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UN DOLORE E UN GRIDO DI SPERANZA

Post n°149 pubblicato il 15 Gennaio 2010 da diefrogdie
 

UN DOLORE E UN GRIDO DI SPERANZA

La tragedia di Haiti – e i conseguenti interrogativi esistenziali para-filosofici che ne scaturiscono – mi ricordano molto la vicenda narrata nel “Candido” di Voltaire.
Candido o l'ottimismo
è un racconto filosofico di Voltaire che mira a confutare le dottrine ottimistiche quale quella di Leibniz. Lo scrittore francese fu stimolato sicuramente dal terremoto di Lisbona del 1755
che distrusse la città, mietendo molte vittime. Voltaire scrisse prima un poema sul cataclisma e successivamente redasse il Candido. Nonostante la presa d’atto dell’esistenza del male, non risulta, comunque, che Voltaire nel Candido esalti il pessimismo, quanto si limiti a stigmatizzare la pretesa di "vivere nel migliore dei mondi possibili", precetto su cui Leibniz montò il cardine della propria filosofia. Non a caso l'illuminista francese incarna nella figura del precettore Pangloss il filosofo tedesco, intento ad istruire il giovane Candido a vedere il mondo che lo circonda con ottimismo, sebbene si succedano in continuazione controversie e disavventure.

 

Un commento di carattere filosofico-poetico – che porta pure un bagliore di speranza – l’ho ritrovato in questo articolo del poeta Davide Rondoni, dal titolo “E noi apriamo le nostre palme vuote”. Un dolore e un grido di speranza.

La tragedia di Haiti lascia senza fiato. Gigantesca. Più di quanto si immaginava. Il numero delle vittime imprecisato, si parla di decine e decine di migliaia. In una parte di un’isola già povera e provata da miseria e fatica di vivere, si è abbattuta una sventura che lascia attoniti. Come se a sventura si aggiungesse sventura in un baratro senza fondo. Haiti, nome esotico e di buia miseria. Nome di terra lontana. Di popolo provato e povero. E il fiato non si sa dove prenderlo. Se metti la faccia tra le mani, il respiro non torna. E se anche ti volti da un’altra parte, il respiro non torna. E se ancora maledici i terremoti, non torna. Come non tornano le decine di migliaia di innocenti. I bambini e le donne. Come non tornano i sepolti vivi.

Un raddoppiamento di male. Di sventura. Un raddoppiamento di catastrofe. Una insistenza del dolore e della mancanza di fiato.

Come se nessun "perché" gridato in faccia a nessuno e nemmeno gridato in faccia al cielo potesse esaurire lo sconforto, e la durezza che impietrisce davanti al disastro e alle immagini di disastro. Nessun "perché" rigirato nelle mani, nessuna domanda ricacciata in gola, può esaurire l’inquietudine. Una doppia ingiustizia. Una moltiplicata sventura.

Anche il cuore più sordo sente il grido di questa sventura. Anche il cuore più duro si crepa davanti alla morte che domina così apertamente, così sfacciatamente. Anche l’anima che non sospira mai, sente il fiato che si tira. Il fiato che non arriva. Il fiato che si rompe.

Quasi non si arriva nemmeno alla domanda, lecita, urgente di cosa si può fare, di fronte a questa tragedia. Quasi non si arriva a formulare nessuna domanda su cosa fare, perché si rimane inchiodati a una domanda più forte, più radicale: cosa possiamo essere? Sì, insomma, cosa si è, cosa è essere uomini davanti a questi eventi?

Perché sembra quasi che ogni forza nostra, ogni umana dignità siano annullate. Radiate. Come se esser uomini davanti a tali tragedie sia quasi una cosa grottesca. Tappi di sughero nel mare in tempesta. Formiche in balìa della strage, come diceva Leopardi di fronte al Vesuvio sterminatore.

Da dove riprendere fiato, umanità, dignità davanti a tale strage?

Non c’è altra possibilità: davanti a questo genere di cose, o si prega o si maledice Dio. O si è credenti o si diventa contro Dio. Una delle due.

E se il cristiano dice di esser quello che prega, invece di esser l’uomo che maledice, non lo fa per sentimentalismo. Non lo fa per comodità. Anzi, è più scomodo. Molto più scomodo. Ma più vero. Perché quando il mistero della vita sovrasta – nella sventura come nelle grandi gioie – è più vero aprire le palme vuote, o piene di calcinacci o di sangue dei fratelli e dire: tienili nelle tue braccia. Tienili nel Tuo cuore. Perché noi non riusciamo a conservare nemmeno ciò che amiamo. Perché la vita è più grande di noi, ci eccede da ogni parte, e la morte è un momento di eccedenza della vita. Un momento in cui la vita tocca fisicamente il suo mistero.

La natura non è Dio. In natura esistono anche i disastri. Come gli spettacoli e gli incanti.

Ma la natura non è Dio. Non preghiamo la natura, che ha pregi e difetti, come ogni creatura. Preghiamo Dio creatore di abbracciare il destino delle vittime. Il destino triste di questi fratelli. Che valgono per Lui come il più ricco re morto anziano e sereno nel proprio letto. Che ci ricordano, nel loro dolore, che non siamo padroni del destino.

www.avvenire.it

 
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Commenti al Post:
gliocchidicassandra
gliocchidicassandra il 15/01/10 alle 10:52 via WEB
..e pensa che su Facebook c'è chi inneggia a questa tragedia..senza parole...
(Rispondi)
 
 
diefrogdie
diefrogdie il 15/01/10 alle 12:37 via WEB
Cara amica, posso solo dire che la mamma dei bastardi è sempre in cinta, ma sarebbe comunque poco. La maleducazione, la cattiveria, la superficialità e l'insensibilità sono il male assoluto della nostra epoca. Un abbraccio. Luca
(Rispondi)
 
Utente non iscritto alla Community di Libero
elisabetta il 18/01/10 alle 11:08 via WEB
Mi piace ricordare il pensiero di Giacomo Leopardi ne "La ginestra": l'uomo lotta contro la natura(pessimismo virile) e si unisce agli uomini in un patto sociale poiché la “social catena” fu appunto stretta contro “l'empia natura”. La politica cui il Poeta approda è quella di un'umanità universalmente associata per il soggiogamento della natura a vantaggio comune. La poesia salverà il mondo?
(Rispondi)
 
diefrogdie
diefrogdie il 18/01/10 alle 13:35 via WEB
Accade qualcosa, nella tragedia, qualcosa di antico e qualcosa di nuovo e strano. Accade l’angoscioso e spontaneo dilemma espresso e risolto ieri in un abbraccio dolente e vitale da Davide Rondoni: o maledire Dio o pregarlo (ed è naturale per ogni credente conoscere anche una parte dell’uomo che si ribella a Dio, senza la quale molto spesso avrebbe avuto poco senso accettarlo, e a volte desiderarlo). Ma il dilemma, che ci assedia, non è tutto. Accade, dolorosa, umile e potente, la preghiera consapevole e tutta offerta. E accade l’azione di chi magari non si sofferma sul senso che può avere una simile sventura, sul suo significato profondo («O Dio o il nulla governano il mondo»), ma si mette immediatamente in comunicazione con l’inferno per spegnerlo, non annullarlo ma attenuarne le devastazioni. Migliaia di uomini pratici e forse poco propensi al pensiero, che, per natura altruistica (esistono tali nature), per elementare istinto di solidarietà si mettono in moto. Così il dilemma s’inscrive in un contesto più vasto, imprevedibile, ricco e sorprendente: tanti uomini, di importanza mondiale come capi di Stato o delle Nazioni Unite, o del tutto sconosciuti, militari, tecnici, volontari, che senza porsi alcuna domanda si buttano al lavoro, al computer, al telefono, a raccogliere fondi, voci, appelli, o sbarcando con attrezzature sofisticate come siamo abituati a vedere in guerra… Accadono uomini che si lanciano verso l’eroica resistenza all’inferno, nel sogno di una ricostruzione impossibile (la vita umana non si restituisce in terra), ma che adombra la fede in qualcosa che superi la tragedia stessa, obbedendo, senza saperlo, al sogno che espresse in pieno Novecento il poeta Dylan Thomas: «E la morte non avrà dominio». Il commento è tratto da un testo di Roberto Mussapi su www.avvenire.it
(Rispondi)
 
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