Creato da Praj il 30/11/2005
Riflessioni, meditazioni... la via dell'accettazione come percorso interiore alla scoperta dell'Essenza - ovvero l'originale spiritualità non duale di Claudio Prajnaram
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Messaggi di Dicembre 2008
Il migliore degli auguri che mi sento di fare per l'anno nuovo a chiunque è quello di non avere più bisogno di auguri, perchè gli è discesa la Grazia nel cuore.
Questa Grazia può metterci in condizione di accettare la Vita, comunque ci accada, perchè infonde un senso di serenità, pace e gioia, indipendentemente dall'esaudimento dalle nostre fragili aspettative e umani desideri.
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Una delle più stupefacenti magie che la Coscienza Una e Cosmica mette in atto è quella di far credere agli oggetti umani, da lei stessa creati, di essere dei soggetti, addirittura in grado di conoscere l'Assoluto che li ha messi in Essere. Chiaramente ciò è impossibile: sarebbe come la pretesa di una marionetta di capire sia il genere di spettacolo che andrà a rappresentare, sia se stessa, che lo stesso Burattinaio. Ovviamente, diversamente dalla semplice marionetta, perchè questo incantesimo esistenziale avvenga, occorre che possa svolgersi attraverso un meraviglioso apparato mentale che renda credibile il senso di separazione dalla Sorgente di Tutto, creando una coscienza individuale fittizia, identificata nell'oggetto corporeo, che s'illuda di agire autonomamente. Ed eccoci qui, immersi nell'illusione di essere dei soggetti liberi di fare quello che vogliono. Essere consapevoli di tutto ciò è il dono che l'Assoluto ci può fare. Da quel momento di comprensione l'incantesimo si dissolve, i fili si sciolgono e diventiamo co-teatranti nel Divino Spettacolo.
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Non possiamo esprimere al meglio Il nostro potenziale attraverso l'imitazione di qualcuno, ma solo quando siamo realmente noi stessi. Scimmiottare altri non ci fa crescere. Ci toglie in qualche modo energia.
Imitare, ci distrae dal nostro fiorire, avvilisce la magia inscritta nel seme che dovremmo coltivare e lasciar sviluppare. In un certo senso tradiamo il destino al quale la nostra intima natura silenziosamente ci richiama.
Anche se ci può sembrare di non valere essendo "solo" noi stessi, dobbiamo sapere che comunque noi valiamo e siamo di fatto creativi in quanto unici e irripetibili. Siamo stati creati per essere quel che siamo, non la copia fasulla di qualcun altro. Liberiamoci allora dalle maschere che non ci appartengono, dai ruoli che non ci competono, dalle idee che non sono maturate in noi.
Non perdiamoci dunque nelle imitazioni indotte che ci depotenziano, ma affidiamoci piuttosto alla nostra unicità, nella quale è riposta la nostra autentica originalità. Ognuno deve convincersi che è veramente bello per quello che è: perchè, se da un punto di vista essenziale, il fiorellino di campo equivale alla rosa, all'orchidea... così è per gli esseri umani. Ognuno esprime la sua magnifica unicità. Questo è il suo incommensurabile e sacro valore.
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L'abilità di colui che sa trasmettere cose riguardanti la crescita spirituale concerne l'intrattenere in un modo tale per cui la comprensione fiorisca da sé nell'interlocutore. Ciò succede perchè egli conosce il fatto che questa consapevolezza ognuno ce l'ha già dentro di sè come seme. In genere, ciò si esplica attraverso il divertimento e la semplicità, con l'esempio e la leggerezza. Egli non vuole e non può mai imporre niente a nessuno. Lascia, come il giardiniere che svolge al meglio il suo compito-funzione, che la maturazione interiore avvenga naturalmente. Mai forzandola: sempre nel segno della benevolenza, pazienza e serenità.
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A proposito della morte, il grande saggio greco Epicuro, che non la temeva, ha fatto questa affermazione: la morte per noi non è nulla. Infatti, quando siamo, la morte non è, e quando la morte arriva, noi non siamo. Aveva probabilmente compreso che colui il quale vuole capire cosa possa succedere dopo la morte è soltanto una finzione. Sarebbe proprio quell'ego, creato dalla stessa Unità Coscienziale, affinché attraverso una sorta di illusione separativa, possa relazionarsi con gli innumerevoli e vari ego per svolgere interpersonali rapporti senza i quali il gioco della vita non potrebbe seguire il suo creativo andamento. Perché allora abbiamo paura di abbandonare il corpo-mente? Mi domando anche: non siamo forse come morti quando dormiamo profondamente?
Vedendo anche come non conserviamo nessuna memoria di quando siamo profondamente addormentati, allo stesso modo intuisco, quando avremo lasciato l'involucro corpo-mente, non avremo nessuna memoria del fatto di essere morti, come sosteneva Epicuro.
Noi come organismi fisici non ci saremo più, irrimediabilmente. Ciò che permarrà sempre invece sarà la Coscienza Una.
Ma l'io illusorio tuttavia non vuole pensare di sparire per sempre e s'inventa fantasticherie di ogni genere sul dopo morte. Vuole credere di sopravvivere pur sapendo che il corpo finirà. Domandiamoci piuttosto perché quando ci addormentiamo lo “sparire” come identità non ci fa paura: ciò viene dal fatto di sapere che molto probabilmente ci sveglieremo. Il dormire profondamente è soddisfacente e lo si desidera proprio perché in quello stato il senso dell'io non è presente.
Quando si è sprofondati nel dormire c'è pace e questa pace avviene appunto per assenza del senso dell'io.
Allora perché dovrebbe intimorirci o terrorizzarci la morte che corrisponde all'assenza permanente dell'io? Se l'io immagina di godere della pace quando dorme, al contrario, la pace che accade nel dormire è dovuta proprio all'assenza dell'io.
E detto anche che il sonno è una piccola morte e la morte è un grande sonno. In effetti è così. Ciò che non muore e non nasce è solo il Sé, l'Uno senza secondo. Nell'Oceano della Coscienza, gli organismi corpo-mente, come onde emergono e scompaiono, ma Solo l'Oceano Eterno rimane. Ecco perché chi avrà lasciato il senso dell'io in vita, quando sarà il momento di lasciare il corpo-mente, non avrà paura di morire.
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Lasciarsi andare sperando di ottenere un rilassamento o qualche miglioramento non è un autentico lasciarsi andare.
La speranza che crea l'idea di un ottenimento è l'ostacolo all'ottenimento stesso.
Ci si lascia andare e basta: allora succede quel che deve succedere, senza l'attesa indiretta del risultato.
La pace e la serenità hanno allora lo spazio per sorgere.
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E' basilare convincersi completamente che si può essere sereni, amorevoli e pacifici, indipendentemente dal cambiamento degli altri o dal cambiamento delle situazioni esterne. Praj
Credere il contrario è condannarsi a sicura frustrazione e infelicità. Le prove di ciò sono quotidiane.
Senza questa convinzione spirituale fondamentale è forse impossibile aprire la porta della autentica libertà.
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Ogni nostra azione, scelta, è l'effetto di cause che non conosciamo, le quali, a loro volta, sono effetti di interdipendenze fenomeniche che ci sfuggono, che sono impossibili da rintracciare in senso ultimo.
Non ci sono quindi cause che esistano di per sé, che non derivino da effetti precedenti. La causa prima, quella originaria, però è inconoscibile.
Noi possiamo dunque solo conoscere, definire, lungo una traccia del tempo storico convenzionale, da noi stessi creato, cause ed effetti facenti riferimento al nostro senso di separazione, puramente egocentrico e umano. E sempre da esso, attraverso la cultura scaturita da un sapere umano-centrico che si separano e differenziano gli eventi dell'esistenza in cause <> effetti <> cause <> effetti <> cause <>incessantemente. In realtà, separiamo arbitrariamente secondo una logica concettuale tutto sommato ristretta, fatti che invece sarebbero manifestazioni di un Unità infinita senza tempo e spazio. Infatti, non possiamo distinguere realmente da quando comincia una causa e dove finisce un effetto nell'Insieme Universale.
In realtà, da un punto di vista non duale, da un punto di vista impersonale e metafisico, Superiore, questa separazione non esiste. L'Uno è senza secondo ed è Causa-Effetto simultaneamente, sempre e ovunque.
Anche in questo momento stiamo sempre esprimendo gli effetti di cause scaturite da chissà quali effetti; chissà dove, chissà quando. Ed ora l' effetto, uno degli innumerevoli, in quantità e qualità incalcolabili, sarà causa di chissà quali altri effetti. Tutto ciò produce continue trasformazioni che traducono in apparenti cause e effetti senza fine.
Alla luce di ciò, noi auto definiti individui, come possiamo presumere di non essere condizionati, di essere avulsi da una infinità di cause effetti che ci determinano, aldilà di una mera volontà individuale, anch'essa tra l'altro sottoposta a questa dinamica? Dove inizia e finisce allora la nostra presunta libertà personale? Non è una consolatoria e presuntuosa fantasticheria il credere di averla?
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Arriva il momento in cui ti rendi intuitivamente conto che per essere libero devi rinunziare al tuo attaccamento alla Libertà. Devi smettere di chiederti se vai bene così come sei.
Devi decidere di non guardare mai più indietro per cercare la conferma di essere libero o se gli altri si rendono conto che sei libero. Qualunque cosa accada, devi lasciarti stare lì dove sei. Lasciarti bruciare.
by Adyashanti
P.S. Prelevato da un Amico che ringrazio...
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Si discuteva con amici in un Forum sull'importanza che poteva avere o meno un nome spirituale per un ricercatore. Ognuno esponeva la sua opinione. Al che , sommariamente, ho voluto esporre il mio tragitto rispetto ai nomi che hanno tracciato il mio cammino e ho usato come timone e bussola metafisica. A me è andata così. In estrema sintesi questi sono stati i passaggi che mi sono accaduti.
Sono stato discepolo di Osho e , ancora prima d'incontrarlo personalmente nel 1980, l'anno precedente avevo chiesto di diventare suo sannyasin per corrispondenza, dato che in quell'anno non potevo andare in India a ricevere direttamente l'iniziazione. Anche all'epoca rra possibile chiederla anche in questo modo, ma non era detto che si fosse accettati sempre e comunque. Mi fu dato il nome di Dhyan Claudio.
Passarono tre anni e maturai diverse e forti esperienze meditative, e sentii forte il bisogno di cambiare nome più consono alla mia crescente consapevolezza. Scrissi ad Osho che il mio ego, per motivi che adesso non sto a spiegare, voleva chiamarsi Dhyan Prajna. Mi rispose affermativamente e mi diede la Sua benedizione. Usai questo "trucco" del nuovo nome per lavorare su di me ancora per parecchi anni, fino a quando questi perse la sua funzione stimolatrice, di pungolo e richiamo.
Arrivai, dopo un rinnovato entusiasmo nella ricerca interiore, a scoprire il mondo neo Advaita... e la mia ricerca attinse a nuove e più profonde risorse.
Si crearono nuove intuizioni e una Comprensione che mi condussero al Riconoscimento... dell'Essenza.
Spontaneamente mi sorse la voglia di darmi giocosamente un nome spirituale che sentivo come segno, suggello, di un naturale Compimento: ed ecco che mi chiamai Prajnaram.
Non c'è però più identificazione egoica in questo nome... semplicemente è accaduto! Non posso più essere identificato, ora, come potevo essere stato identificato in passato.
Tuttavia, alla luce della mia esperienza e osservazione delle cose, credo che avere un nome spirituale possa "servire": perchè il suo significato è una guida, un punto di riferimento, un anelito... una sorta di presenza che ci richiama ad un impegno assunto con noi stessi, in modo particolare, intimo.
L'importante, per me, è non prendersi troppo sul serio, capire che il nome è solo un espediente, uno strumento evocativo, per "giocare" nel mondo spirituale; e che potrebbe essere lasciato tranquillamente quando si vuole e senza problemi. E' una specie di pelle psicologica, un vestito da Viaggio.
Poi capita che nella confidenzialità amicale si possa anche ridimensionare la eventuale pomposità di un nome altisonante: ecco che ci possiamo ritrovare con nick come Praj...
Se invece a qualcuno non interessa usare nessun nome va benissimo lo stesso, dato che è una faccenda, un espediente puramente soggettivo per caricarsi, per ricordarsi, per "divertirsi"... per ritrovarSi e ritornare a Casa.
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Ogni mese, un discepolo era solito scrivere al Maestro un breve resoconto del suo progresso.
Il primo mese, gli scrisse: “Provo un’espansione di coscienza e sperimento la mia unità con l’universo.”
Il Maestro sorrise e gettò la lettera nel cestino.
Il mese seguente, il discepolo gli scrisse: ”Ho finalmente scoperto che il Divino è presente in tutte le cose”.
Il Maestro rimase impassibile.
Al terzo mese, le parole del discepolo esprimevano con entusiasmo: ”Il mistero dell’Uno e dei molti mi è stato rivelato e sono in uno stato di totale meraviglia”.
Il Maestro scosse la testa e ancora una volta gettò via la lettera.
Nella lettera seguente il discepolo asseriva: “Nessuno è mai nato, nessuno vive, nessuno muore, perchè l’ego non esiste”.
Il Maestro alzò le braccia al cielo in un gesto di disperazione.
Passò un mese, poi due, poi cinque e infine, dopo un anno di silenzio, il Maestro ritenne fosse giunto il momento di ricordare al discepolo che era suo dovere tenerlo informato sul suo progresso spirituale.
Il discepolo scrisse: ”A chi’ importa?”
Quando il Maestro lesse questa frase, il suo volto s’illuminò di profonda soddisfazione.
Tratto da: Non più confusione, di Ramesh Balsekar, Edizioni Laris
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Se per la mente ordinaria i problemi sono spesso fonte di costante afflizione, per la mente del saggio sono solo situazioni di un gioco al quale partecipa con viva attenzione, ma anche con sereno distacco. Tutte le evenienze egli le vive come aspetti di un sottogioco facente parte del grande gioco della Vita.
Perchè il saggio, pur dovendo affrontare le contingenze della umana esistenza come tutti, anche se sono difficili, a volte molto dolorose, non le fa mai diventare problematiche. Le 'gode' per quello che sono: fasi e variabili del gioco.
Con questo spirito può risolverle una per una, senza sforzo, accettando anche le possibili perdite momentanee, gli eventuali turni di sosta e occasionali penalizzazioni.
In genere, questo atteggiamento psicologico, di colui che è per me saggio, viene premiato da un gusto del vivere più intenso e creativo.
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Per la Visione non duale esiste solo l'Uno senza secondo. Quindi, è dall'Uno stesso che derivano, il velo di Maya delle apparenze o l'illusione del mondo fenomenico, il formarsi della mente separativa, limitante, che discrimina fra questo e quello... costruendo il mondo convenzionale.
Questa "magia" differenziante è creata in funzione di una auto percezione della molteplicità dinamica in tutto ciò che, in realtà, è invisibile e ineffabile Unità.
Quindi l'Uno o Dio non può che essere in ogni cosa e dimensione che sembra esistere separata, differenziata, nascosta... Per cui, dato che la relazione fra i fenomeni, le cose, sussiste solo fra entità e sistemi diversi non vi è alcuna relazione tra il Cosmo e l'Uno infinito, dato che essi sono solo due nomi-forma dati dall'uomo alla stessa Unica Realtà.
Realtà-Verità che si manifesta necessariamente come strumentale dualismo per emergere dalla Coscienza a riposo, inespressa.
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Se in una qualsiasi crisi, personale o sociale, si è entrati senza volerlo, il motivo per cui è successa, per quanto nascosto, per uscirne davvero, si deve almeno saperlo.
Il guaio è che spesso chi è entrato in quel modo tenta di fuggirla compiangendosi, piuttosto che capirla rinnovandosi.
Se ogni crisi è purtuttavia occasione di trasformazione, si rivela utile solo se ha fecondato davvero maggior comprensione.
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Quando cominciamo risvegliarci vediamo dentro di noi qualcosa che si apre come un fiore. Notiamo che qualcosa sta spostando la nostra immagine di come siano le cose. Scopriamo che non siamo più così inclinati a sapere sempre chi siamo. E’ l’esperienza che sembra importare di più, l’essere, che troviamo di valore. Sembra che mentre lasciamo cadere il voler possedere l’esperienza e la lasciamo svilupparsi, il fiore si apre sempre di più, il cuore si apre sempre di più.
E, in qualche modo, sentiamo che ogni cosa andrà bene, che le cose funzioneranno proprio come dovrebbero. Qualche volta è doloroso, qualche volta estatico, ma sempre, in qualche modo, perfetto.
Mentre penetriamo sempre più profondamente diventa evidente che è la chiarezza trasparente del vedere che nutre il nostro aprirsi, mentre poco importano gli oggetti che osserviamo. Prima di tutto non riusciamo a immaginare come abbiamo potuto non vedere la perfezione o come potremmo mai più perderla. Come potremmo mai essere ancora ciechi al modo semplice, naturale, perfetto, in cui sono le cose?
L’esperienza è semplicemente esperienza.
E se guardando in quel fiore vediamo un momento di avidità o di egoismo o di paura, lo vediamo nel contesto di quella perfezione, dentro quella chiarezza, e non è che un altro petalo di quel fiore. Vediamo che è tutto naturale. Il nostro egoismo non ci fa sentire separati. Vediamo come siamo naturalmente egoisti; senza alcuna condanna: lo vediamo così come è. Perfetto. Nessun bisogno di separarci a causa sua. Pieni di auto-perdono, pieni di abbandono, pieni di comprensione. E’ lì, ma non è noi. Non è che un’altra cosa che si manifesta. In noi c’è spazio per ogni cosa. Così alla fine stiamo diventando chi abbiamo sempre desiderato essere, liberi da tante immagini protettive e dai bisogni che in passato ci hanno causato tanto disagio.
Ma vediamo che anche questo “me meraviglioso” deve essere lasciato andare. L’essere che siamo diventati è ancora separato, anche se più sano. C’è ancora un sottile “qualcuno” che fa esperienza di tutto e che vuole continuare ad aprirsi. C’è qualcuno che ancora non si è del tutto fuso, non è ancora scomparso; ancora qualcuno che sta cercando la perfezione delle cose.
E’ allora che realizziamo che il fiore deve morire perché possa nascere il frutto. Riconosciamo che il fiore esiste solo a un livello più sottile della mente e che anche quella perfezione è un concetto di come le cose devono essere e che può diventare una sottile separazione che permette a “qualcuno” di osservare la perfezione. Ci rendiamo conto che dobbiamo lasciare andare il fiore così che possa cadere e fare spazio al frutto.
Non c’è nessuna descrizione possibile del frutto, non importa quanto ci sforziamo di descriverlo stiamo ancora descrivendo il fiore. Il frutto non esiste nella mente, nel linguaggio, la mente dà forma al fiore, ma l’attaccarsi alla forma e alla mente deve essere abbandonato per poter rivelare il frutto, perché il nostro volto originario possa manifestarsi.
Questo frutto, pienamente maturo in esseri come Cristo o Budda non ha semi, nulla da essere rinato, nessun desiderio di creare karma, nessuna sete di soddisfazione. Questo frutto non perisce ma rimane come un’offerta a tutti quelli che verranno.
da 'A Gradual Awakening' di Stephen Levine
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