Creato da wildbillhickok il 09/12/2007

Il prima ed il dopo

Questo blog è un contenitore nel quale finiranno tutte le cose che ho scritto fino ad oggi e quelle che scriverò in futuro. Si riempirà compatibilmente con la mia vena creativa, con il mio tempo, con i miei umori. Parte di ciò che leggerete sarà magari terribile, perchè fa parte di un passato nel quale il mio modo di scrivere e di pensare erano totalmente differenti da ciò che sono oggi. Ma è giusto che anche quegli scritti abbiano il loro posto qui dentro...

 

 

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Umore (parte prima)

Post n°63 pubblicato il 17 Settembre 2009 da wildbillhickok

 

Mi alzo dal letto e capisco già che giornata sarà quella di oggi.

Non è difficile, basta leggere l‘aria che ci circonda al mattino.

Valutarne il peso.

Controllarne il movimento.

Testarne la temperatura.


Le prime volte non è semplicissimo, ci vuole un po’ di allenamento.

Per cominciare a farci la mano, però, cominciate a fumare.

Non c’è bisogno di aspirare, vi basterà accendere la sigaretta, poggiarla sul comodino ed osservare il fumo salire.

La sua velocità e le curve che disegnerà nell’aria vi permetteranno di acquisire tutte le informazioni necessarie per capire come andranno le successive 8-10 ore.

Badate bene, si tratta di un’indicazione, perché quello che il fumo vi dice corrisponde a ciò che accadrà se non farete nulla per tentare di modificare il corso degli eventi.

Non stiamo parlando di destino, quello non esiste, stiamo parlando semplicemente dell’interazione tra noi ed il mondo circostante.

Il corpo percepisce le variazioni di temperatura, movimento e concentrazione dell’aria, e reagisce a suo modo.

La peluria sottile che ci ricopre il corpo non serve solo a proteggerci, è anche un sistema di monitoraggio costituito da migliaia di appendici in costante contatto con l’esterno.


Per alcuni è un retaggio della nostra vita animale.

Di quando “annusare” l’aria era il miglior modo per scovare le prede.

Mezzo grado in più equivaleva alla presenza del fiato caldo di qualche animale nei paraggi.

Un lieve spostamento d’aria ne denunciava il movimento.

Un po’ di ossigeno in meno nell’etere, voleva dire che qualche bestia ne stava utilizzando tanto per riprendersi dopo una corsa.


E’ l’attenzione ai dettagli che fa la differenza tra una caccia fruttuosa ed una inconcludente.

E’ questo che ci ha fatto evolvere.

Ed è questo che dovrete riuscire a fare alla fine delle lezioni.


Questo corso non vi aiuterà a migliorare la vostra vita, non fatevi illusioni, ma vi sarà utile per affrontarla nel migliore dei modi possibili.


Credetemi, c’è molta differenza tra colui che si sveglia ed è in balia del proprio tempo, e colui che si alza consapevole del fatto che sarà una giornata di merda.

Pensate a come affrontate la morte improvvisa di un parente ed invece a come reagite alla notizia che uno dei vostri cari, malato da tempo, si è spento.

Non sono le notizie ad incidere sul nostro umore, ma la consapevolezza o meno del loro presentarsi.

 

In questo corso, ragazzi, siete tutti dei perdenti. 

Siete qui perché vi siete fatti attrarre dal suo nome, perché nel momento in cui vi siete trovati davanti alle parole “Teoria e tecnica della regolazione degli stati umorali” vi siete chiesti di cosa si potesse trattare.

E’ per questo che lo avete fatto, e nell’esatto momento in cui lo avete inserito nel vostro piano di studi avete dimostrato di averne un assoluto bisogno.

Vi siete fatti sorprendere da un titolo, e questo è forse il peggior inizio che ci si possa aspettare.

Vi dovreste vergognare ma mi auguro non lo facciate; perché anche la vergogna è una rappresentazione emotiva dell’inaspettato.

Mi auguro sinceramente, cari ragazzi, che alla fine di questo semestre usciate di qui ringraziandomi per non avervi donato emozioni.

 

 

Fu in questa maniera che il professor Brown irruppe nelle nostre vite il 14 ottobre del 1996.

Fu con quelle parole che riuscì a farsi odiare in pochi minuti da quasi tutto il suo corso; anche se non se ne preoccupò poi tanto.

Lo scopo delle sue lezioni non era quello di risultare simpatico, come ebbe modo di dirci più volte; il suo scopo era quello di leggere nelle nostre facce l’assoluta indifferenza, la mancanza totale di espressività derivante dalla “consapevolezza dell’ignoto”.

 

La consapevolezza dell’ignoto…

 

Bell’ossimoro – pensai quel giorno.

 

 

 

Il corso di “teoria e tecnica della regolazione degli stati umorali” era la cosa più strana che ci fosse capitata da parecchio tempo, con un gruppo di amiche avevamo deciso di iscriverci perché il professore era terribilmente sexy, e dopo ore di aula con vecchi grassoni occhialuti e megere in aria di menopausa, avevamo bisogno di un po’ di svago.

 

Quando entrammo in classe la prima volta ci accorgemmo di non essere le sole ad aver avuto quell’idea; il 70% degli studenti era di sesso femminile.

La restante parte era costituita da nerds irresistibilmente attratti dalla complessità del nome del corso (ed in questo, quindi, il prof. Brown dimostrò di aver ragione solo al 30%). 

 

Tra quella piccola massa di ragazzi abbrutiti dalle pagine dei libri di testo e dai loro PC carichi di linguaggi di programmazione e giochi di ruolo, Brown non poteva che uscirne ancor meglio di come la realtà non lo restituisse agli occhi di noi ragazze, nel pieno delle nostre tempeste ormonali.

 

Era moro, con gli occhi scuri e quella barba sfatta e pungente che nelle notti d’amore punge l’intimo della nostra essenza, confondendo piacere e fastidio e lasciando ai sensi l’arduo compito di dirimere la questione.

 

Il prof. Brown vestiva in jeans e camicia. Sempre.

Non amava lo stie elegante, non amava le cravatte, non amava nulla di quello che potesse ricondurlo ad un professore universitario.

 

E’ per questo che un giorno si presentò in aula in abito gessato scuro, camicia bianca e cravatta nera.

La sua apparizione vestito in quel modo costò a tutti noi una nota di demerito.

 

- Ancora una volta vi siete fatti sorprendere, ragazzi. Ancora una volta avete ceduto allo stupore. Ancora una volta mi avete fatto fallire.

Era sempre serio durante i suoi discorsi; e la contrapposizione tra il suo modo di agire ed il suo modo di tenere le lezioni, rendeva il tutto quasi esasperante.

 

Per le prime tre settimane ci sottopose ad un esperimento “base” (come lo definiva lui).

Ogni volta che ci dava le spalle per scrivere alla lavagna, si girava subito dopo con una palla rossa da clown sul naso.

Non era facile non ridere; e ci vollero circa tre settimane perché ci stufassimo di quel gioco e permettessimo al professore di complimentarsi con noi per la prima volta.

Avevamo superato la prova base, quella della “reazione emotiva attesa – non controllata”, quello stato mentale in cui si sa a priori che succederà una certa cosa, ma non si riesce a fare a meno di avere una determinata reazione al suo verificarsi.

 

L’avevamo superata con due giorni d’anticipo rispetto ai ragazzi dell’anno precedente, il che fu un buon risultato che ci valse una cena fuori, pagata dal prof. Brown.

 

La seconda prova, invece, non la superammo affatto.

Si tenne proprio alla fine della cena di festeggiamento, quando il professore, una volta ricevuto il conto, sì alzò dal tavolo per andare in bagno e non tornò più a sedersi.

Jonathan, che era andato a verificare che fosse tutto ok, tornò dalle toilette con aria incredula e ci disse:

E’ scappato dalla finestra del bagno… -

Seguirono alcuni minuti di imbarazzi, polemiche ed invettive, prima che riuscissimo a racimolare i soldi per pagare il conto e ce ne andassimo indispettiti.

Trovammo il professore seduto sul prato all’uscita del ristorante, incazzato quanto noi per il suo ennesimo insuccesso.

Ralf Ecker, uno degli studenti più calmi del corso, lo mandò a cagare senza troppi complimenti, e da quel giorno non lo vedemmo più in aula.

Noi altri continuammo a seguire le lezioni rapiti dai suoi modi di fare assolutamente imprevedibili, dai suoi cambi di umore comandati, dai suoi improvvisi gesti inaspettati.

 

Quattro settimane dopo il prof Brown entrò in classe e si sedette dietro la cattedra utilizzando la sedia, cosa che non faceva mai.

Rimase in silenzio e cominciò a guardarci, uno ad uno, senza dir niente.

Dedicò ad ognuno di noi circa tre minuti di sguardo attento ed impassibile, come a volerci guardare dentro.

Non seguì un ordine, e ritornò a più riprese su alcuni di noi per non farci pensare che il nostro turno potesse essere ormai passato.

Andò avanti così per circa un’ora e mezza.

Poi si alzò, si sedette sulla cattedra e rivolgendosi verso Lucilla la invitò ad alzarsi in piedi.

Lucilla ci provò, ma e sue gambe ressero poco più dello sforzo necessario per arrivare a metà della posizione eretta.

Poi ricadde sonoramente sulla sedia accennando un “ahi!”

 

- Quella che avete appena sperimentato si chiama strategia della tensione passiva. E’ una tecnica utilizzata in parecchi contesti politico militari, primo tra tutti la tortura. Sapete su cosa fa leva?

 

Alzai la mano: “Sull’incapacità di saper gestire le proprie reazioni emotive in situazioni inaspettate”

 

- Certo, ma questo è il tema dell’intero corso Mary. Io voglio sapere come riesce a produrre un effetto come quello che avete appena visto su Lucilla.

- Beh, la tensione emotiva si trasforma in tensione fisica. I muscoli tendono ad irrigidirsi in situazioni di forte stress psicologico e se si insiste si può riuscire a fiaccare una persona…

- Ottima spiegazione Mary. Con la teoria vai forte. Non posso dire lo stesso della pratica, dal momento che non riesci ad alzarti in piedi nemmeno tu, ma la consapevolezza è il primo passo per controllare le emozioni.

- E come si fa ad evitare gli effetti di questa strategia?

- Questo lo dovete capire da soli, ragazzi, pensateci durante il week end. Lunedì ne riparleremo.

 

 
 
 
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