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TRENTOTTO - Un divano bianco

Post n°39 pubblicato il 19 Giugno 2010 da passato_per_caso

Era una bella giornata  quel sabato di maggio quando, animato dalle migliori intenzioni, entrò in quel negozio di mobili, l’ennesimo, per decidere dell’acquisto di un divano nuovo.

Non che la cosa sarebbe cambiata poi di molto se invece del sole l’avesse avvolto il turbinio d’un acquazzone. Lui il sole per quel giorno, quello scopo, ce l’aveva dentro.

Gli piaceva entrare in quelle grandi esposizioni ed attardarsi nel guardare ogni singola proposta, a fantasticare del come e del perché avrebbe potuto fare quella scelta oppure quell’altra, di come poterla integrare con la restante parte dei mobili, di quale casa, addirittura, avrebbe meglio accolto ora una soluzione ora l’altra.

Non è che fosse sprovvisto di idee. Tutt’altro. Solo gli piaceva impegnare una parte di quel tempo per divagare.

Amava sedersi dal lato del cliente, ascoltare quello sciorinar di parole che il venditore avrebbe disteso per spiegargli, illustrargli, motivargli un possibile acquisto.

Non era un cliente facile, lo ammetteva, e non perchè avesse gusti bizzarri quanto perché, piuttosto, li aveva fin troppo decisi.

Prima di ogni acquisto, per quanto possibile, soprattutto se importante, amava documentarsi del come e del perché, cercava di darsi una ragione, una logica, un metro di giudizio e di paragone tanto per non lasciarsi cogliere impreparato di fronte a qualche alternativa. Tanto perché, alla fine, amava sedersi da pari a pari con il venditore e dialogare, cercando di portarlo fuori dal seminato, o per meglio dire, sul suo seminato,  a discorrer di cose legate alla qualità, alla vera essenza della merce. Come se la merce non fosse tale, dico articoli da prendere e volere, ma piuttosto avesse un anima legata al processo di pensare di un suo costruttore e prima ancora di un progettista e poi via, via fino all’ultimo degli operari addetti alla sua costruzione, al suo montaggio.

Chissà perché quando pensava alla natura delle cose, alla loro qualità, lui pensava all’anima? Come se fosse un destino cercar sempre oltre l’apparenza della scorza, oltre la superficie, ci fosse sempre e comunque da trovare un punto oltre, il cuore, se volete, o la radice.

Sapeva se non tutto, molto, almeno, delle qualità obiettive da cercare in un divano. Sapeva del come e del perché della sua struttura, avrebbe dialogato se non per ore, per il tempo necessario a farselo svelare, del segreto dei grammi di schiumato, quelli che determinano la rigidità della seduta e poi la sua durata.

Sapeva, come molti sapevano, che un rivestimento sfoderabile avrebbe nascosto meno una imbottitura spartana, o una costruzione approssimata, sapeva, come altri sapevano del resto, che una seduta in pelle, grazie alla totale cucitura, poteva contenere e nascondere difetti maggiori.

Il primo modello che gli presentarono aveva un letto dentro. Conosceva vizi e segreti d’ogni meccanismo e le virtù richieste ad una buona rete ed al suo materasso. Ma a lui non serviva un letto, voleva un semplice divano per potercisi sedere sopra o al limite, appisolarsi in un sonnellino ristoratore.

Ne vide un altro con un bel contenitore. Non aveva fretta di concludere lo esaminò con cura lasciando al venditore il verso di spiegarlo per bene.

Lo lasciò alle spalle con uno sguardo caduto nel vuoto che esprimeva bene  il nulla dell’interesse che aveva destato.

Maestoso, quasi tronfio della sua imponenza, si mostrò il terzo, con tanto di schienale che si ribaltava e cuscino per le gambe a rialzarsi con un comodo meccanismo, così disse il venditore, che a lui ricordò tanto la poltrona d’un dentista. Meglio tergiversare, magari un trapano dimenticato si sarebbe insinuato nella sua bocca nel più bello del riposo.

Eccoli, finalmente, i divani in stoffa. Tessuti di varia foggia, fibra e colore. Eccola la meta dove il suo Giudizio (pre-giudizio) di Qualità avrebbe trovato giusto punto d’arrivo.

E proprio mentre s’accostava al quel punto eccolo lì, sbucare da un angolo. Gli cadde l’occhio e quasi subito distolse l’attenzione. Ma poi, quasi per un che di nascosto, lo riguardò

S’accese un dialogo improvviso fra lo sguardo e la ragione. Il primo sembrava non mollare la sua attenzione, l’altra inviava continui impulsi a disturbare quel tempo trascorso ad osservare.

Era un divano bianco e per giunta in pelle, con il terminale ad un lato fatto da una chaise longue. Era un divano bianco di quelli che ogni persona dabbene, razionale e con la mente ordinata, avrebbe scartato a priori, certo del non poter durare di quella candida veste all’uso ed all’usura.

Ed era in pelle poi, l’involucro che il suo sapere sapeva poter contenere qualsiasi cosa, altro che qualità della seduta: polvere e segatura finanche.

S’accostò e portò le dita a saggiar la consistenza. –“E’ pieno fiore spessorato”- disse il venditore e per sottolinearlo pizzicò con energia.

Il cervello lanciava segnali come un flipper impazzito:- stacca lo sguardo !”- pareva urlare.  Evocava con immagini paesaggi prossimi a venire: quell’alone nero laddove ci si sarebbe seduti più frequentemente, l’afflosciarsi certo del cuscino. Ogni tragedia poteva essere prevista.

Eppure l’occhio non demordeva, battagliava l’istinto contro ogni logica. Quel divano, quel profumo di pelle, quel candore, avevano catturato il cuore e il venditore, come un matador che ha menato il toro per la plaza lo attendeva al varco della lidia nel suo tercio de muleta e, deposta la pesante cappa, con la spada in mano aspettava l’attimo per conficcarla oltre le spalle dritta dentro al muscolo che impazzito palpitava avverso ad ogni ragione.

Si sedette e poi richiuse gli occhi, come un segno di resa.  Poteva pur costare il prezzo d’una intera stagione, pensò, quello sarebbe stato il “suo divano”. Sentì la voce dell’altro come un corpo estraneo scivolargli accanto un poco distante. Parlava ma ogni parole cadeva un poco oltre senza intaccarlo e nemmeno sfiorarlo. Nulla poteva turbare o cambiare il destino di un legame che si saldava, indissolubile, in quell’intimo gesto d’una seduta che lo accoglieva fin quasi a diventare abbraccio.

Ogni altra parte dell’arredo di quella sua prossima casa poteva restare indeterminato. Quello sarebbe stato il divano.

Alla ragione che oppose l’ultimo richiamo lanciò uno sguardo e poi il pensiero della sua sentenza: -“nella vita ho imparato che nulla resta “per sempre” ed il futuro è imperscrutabile, per quanto t’ingegni o tenti d’organizzarlo lui, beffardo, pare animarsi d’una sua predisposizione. Chiamalo fato, destino o caso, chiamalo gioco della parti o incerto. Chiamalo come ogni ragione t’impone di chiamarlo. Questo divano è bianco e pur di pelle, la sua seduta s’affloscerà il suo colore cambierà sporcandosi nel lasso d’un tempo che non sappiamo ora determinare. Tutto avverrà come tutto accade nella vita dove il “per sempre” per quanto lo si voglia ordinare, sarà l’unità di tempo che porterà da un punto ad un altro, in un tempo che non sai preordinare, e terminerà “per sempre” senza alcun preavviso. Perché così vanno le cose e il mondo in questa vita e se una cosa ti applichi per farla durare “per sempre” ci sarà sempre un punto, o un cosa o un dove che ti dimostrerà che quel “per sempre” dura quanto il virginale candore d’un rivestimento in pelle della seduta  di un divano, cioè “per sempre”, fino alla prima macchia.”-

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 

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