollywood) quasi contemporaneamente, per "ottimizzare la produzione".

"Ottimizzare". Che bella parola, eh? Ma, secondo il mio vocabolario, la parola ottimizzare intende rendere al meglio una determinata cosa; secondo Hollywood, invece, ottimizzare pare ridursi esclusivamente al significato tayloristico del termine: massimo risultato col minimo sforzo.

Cito una battuta del mitico Dr."Bones"McCoy in Star Trek II (...L'Universo è stato creato in 6 giorni? Bene, guardate noi: col progetto Genesi ve lo faremo in 6 minuti..."). Ecco appunto. Il cinema di oggi, spesso, è fatto così. Sarà anche ammirevole nel risultato tecnico, per carità (i computer generatori di immagini alleviano i dolori dei tecnici, i software che formattano le sceneggiature e gli story-board, quelli dei creativi e dei registi) ma si perde molto nel resto. Molto? A mio giudizio, troppo. 

La poesia insita nell'atto creativo di un'opera cinematografica si perde. Tutto va a velocità massima, tutto è progettato e predefinito. Il colpo di genio del regista, la correzione dell'ultim'ora del dialogo, l'inciampo leggero della MdP, l'esitazione quasi impercettibile dell'attore, un tempo messi in conto e, addirittura, in seguito venerati dagli appassionati, sono ora additati come aberrazioni intollerabili alla perfezione della macchina-cinema. 

Nostalgicamente, ripenso a volte alla carrellata in avanti alla prima apparizione di John Wayne in "Ombre Rosse" di John Ford: la MdP ha un leggerissimo e imprevisto sobbalzo, mentre l'operatore perde per un attimo il fuoco, ripristinandolo "in corsa": un errore che Ford mantenne in fase di montaggio, non tagliando o girando nuovamente la scena. Una piccola perfetta imperfezione.

Ma erano altri tempi, con un'altra tecnologia, con un concetto diverso del termine "fare film".

Si, erano altri tempi. Altri film. Era Cinema

 
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