Creato da Praj il 30/11/2005
Riflessioni, meditazioni... la via dell'accettazione come percorso interiore alla scoperta dell'Essenza - ovvero l'originale spiritualità non duale di Claudio Prajnaram

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Messaggi di Giugno 2009

Il paradosso della personale libertà

Post n°638 pubblicato il 29 Giugno 2009 da Praj
 

Il paradosso che l'uomo si trova a vivere è che egli non può non fare ciò che fa liberamente. Ma è ancor più incredibile che non possa non pensare di farlo per libera scelta.  (Praj)


 
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La sana follia

Post n°637 pubblicato il 26 Giugno 2009 da Praj
 
Foto di Praj

La sana follia è un sacro piacere che, ogni tanto, solo chi non è squilibrato può permettersi. Solo chi ha un ordine interiore profondo può giocare ai confini della pazzia, senza danneggiarsi e danneggiare, divertendo e divertendosi, lasciandosi andare all'ebbrezza del non senso, al purificante delirio dell'illogico.
Aprendo le porte alle forze inconsce, ballando con esse sulla linea di demarcazione della ragione, si liberano energie che debbono trovare vie d'uscita e venire alla luce per far sì che il loro dominio non si manifesti occultamente, prepotentemente, quando non lo vogliamo o non possiamo più gestire gioiosamente. Dunque la sana follia è terapeutica: previene e risana l'apparato corpo-mente spesso sottoposto a innaturale pressione e condizionamento. Ci spoglia dalle camicie di forza mentali che distorcono il bisogno vitale d'espressione, d'emozione, libero e sincero, facendoci in vari modi ammalare, togliendoci il gusto di vivere.
Quando tutto è sotto controllo, per i più disparati motivi, è liberatorio, occasionalmente, godersi dimensioni ludiche che necessitano di sfogo energetico, per ridarci quell'armonia e completezza interiore che l'egemonia del pensiero razionale non ci può offrire.
Perciò folle è colui non sa e ha paura di essere folle volontariamente, colui che crede di non esserlo perché mai si scompone, colui che giudica folle chi non è bloccato e inibito da mille pregiudizi e si gode la potenza dell'essere interi, integrati fra conscio e inconscio.
L'estasi della follia consapevole è perciò un lusso che è alla portata soltanto dei sani di mente e di coloro che vogliono restarlo.
Il giungere a tale conquista è frutto di un paziente lavoro e lungo viaggio dentro la propria Anima.

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Questo video mi è stato suggerito dall'amico Gilles2004.
E' in piena sintonia con il post.

 
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Prima l'educazione poi l'istruzione

Post n°636 pubblicato il 24 Giugno 2009 da Praj
 

In questi giorni di fine anno scolastico, leggendo questo libro, ritrovo ben espresse riflessioni che anch'io andavo facendo da tempo, riflettendo sulla nostra scuola, sull'istruzione e sull'educazione. Propongo alcuni spunti che trovo interessanti e, a mio parere, condivisibili.

chi tra gli insegnanti accerta, oltre alle competenze culturali dei propri allievi, il grado di autostima che ciascuno nutre per se stesso? Chi tra gli insegnanti è consapevole che gran parte dell'apprendimento non dipende non tanto dalla buona volontà, quanto dall'autostima che innesca la buona volontà? Chi, con opportuni riconoscimenti, rafforza questa autostima, primo motore per la formazione culturale, ed evita di distruggerla con epiteti e derisioni che, rivolti a persone adulte, porterebbero di corsa in tribunale?
Chi si astiene dal mettere a confronto il comportamento di un allievo con quello di un altro, irrobustendo chi è già solido e distruggendo chi è già incerto e mal sicuro? Chi ascolta uno studente con interesse riconoscendogli un minimo di personalità, su cui egli possa continuare a edificare invece che a demolire? Pochi, pochissimi insegnanti nella scuola italiana, a cui si accede per competenze contenutistiche e non per formazione personale, in base al principio che l'educazione è una conseguenza diretta dell'istruzione.


… i giovani cercano i divertimenti perché non sanno gioire. Ma la gioia, è innanzitutto gioia di sé, quindi identità riconosciuta, realtà accettata, frustrazione superata, rimozione ridotta al minimo. Che fa la scuola per tutto questo? La scuola svolge programmi ministeriali perché ritiene che il suo compito non sia quello di educare, ma unicamente quello di istruire, essendo l'educazione, nella falsa coscienza dei professori, un derivato necessario dell'istruzione. Ma le cose non stanno propriamente così. E' se mai l'istruzione un evento possibile a educazione avvenuta. E l'educazione non è fatta solo di buone maniere, ma è una lenta acquisizione, attraverso riconoscimenti, della gioia di sé.


Tratto dal libro: “ L'ospite inquietante” - Il nichilismo e i giovani – di Umberto Galimberti. Feltrinelli Editore.

 
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Uomini diversamente persi

Post n°635 pubblicato il 23 Giugno 2009 da Praj
 

Fra i cosiddetti  solo buoni e i cosiddetti solo cattivi c'è il mondo degli uomini. E fra gli uomini ci sono i più o meno buoni o cattivi, a seconda di una miriade di situazioni in cui ognuno è stato gettato, che annaspano diversamente in cerca di appigli per non naufragare fra i marosi della loro disorientata mente. Coloro che sono solo buoni o solo cattivi non dimorano  però su questa terra.
Potrei dimostrare che non esistono fra noi, qualora volessero sfidare la realtà dei fatti.
Chi non è convinto di ciò non conosce gli uomini o non li vuole conoscere: ha solo creato dei simulacri a quali vuole essere devoto.
Chi è consapevole dell'ego umano invece ammette che la sola perfezione non  é di questo mondo e sospende il giudizio.
Egli riscontra soltanto una perfetta imperfezione che cerca nutrimento fra le rovine delle strade del dolore e indirizzi scoloriti che portano in una Casa di Pace dove si cancellano però le tracce personali, i meriti e le colpe.
Quel luogo senza barriere non è sotto i nostri piedi ma è nel nostro cuore.
Nel frattempo, nel mondo degli uomini, che non sono santi ma nemmeno solo peccatori, si consumano riti di passaggio che esplorano varchi fra la luce e l'oscurità del vivere mondano, dove non si conosce l'arte del sapere morire a se stessi prima che la falce colpisca il corpo e faccia reale giustizia delle nostre illusioni.

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Un grande fratello che fratello non è

Post n°634 pubblicato il 22 Giugno 2009 da Praj
 

Giorno dopo giorno si può constatare la diminuzione della privacy nella nostra vita. Nell'era del digitale si va perdendo sempre di più ogni spazio privato. Quasi tutto è sotto controllo. Un giorno tutto lo sarà.
Gli spazi privati si vanno assottigliando quando lasciamo tracce ovunque che possono essere rilevate. Rilevate da chi se non dal che ha in mano gli strumenti per farlo? Questo è il punto. Chi è in possessso di queste informazionioni detiene dunque un grande potere.
Siamo sicuri che costoro saranno etici nel gestire tutte le informazioni in loro possesso?
E' possibile dubitare di ciò? Quelle informazioni saranno merce preziosa, quindi avranno un valore. Avranno un mercato e si venderanno ad uso e consumo di chi è interessato ad averle
per i più svariati motivi: commerciali, politici, industriali, legali, personali...
Non so se questa cosa può essere bella o meno, ma è un pò inquietante come possibilità. Oggi sappiamo che non è più solo un ipotesi, ma una relatà di fatto.
Andremo cedendo ogni informazione o dato, in nome della sicurezza, dell'organizzazione anticrimine, dell'efficienza sociale...
Ci faranno credere che comunque saremo liberi perchè potremo accedere con dei codici telematici – rivelatori d'identità - a questa o quella attività, a nostro piacimento; a questo o a quel servizio, che siamo in una società avanzata e che quindi tutto ciò è inevitabile.
Ci diranno che il tutto, se regolamentato, è un bene. Ma chi regola e chi gestisce, chi ci garantisce che non ci saranno abusi?
Che ne sarà del nostro privato, dei nostri segreti, delle nostre scelte, dei nostri comportamenti, delle nostre confidenze, se sappiamo possono essere controllati, spiati e archiviati?
Si potrebbe dire che se uno non ha niente da nascondere non dovrebbe preoccuparsi.
Può anche essere vero, anche se è superficiale come osservazione perché non tiene in considerazione le tante implicazioni negative possibili. E' comunque certo che il principio di libertà, seppur espresso nel rispetto delle leggi, non esisterà più; che tutto diventa condizionato e che il senso delle cose assume d'ora in poi uno sfondo che mette la Vita sotto una cappa di sottile oppressione che inquina la spontaneità, il gusto di vivere in uno spazio aperto libero da occhi e orecchi indiscreti. Non potrà mai più essere come prima, come quando questa dimensione di controllo non c'era.
Non mi sembra un gran progresso da un punto di vista psicologico e umano, anche se può avere risvolti utili per altri aspetti. Qusete considerazioni solo lungi da condiderazioni politiche: vogliono solo segnalare soprattutto i risvolti psico-sociologici del problema.
Un recente esempio in tal senso è il digitale terrestre: ora sapranno direttamente anche ogni volta che cambiamo canale, cosa guardiamo in televisione, se lo vogliono;
avranno lo share personale e collettivo in tempo reale. Che bello, come siamo liberi!! Avremo un guardone in casa nostra come costante compagnia.
Siamo entrati in un mondo controllato da un grande fratello che, purtroppo, fratello non sarà.
Si stava meglio quando si stava peggio? Forse si stava peggio dal punto di vista consumistico, come efficienza e comodità, ma dal punto di vista umano forse una qualche perplessità l'avrei.
Il progresso tecnologico è fantastico, ma è l'uso che se ne fa a determinare il vantaggio o svantaggio per la libertà e crescita dell'essere umano. Chi può dire come finirà? E' una partita forse ancora aperta.
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Nessuno vuol giudicare nemmeno tu (però lo fai, lo facciamo)

Post n°633 pubblicato il 19 Giugno 2009 da Praj
 

Ho l'impressione che quando si dice che non bisogna mai giudicare si incorra in un equivoco, in una mala comprensione di un virtuoso comportamento.
Ci si sente scorretti perché c'è una sorta di etica indotta che non vorrebbe si facesse, in contrasto però con una sorta di automaticità che sfugge al nostro controllo.
Il non giudicare, secondo me è non è possibile: è inutile che vogliamo affermare il contrario.
E' nella natura della mente giudicare, comparare, preferire, fare confronti... quindi va accettato come una della modalità del nostro essere umani. Ritengo abbastanza ipocrita il credere di non giudicare soltanto perché non ci si esprime a parole, quando tuttavia lo si fa con il pensiero.
E' meglio essere onesti e assumersi la responsabilità di un giudizio, piuttosto che averlo dentro e negarlo mostrandosi falsamente non giudicanti.
L'importante piuttosto, a mio avviso, è che non ci sia l'attaccamento al giudizio,  che si resti sempre aperti... che non lo si cristallizzi in una sentenza definitiva e si resti sempre disponibili a lasciarlo andare, a rivederlo o almeno a sospenderlo.
Il giudizio è un errore direi necessario, ma esso deve essere provvisorio e mai lapidario.
Quando c'è la consapevolezza che è  comunque una proiezione momentanea di un nostro particolare punto di vista, schema di valori e riferimenti, è evidente che esso deve essere passibile di cambiamento.
Quindi non può essere definitivo, ma temporaneo e dovuto alla valutazione soggettiva - perciò relativa -della situazione, del fatto, della persona... 
Se è fatto con questo spirito, il giudizio, assume un carattere più leggero, plastico e non definitivo.
E' una valutazione personale ammessa senza pretese di assolutezza.
Diverso è il pregiudizio il quale è un errore molto più grave perché valuta senza conoscere,
definisce a prescindere da un contatto o confronto diretto. Cataloga senza ragione, senza esperimentare, solo in base ad una preventiva presa di posizione. Il pregiudizio dunque non appartiene alla sfera della riflessione profonda, al sentimento di apertura e ascolto.
Per cui direi che non ci si deve sentire in colpa se ci succede di giudicare, anche se è preferibile non indulgere in questa attività mentale. Sarebbe meglio astenersi - ma questo è il frutto di una maturità psicologica e spirituale che non si raggiunge facilmente – ma, se capita di farlo, non è il caso di sentirsi in colpa o sentirsi sbagliati perché non siamo stati capaci di trattenerlo.
Come dicevo,  si cresce, anche in tale ambito, imparando a gestire il giudizio, non solidificandolo e rendendolo fluido, affinché non ci blocchi nelle nostre visioni e considerazioni.
Invece sul pregiudizio va fatto un lavoro un lavoro serio di de-condizionamento, altrimenti rischiamo di basare le nostre scelte e possibilità attraverso filtri mentali che distorcono la realtà. E questo è un grave danno di relazione e comunicazione per noi e per gli altri, perché crea divisioni che ostacolano una migliore convivenza e guasta i rapporti con gli esseri che abitano come noi questo pianeta.
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Noi vediamo quello che vogliamo vedere

Post n°631 pubblicato il 17 Giugno 2009 da Praj
 

Noi vediamo la realtà delle cose in misura distorta e proporzionata agli stati emotivi che stiamo vivendo. Proiettiamo dunque il velo delle nostre emozioni sull'accadimento in cui siamo coinvolti o che osserviamo. Questo succede, per esempio, quando siamo pervasi da un desiderio sessuale e vediamo l'altro come un oggetto relativo al nostro desiderare; quando siamo interessati a fare soldi e nell'altro scrutiamo la possibilità che  può offrirci dandoci un'occasione in tal senso; quando abbiamo dell'ansia addosso, la tranquillità di uno che fa le cose con lentezza c'infastidisce. Così succede con la paura, con la rabbia, con la gelosia ed ogni genere di sentimenti ed emozioni.
Non vediamo più le cose per come sono ma per quello che ci interessa o abbiamo timore che siano. Ognuno perciò vive una sua realtà pur partecipando allo stesso evento.
Perdendo la relazione con la realtà del ciò che è, diveniamo decisamente orientati e condizionati dalle aspettative e dai ricordi che ci portiamo appresso. Non siamo più presenti e attenti a ciò che stiamo realmente vivendo, incontrando, ascoltando... non siamo dunque realmente lì, ma altrove, con la testa.
Quindi è sempre bene ricordare che siamo noi a colorare le situazioni con il nostro umore, con il nostro stato di coscienza. Perciò il nostro approccio e atteggiamento verso mondo è determinante per farcelo apparire in un modo invece che in un altro. Allora possiamo colorare come vogliamo il mondo, possiamo dipingerlo positivamente, se lo vogliamo.
In questo senso, si dice che anche noi siamo creatori della nostra Realtà.



 
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Nella prevenzione dei mali dell'anima si prevengono anche i mali del corpo

Post n°630 pubblicato il 15 Giugno 2009 da Praj
 

Non mi piace molto e sono un po’ contrario a subire la logica della prevenzione per quanto concerne il fare controlli periodici, sistematici, per vedere se si ha qualche malattia in atto, se si sta covando un qualche disturbo che potrebbe poi aggravarsi se non preso in tempo.
Ho poca inclinazione per questa pratica preventiva ormai diffusa e incoraggiata riguardante la salvaguardia della salute corporea. Tendo a rifuggire i controlli, se non sono proprio obbligato a farli, seppure possa avere ogni tanto delle paure di ammalarmi.
Amo concepire la salute del corpo da un punto di vista che non prescinde dalla salute dell’anima. Amo una salute olistica, che considera l’uomo come un essere intero, composto di corpo, mente e spirito.
Non sto dicendo che sia sbagliato l’atteggiamento di chi si tiene sempre controllato, o che consiglierei a qualcuno di non fare esami o visite di controllo, dico solo che non fa per me questo modo di star di fronte ai pericoli di eventuali malattie fisiche. Sarò probabilmente un irresponsabile fatalista, ma mi trovo meglio così. Non sostengo nemmeno che sia un comportamento giusto. E' il mio, per ora.
Ritengo anche che la fobia naturale delle malattie e l’ipocondria si mescolino, si confondano, quando vengono alimentate dalle continue sollecitazioni dovute ai frequenti controlli preventivi. Sottoponendolo a reiterate minacce, nella psiche di alcuni soggetti, tutto ciò può creare un meccanismo di costante allarmismo che va poi a incrinare il sistema psicologico incrementando uno stato ansiogeno, destabilizzando quindi il sistema immunitario. Proprio non mi va di sentire periodicamente l’incombenza di una sempre possibile calamità, anche se ho una età considerata a rischio. Mi piace considerarmi sempre sano e lasciar correre i sintomi lievi, leggeri, invece che precipitarmi dal medico per farmi prescrivere una visita dallo specialista per mettere a tacere le paranoie insorgenti. Paure che però saranno riaccese al successivo sintomo anomalo emergente.
Io preferisco piuttosto controllare se il mio stato interiore - sensazione di benessere somatico, stato psicologico emozionale, condizione spirituale armonica - sono ben allineati e in equilibrio, invece che affidarmi alla lettura di parametri bio chimici che parlino delle mie condizioni somatiche. Sono più interessato ad ascoltarmi, a sentirmi in profondità che a scoprire disfunzioni fisico-chimiche, riflessi di disarmonie situate a livelli più sottili, sono interessato ai messaggi che si somatizzano provenienti dal mio mondo interiore. Voglio capire questi messaggi dell’anima, non voglio rimuoverli con cure sintomatiche sbrigative, se non pericolose e distruttive.
E’ chiaro però che poi ognuno deve prendersi, in libertà e consapevolezza, i rischi delle proprie scelte di vita, anche in questo capo così delicato e difficile.
Inoltre sento che se il mio Essere intero è in armonia, in fiducia totale nella Vita, ha anche la capacità di risolvere e guarire da sé gran parte dei disordini che potrebbero eventualmente verificarsi.
Non sono contro la prevenzione ma solo contrario all’eccessivo uso della prevenzione, contrario soltanto alla medicalizzazione sistematica del sintomo; medicalizzazione che instaura una sorta di dipendenza dal sistema sanitario piuttosto che farne un punto di riferimento episodico.
Mi fido soprattutto dell'intelligenza del mio organismo corpo-mente a ristabilire l'ordine psicofisico più che della medicina convenzionale che mi tratta in modo spersonalizzante. Mi fido più delle mie sensazioni e intuizioni auto diagnostiche piuttosto che dell'ossessivo controllare valori definiti conformi a ciò che una visione medico meccanicistica del uomo stabilisce come stato ordinario, normale, di salute.
Insomma, sono favorevole ad una medicina che tenga conto anche della sintomatologie dell’Anima, che prevenga anche le malattie dello Spirito. Questa medicina è per ora marginale, elitaria, quasi sconosciuta, ma penso che dovrà essere necessariamente la medicina integrata del futuro, dell’uomo nuovo.


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Umanamente Divini o Divinamente umani lo siamo già

Post n°629 pubblicato il 12 Giugno 2009 da Praj
 

Un errore in cui si incorre spesso, secondo me, è credere che la Comprensione spirituale implichi il dissolvimento di tutte le contraddizioni dell'umana condizione dell'essere.
Pur realizzando che tutto è Uno, che siamo il Sé, che siamo il Vuoto o che siamo Coscienza o Mente... noi restiamo sempre umani e dobbiamo vivere da umani. Nella relatività della nostra condizione.
Tanto più siamo veramente umani, quanto più siamo Divini, perché abbiamo accettato a fondo ciò che Dio vuole essere attraverso di noi.
Noi – in quanto entità incarnate - siamo assolutamente legati alla dimensione duale a cui, inevitabilmente, siamo sottoposti. Per cui, esistenzialmente, ci porteremo appresso, in maniera probabilmente meno accentuata se saremo cresciuti in esperienza e consapevolezza, le caratteristiche che ci conformano, la natura specifica e originale di cui siamo portatori. Ci arrabbieremo ancora se siamo irosi, anche se lo riconosceremo prima di un tempo e ritorneremo al più presto in noi, saremo gelosi, se ci dovessimo trovare nelle condizioni di esserlo, anche se ammetteremo prima il nostro limite e cercheremo di non farci possedere in maniera pesante da questo sentimento e così per tutte le inclinazioni che ci portiamo dentro; questo, aldilà di tutti i miglioramenti che potremmo avere conseguito con una migliore conoscenza psicologica di noi stessi, attraverso le tecniche psicologiche varie. Avremo attutito gli effetti dei condizionamenti subiti, ma resteremo sempre vincolati alle nostre tendenze, predisposizioni...
Quando noi sappiamo – perché lo abbiamo realizzato nel profondo della nostra anima - che siamo il Sé, sappiamo pure che anche gli "altri” lo sono. Perciò noi sappiamo che essi sono quel che sono nella misura in cui anche noi lo siamo. Il dualismo necessario per esprimerci nell'essere nel mondo ci obbliga anche a dare giudizi, ad avere simpatie o antipatie, ad avere preferenze...
Ma tutto ciò adesso succede alla Luce della consapevolezza di chi siamo realmente; ora  non è che un aspetto esteriore, superficiale, funzionale alle relazioni e dinamiche mondane, parte del gioco. Non c'è più identificazione nel ruolo che giochiamo.
Io non rincorrerei quindi una sorta di impossibile perfezione, una idealizzazione dei comportamenti virtuosi, perché questo potrebbe facilmente indurci ad indossare maschere sempre più raffinate. Preferirei piuttosto che si imparasse ad essere veri, onesti con noi stessi e con gli altri a prescindere da schemi precostituiti di valore, di significato, che si imparasse davvero ad accettarci a percepirci come espressioni del Divino, che si capisse che quel che ci accade è il volere del Divino in atto, per quanto possa piacere o meno al nostro ego. Dovremmo convincerci totalmente che noi tutti siamo sempre espressioni della sua volontà così come ci accade d'essere.
Allora l'incontro con l'altro sarebbe davvero diretto, saremmo davvero capaci di apprezzarci per quello che siamo ora. Se abbiamo davvero compreso che noi siamo manifestazioni del Sé-Dio ecc... sempre e comunque, allora non abbiamo più il dilemma di vedere o meno se siamo nella dualità del giusto o sbagliato con il nostro agire. Ci lasciamo andare all'essere spontanei, senza più il giudice interiore che ci accompagna. Vediamo Dio manifestarsi ovunque, ci troviamo quindi sempre di fronte a noi stessi, sia quando mostriamo la faccia crudele che quando mostriamo quella dolce. Sappiamo che sono sempre le sue infinite facce vediamo.
Perché se ci consideriamo Uno con ciò che accade sappiamo che noi, come forma in transito, non possiamo manifestarci che nella dualità - non però dovendoci identificare necessariamente con essa - affinché l'Uno senza secondo possa contenere in Sé ogni apparente contraddizione, al fine di esternare ed emanare nella Sua infinita gloria ogni meraviglioso gioco creativo.

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Sacro spogliarsi

Post n°628 pubblicato il 10 Giugno 2009 da Praj
 

Se c'è un talento che caratterizza la conoscenza di sè, questo è la capacità di spogliarsi in modo delicato, non violento, da tutti gli indumenti psicologici e sociali che indossiamo. Che ci hanno fatto indossare.
L'abilità del denudarsi, danzando, dall'effimero e dall'inessenziale, si regge sulla leggerezza autoironica che consiste nel togliersi solo il non necessario per la missione per cui siamo venuti al mondo.
Non è facile farlo senza disturbare e turbare nessuno.
Questo talento si esplica come arte della spoliazione quando separa con dolcezza e serenità il superfluo dall'utile, il bello reale dall'apparente; quando trova l'equilibrio fra la penuria e l'abbondanza, quando lo spirito è più considerato della lettera, quando fra le parole pesate sa e fa percepire il silenzio del cuore.
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L'abito non fa ma nasconde il monaco

Post n°627 pubblicato il 08 Giugno 2009 da Praj
 

Quando é l'abito che pretende di fare il monaco, è probabile che tutto si trasformi in una sciocca commedia o una tragica farsa.
Quando il monaco è vero, indipendente dall'abito, la commedia si trasforma inevitabilmente in realtà.
E questa realtà, non essendo inquinata dal falso è salute per l'essere, è l'ecologia dell'anima.
Vendere dunque l'anima al diavolo - signore della paura e della vanità - corrisponde all'indossare l'abito per sembrare quel che non si è. Quindi l'apparenza è senza dubbio più nociva – a se stessi e agli altri - quanto più è cercata per dissimulare il vero, per rifuggirlo.
Il voler apparire ad ogni costo, diverso o altro da sè, è un veleno che corrode l'anima, perché crea una entità che va adorando la maschera invece dell'essenza dalla quale si è allontanato.
Alla lunga, la voglia di apparire fa scomparire il meglio di noi stessi sotto la crosta delle finzioni, della quale restiamo inesorabilmente prigionieri.
Così facendo, rischiamo di venire sepolti dalla pesante ipoteca della rappresentazione coatta sulla nostra vera natura. Dimenticandoci sempre più di noi stessi, siamo caduti nell'oblio dell'essere.
Quando poi l'ostentazione narcisistica dell'immagine diventa dominante, si è avviati inevitabilmente verso il declino, verso una auto compiacente ma disperata decadenza.

 
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Come è possibile solo pensarlo?

Post n°626 pubblicato il 06 Giugno 2009 da Praj
 

Fin da bambino mi sono sempre chiesto come l'uomo potesse pensare di essere l'unica forma di vita cosciente e intelligente nell'universo.
Mi ha sempre sbalordito come si potesse credere di essere gli unici abitanti del cosmo. Trovavo questa ipotesi come minimo assurda, se non ridicola per lo meno bizzarra.
Il fatto che, in base alle nostre conoscenze odierne, non ci fosse possibile concepire altri esseri in grado di esistere con parametri biologici anche diversi, mi sembrava che dimostrasse solo la relatività della nostra conoscenza scientifica in merito.
Per me, potranno pure passare un numero indefinito di anni, prima che ci siano segni incontrovertibili, tangibili della presenza di altri esseri viventi su qualche pianeta lontanissimo, ma prima o poi il riscontro decisivo ci sarà.
Nonostante la cosa sia per noi quasi inconcepibile, dati i mezzi scientifico tecnologici attuali, è nell'ordine delle cose che una sorta di avvicinamento o incontro un giorno avvenga, anche se noi contemporanei non ci saremo. Se non saremo noi a noi a rilevarli saranno loro a farlo, ma succederà.
Non è possibile, mi appare talmente ovvio, se non si è oscurati da una visione antropocentrica delirante, che non siamo gli unici esseri intelligenti esistenti in questo infinito straripante di galassie, di mondi lontanissimi, in questo spazio sconfinato.
Non riesco proprio ad immaginare come una modesta sfera di terra e energia vitale, quale è il nostro pianeta, rispetto all'immensità del tutto - sul quale non passiamo che un istante di vita cosciente, in rapporto all'eternità della Coscienza Cosmica - possa esser l'unico luogo ospitante entità viventi e intelligenti.
Il risuonare di queste presenze lontane, non aliene ma solo sconosciute, percepito nei piani sottili della mia Coscienza, mi avverte che, aldilà della stretta parentela con gli esseri umani, sono in qualche maniera in connessione anche con altre realtà e dimensioni esistenti.
Per quanto inimmaginabili, queste presenze non le sento estranee, seppur impossibilitato a verificarlo e dimostrarlo fisicamente. E' un altro dei misteri che accetto ammettendo la mia totale ignoranza e i limiti umani dei quali sono un semplice e occasionale portatore. Non possono essermi aliene in quanto anch'esse sono parte e forma integrante di quelle che sono le infinite manifestazione dell'Universo, per me emanazioni di quel che viene chiamato Dio, l'Uno senza secondo.

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Se non è ripetibile non è detto che non sia vero

Post n°625 pubblicato il 04 Giugno 2009 da Praj
 

Quando definiamo un fenomeno parapsicologico, paranormale o sovrannaturale, stiamo soltanto definendo i limiti della nostra co-scienza attuale. E questi limiti li codifichiamo come leggi di natura, leggi adeguate alla nostra presunta normalità. Essendo limiti che sappiamo riprodurre li consideriamo scientifici.
In questa ottica, limitata e limitante, anche lo scientismo può divenire dogmatico, negando dimensioni sottili soltanto perché non possono essere rilevate da strumenti tecnologici o incasellabili in mere considerazioni logiche.
Pur riconoscendo tutti i benefici che ci porta la scienza, credo che si dovrebbe avere anche il coraggio di ammettere che non tutto può, per ora, essere ripetibile, che non è in nostro potere ripeterlo a volontà, essendo questa una fenomenologia labile e soggettiva, apparentemente casuale. 
Questa ammissione aprirebbe le porte ad un tipo di scienza superiore. Una scienza che si dischiude a possibilità ancora non emerse, che non è non del tutto condizionata da una prepotente concezione materialista dell'universo, della vita.
Mostrare più umiltà di fronte al grande mistero dell'esistenza, avvicina ad una dimensione in cui il cosiddetto sovrannaturale può far parte della nostro Essere, diventando naturale, seppur non riconosciuto all'esterno come possibilità dimostrabile oggettivamente.
Negando aprioristicamente questa realtà sfuggente, invisibile, creiamo le condizioni affinché non la si possa mai esperire, nemmeno soggettivamente.
Questo atteggiamento è una perdita enorme che inibisce l'espansione della nostre potenzialità più nascoste. E questo è proprio il principio antiscientifico per eccellenza.
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L'isolamento non giova

Post n°624 pubblicato il 03 Giugno 2009 da Praj
 

Un sentimento del tutto contrario all'Amorevolezza è il sentirsi isolati. Quando ci si sente soli, tristi e malinconici è perchè avvertiamo una non presenza dell'altro. Quando ci sentiamo isolati, pensiamo all'altro che ci manca, rileviamo il vuoto di una compagnia che invece vorremmo avere.
Ciò causa uno stato d'animo di sofferenza, di disagio, una forma di depressione che ci fa scivolare in una condizione sostanzialmente negativa. Abbiamo il feeling che potrebbe essere diverso, migliore, se avessimo con noi qualcuno con cui  condividere spazi e momenti di vita.
Essere in solitudine, invece, è uno stare bene con se stessi; è in realtà uno stato dell'essere molto positivo, appagante.
D'altro canto, quando siamo isolati non siamo nella serena solitudine ed è per questo che c'è un'abissale diversità tra il sentirsi isolati e l'essere, per scelta, liberamente soli.
Sentirsi isolati è dunque il sentimento prevalente in chi non ha trovato in sè stesso la Sorgente del suo Essere.
Quindi, anche in questo caso, come per la ricerca della felicità, non si può prescindere da un "lavoro" interiore che ci liberi da ciò che impedisce di godere dell'Essere Soli.
E' soltanto nella solitudine meditativa che possiamo imparare a centrarci nella nostra naturale Essenza e da questa poi espanderci nella comunicazione e comunione con ciò che solo apparentemente è fuori di noi, e ci riconnette al flusso dell'Amore. L'isolamento è perciò una sorta di malattia dell'anima che va prima diagnosticata e compresa  con la meditazione e poi sanata esprimendo e condividendo Amorevolezza.

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La cura suprema

Post n°623 pubblicato il 01 Giugno 2009 da Praj
 

Così come il mangiare è indispensabile al corpo, l'amare è necessario per lo spirito. L'amare, come stato dell'essere, è la panacea, anzi la cura di ogni malattia, disagio interiore; è il fondamento del benessere profondo. E' l'elisir per un vita piena di significato, ricca di valore e poesia.
Ogni nostro squilibrio, in qualche maniera, è connesso al fatto che non si è capaci d'amare o non si è in grado di accogliere l'amore. Senza queste facoltà siamo perduti in un mondo senza colori e senza calore.
Questa triste condizione è una sorta di limbo, una penombra, in cui, come anime sole, vaghiamo illuse in cerca d'una felicità impossibile, private dal gusto meraviglioso di dare e darsi amore, irradiare e assimilare luce. L'asfissia del creativo scambio d'umanità.

La sofferenza, disperata o strisciante, che nasce da questa penosa situazione è quasi sempre riconducibile alla mancanza di un cuore che vibra e risplende. Questo vuoto crea problemi a non finire, a volte anche malattie del corpo e della mente, non curabili dalle medicine ovviamente, ma solo da un spirito che ritrova e rinnova l'amore in sé stesso. Le ferite d'amore, se non perdonate, piagano l'anima e sortiscono un mal di vivere che può essere lenito e curato solo dall'amare ed essere amati riaffermato.
Ogni malessere esistenziale è risanato da un'amorevolezza riscoperta, da un donarsi coraggioso e fiducioso senza aspettative, che poi da l'avvio ad un circolo virtuoso premiante.
Perciò, per la nostra salute psichica e spirituale, va ritrovata questa necessaria disponibilità ad amare in ogni direzione e senso, altrimenti la vita rischia di diventare un malinconico e amaro non senso.
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