Prigione dei SogniCercare adagio, umilmente, costantemente di esprimere, di tornare a spremere dalla terra bruta o da ciò ch'essa genera, dai suoni, dalle forme e dai colori, che sono le porte della prigione della nostra anima, un'immagine di bellezza che siamo giunti a comprendere: questa è l'arte. James Joyce |
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Non c’è ritorno, non riesco più a fermarmi. Come trascinato da una forza invisibile che si è impadronita di me chissà quando, non posso che andare avanti.
E’ tardi, oramai non si sentono più rumori per la strada, solo ogni tanto qualche automobile di passaggio mi testimonia che sono in una città. Sembra sia tutto deserto, i marciapiedi sono vuoti, ma a quest’ora la vita si nasconde, si aliena nel privato e nel personale, non la si trova più sbandierata in mezzo alla strada. Le luci dei lampioni distorcono le percezioni illuminando solo una parte della strada che mi si para davanti. Si passa dalla luce all’ombra con una facilità che spesso si sottovaluta, invece a pensarci bene su c’è quasi da aver paura. Tuttavia sono attraversato da una sensazione gradevole nel camminare in solitudine: i miei passi non sono né troppo lunghi ne troppo corti, sono solo i miei passi.
Incrocio un barbone, mi osserva incuriosito e si leva il cappello in segno di saluto al mio passaggio, non mi chiede la carità. Forse persino lui prova una sorta di solidarietà nei confronti di un’altra creatura della notte.
Procedo a passo spedito come se sapessi dove sono diretto, giro a destra in un vicolo buio e strettissimo. Si sente distintamente l’odore di umido emanato dalle pareti degli edifici fatiscenti che sembrano circondarmi. Ci faccio l’abitudine dopo poco tempo e svolto di nuovo verso una strada più larga ma non per questo più illuminata.
Passo vicino ad una macchina con i vetri appannati, da dentro sento dei gemiti. Affretto il passo per non disturbare. Più avanti due puttane mi sorridono, una è carina. Appena si rendono conto che non sono un cliente e iniziano ad insultarmi. Mi seguono fino alla fine del violone, poi un uomo in tuta le raggiunge e le riporta indietro strattonandole.
Cammino ancora a lungo, unica compagna di viaggio una lattina che calcio avanti a me. Un paio di cani mi attraversano la strada, ma non attiro la loro attenzione, forse cercano riparo. Effettivamente anche io inizio a sentire un po’ di freddo.
Chissà che ora è, chissà dove sono.
Finalmente i piedi si arrestano, non ci metto molto a capire dove mi hanno lasciato: è la sua casa.
La luce della sua stanza al sesto piano è ovviamente spenta, tuttavia è fortissimo il desiderio di suonare il citofono. Se lo facessi sicuramente mi direbbe di salire, anche se l’avessi interrotto nel più bello dei sogni. Oppure mi insulterebbe, chissà, lui è fatto così, però mi farebbe salire e non mi lascerebbe andare via finchè non gli avessi detto cosa mi turba.
Ma io lo so cosa mi turba? Cosa mi ha spinto fino alla sua porta?
E’ un’idiozia. Non può essere questa la meta del mio cammino.
Ti saluto amico mio, ti lascio dormire, non puoi aiutarmi ma va bene così. Mi basta l’aiuto potenziale che potresti darmi, anzi, che vorresti darmi. Non ti farò crucciare.
Riparto.
Non ho ancora il pieno controllo dei miei movimenti, le gambe continuano a muoversi da sole, non so dove mi conducono ma lo scoprirò durante il percorso.
Guardo per terra, sto seguendo dei binari.
All’inizio la cosa mi disturba, mi sembra che la direzione che ho preso sia già determinata, poi però provo un certo piacere: di fronte a me la strada sembra infinita…
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