Prigione dei SogniCercare adagio, umilmente, costantemente di esprimere, di tornare a spremere dalla terra bruta o da ciò ch'essa genera, dai suoni, dalle forme e dai colori, che sono le porte della prigione della nostra anima, un'immagine di bellezza che siamo giunti a comprendere: questa è l'arte. James Joyce |
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Era un’uggiosa mattinata di fine estate, il cielo era carico di nubi e tuonava ma era come se non avesse il coraggio di piovere. Lui come sempre le aveva scelto i fiori più belli e, dopo aver sistemato con cura il fascio aggiustando i gambi scomposti, stava andando a portarglieli.
Era diventata un’abitudine consolidata negli anni: ogni domenica, appena sveglio, usciva e la raggiungeva. Ormai si muoveva con una certa disinvoltura in quel dedalo di lapidi anche se non aveva perso il vizio di posare lo sguardo sulle foto dei defunti. A suo parere era un modo di salutare quelli che ormai erano i vicini di casa di lei.
Le persone, come in una processione, si accalcavano all’ingresso e si recavano lentamente dai loro cari. Nel loro sguardo però non si leggeva quasi mai dolore quanto piuttosto una strana inquietudine, un disagio che traspariva dai loro modi sbrigativi. Per esperienza aveva imparato che solo di fronte alla lapide che erano venuti a visitare e solo per qualche breve momento, il loro sguardo si adombrava lasciando gli occhi semilucidi.
Due bambini gli tagliarono la strada, il primo aveva un palloncino blu in mano ed il secondo lo stava rincorrendo. Gli scappò un sorriso nel vederli sgattaiolare via. Il loro atteggiamento verso quel luogo era senz’altro migliore di quello di tanti altri. Dopotutto cosa avrebbe potuto fare più piacere ad una nonna o un nonno se non vedere i propri nipoti divertirsi?
Stava pensando a queste cose quando arrivò d’innanzi alla sua tomba, quindi fu completamente impreparato ad affrontare il turbinio di emozioni che lo colse guardando il suo sorriso. Fu un attimo solo, in cui riuscì a soffocare la lacrima che stava per scendergli e si sforzò di ricambiare il suo sorriso. Gli raccontò la sua settimana: delle giornate che si stavano allungando, della nuova pettinatura della loro vicina, del figlio del salumiere che si era laureato. Qualsiasi novità, anche la più insignificante meritava di essere menzionata. Restò lì, seduto di fronte a lei anzi, di fronte ad una pietra che lui identificava con lei finché non vide la luce arancione del tramonto. Solo allora, dopo aver posato i fiori vicino la sua foto, si incamminò verso casa.
“ Perché te ne sei andata? Perché mi hai lasciato qui ad affrontare questa vita da solo?In questo deserto rischio di perdermi, di lasciarmi morire, senza di te. Come una candela senza ossigeno mi sto esaurendo giorno dopo giorno. Non posso guardare il mondo come prima perché ora è irrimediabilmente diverso e se prima ero convinto di poterlo modellare secondo i miei bisogni ora mi rendo conto che questo potevo farlo solo perché eri accanto a me. Perché qualsiasi cosa fosse accaduta la sera sarei entrato in un letto dove tu mi stavi aspettando. Perché mi sarei addormentato con te che mi accarezzavi la testa…
Risalire la corrente è difficile, non tutti i pesci ci riescono, c’è anche chi viene trascinato via e io sto perdendo le forze. Aiutami, dimmi come si fa a sopportare questo dolore, spiegami di nuovo come si fa a sorridere. Se non riesco più ad essere me stesso permettimi di diventare come eri tu!”
Ma queste parole non le disse mai sulla sua tomba, perché non riusciamo ad essere sinceri nemmeno con i morti…
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