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Della Casa 11: sonetti

Post n°1173 pubblicato il 01 Febbraio 2015 da valerio.sampieri
 

LI

Sì lieta avess'io l'alma, e d'ogni parte
il cor, Marmitta mio, tranquillo e piano,
come l'aspra sua doglia al corpo insano,
poi ch'Adria m'ebbe, è men noiosa in parte.

Lasso, questa di noi terrena parte
fia dal tempo distrutta a mano a mano,
e i cari nomi poco indi lontano
(il mio col vulgo, e 'l tuo scelto e 'n disparte),

pur come foglia che col vento sale
cader vedransi. O fosca, o senza luce
vista mortal, cui sì del mondo cale,

come non t'ergi al ciel, che sol produce
eterni frutti? Ahi vile augel su l'ale
pronto, ch'a terra pur si riconduce!

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 47 (pag. 24)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 313

Note:
Anche questo è diretto al Marmitta che rispose alla sua volta con uno che incomincia: Io mi veggio or da terra alzato in parte. Era il poeta afflitto di podagra quando venne a Venezia; ma da indi se ne sentia liberato.
(Carrer, cit., pag. 309)



LII

Feroce spirto un tempo ebbi e guerrero,
e per ornar la scorza anch'io di fore,
molto contesi; or langue il corpo, e 'l core
paventa, ond'io riposo e pace chero.

Coprami omai vermiglia vesta, o nero
manto, poco mi fia gioia o dolore:
ch'a sera è 'l mio dì corso, e ben l'errore
scorgo or del vulgo che mal scerne il vero.

La spoglia il mondo mira. Or non s'arresta
spesso nel fango augel di bianche piume?
Gloria non di virtù figlia, che vale?

Per lei, Francesco, ebb'io guerra molesta;
e or placido, inerme, entro un bel fiume
sacro ho mio nido, e nulla altro mi cale.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 48 (pag. 25)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 314

Note:
Sonetto gravissimo, ov'è ritratto l'animo del Poeta, e le fallaci speranze e i pentimenti della sua vita. E' scritto a Francesco Nasi, gentiluomo fiorentino.
V. 4. Chero, voce d'origine spagnuola, e straniera a noi, dice il Tasso., Disc. Poet. Il Bembo la vuole provenzale, vedi le Prose. Il Castelvetro nelle Giunte le accorda derivazione latina.
V. 5-6. Vermiglia veste, o nero-Manto. Qui si pare apertissima l'affannosa bramosia del pappello cardinalizio: vermiglia veste, accenna alla porpora; nero manto è abito di prete.
V. 12. A questo verso allude un sonetto del Varchi al Casa, che incomincia: Bembo toscano, a cui la Grecia e Roma. Cito volentieri questo sonetto, perchè si vegga in qual conto fosse tenuto il Bembo da'toscani stessi, a tale che credevano onorare i loro compatriotti intitolandoli dal nome di lui. Né certo il Varchi era allevato alla scuola del Perticari e di Vincenzo Monti.
V. 13. Entro un bel fiume. Quando fosse scritto, come sembra, in Venezia, calzerebbe la citazione fatta dal Quattromani del tibulliano:
Jam nox aethereum, nigris emersa quadrigis,
Mundum caeruleo laverat amne rotas.
E l'Oceano fu chiamato fiume dai Greci. Meglio però parmi che si debba intendere del Sebeto, fiume presso Benevento, sede arcivescovile al Poeta. Senza ciò il bel fiume non sarebbe da torre ad esempio, ch' io creda. Anche questo sonetto venne esposto dal Garigliano.
(Carrer, cit., pag. 309)



LIII

Varchi, Ippocrene il nobil cigno alberga
che 'n Adria mise le sue eterne piume,
a la cui fama, al cui chiaro volume
non fia che 'l tempo mai tenebre asperga.

Ma io palustre augel, che poco s'erga
su l'ale, sembro, o luce inferma e lume
ch'a leve aura vacille, e si consume:
né pò lauro innestar, caduca verga

d'ignobil selva. Dunque i versi, ond'io
dolci di me ma false udì'novelle,
amor dettovvi e non giudicio: e poi

la mia casetta umil chiusa è d'oblio.
Quanto dianzi perdeo Venezia e noi
Apollo in voi restauri e rinovelle.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 49 (pag. 25)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 315

Note:
In morte del Bembo, e riscontra uno del Varchi che incomincia: Casa gentile, ove altamente alberga.
V. 3-4. Al cui chiaro volume - Non fia che il tempo mai tenebre asperga. Frase consimile a quella notata nel son. XXXIV.
V. 8. Anche qui l'uso del verbo innestare è notabile.
V. 12. La mia casetta. Freddura inopportuna in grave componimento, com'è questo. E chiosi pure il Quattromani, che qui il Poeta scherza felicemente col suo nome. Luogo opportuno a scherzare un sonetto per la morte d'un amico! Non mi ricorda ben quale, ma v'è una lettera del Caro, ove si parla di simili scherzi.
(Carrer, cit., pag. 310)



LIV

O sonno, o de la queta, umida, ombrosa
notte placido figlio; o de' mortali
egri conforto, oblio dolce de' mali
sì gravi ond'è la vita aspra e noiosa;

soccorri al core omai che langue e posa
non have, e queste membra stanche e frali
solleva: a me ten vola o sonno, e l'ali
tue brune sovra me distendi e posa.

Ov'è 'l silenzio che 'l dì fugge e 'l lume?
e i lievi sogni, che con non secure
vestigia di seguirti han per costume?

Lasso, che 'nvan te chiamo, e queste oscure
e gelide ombre invan lusingo. O piume
d'asprezza colme! o notti acerbe e dure!

Le Rime secondo la stampa del 1558
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 50 (pag. 26)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 316

Note:
Al Sonno: lodatissimo sonetto, e a buon diritto. L'amplificazione de'primi quattro versi non nuoce all'effetto; e la giudiziosa collocazione delle parole, frequenti di vocali, ti fa sentire un non so che di mestamente languido, proprio di chi cerca riposo e nol trova. Nella prima terzina hai qualche tinta virgiliana. L'esclamazione ultima mette il colmo all'evidenza. S'impari in somma dai giovani, ch'esso entra innanzi di lungo tratto all' altro della Gelosia. Anche questo ha l'esposizione del Garigliano.
(Carrer, cit., pag. 310)



LV

Mendico e nudo piango, e de' miei danni
men vo la somma tardi omai contando
tra queste ombrose querce, e obliando
quel che già Roma m'insegnò molti anni.

Né di gloria, onde par tanto s'affanni
umano studio, a me più cale; e quando
fallace il mondo veggio, a terra spando
ciascun suo dono, acciò più non m'inganni.

Quella leggiadra Colonnese e saggia
e bella e chiara, che co' i raggi suoi
la luce de i Latin spenta raccende,

nobil poeta canti e 'n guardia l'aggia:
ché l'umil cetra mia roca, che voi
udir chiedete, già dimessa pende.

Le Rime secondo la stampa del 1558
Rime di diversi Ecc. Autori, in vita, e in morte dell'Ill.S.Livia Columnae, 1555, pag. 48
Lirici italiani del Secolo Decimosesto con annotazioni, di Luigi Carrer, Venezia, 1836, Sonetto 51 (pag. 26)
Parnaso Italiano, Vol. 26, 1787, pag. 317

Note:
Vo' credere composti questo e il seguente sonetto a Narvesa; e credo che le querce qui ricordate, siano il bosco del Montello, densissimo fino a pochi anni addietro, e atto a proteggere dal sole d'ogni stagione, e inspirare malinconici e sublimi pensieri. Colà entro è l'Abbazia, famosa per l'interdetto di Paolo III, e una bella Certosa, ma questa poco meno che a terra. Da Narvesa trovo scritte alcune lettere del Casa degli ultimi anni, quando appunto è probabile che col presagio della morte imminente si raccogliesse nella solitudine a meditare la vanità di tutte le cose.
V. 3-4. Intende gl'inutili servigi prestati a quella corte, non sempre, come sembra, secondo coscienza.
V. 9, e seg. La Colonnese qui ricordata è Girolama Colonna, figliuola di Giovanna d'Aragona; e il sonetto, indiritto a Ranuccio Farnese che lo aveva eccitato a comporre in lode di quella. Il manoscritto Melchiori reca la variante: Quella leggiadra alma reale e saggia. E cosi si legge a pag. 381 del l'empio di donna Giovanna Colonna.
(Carrer, cit., pag. 311)

 
 
 
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