Questa seconda versione della novella è opera di anonimo. A differenza della versione di cui ai precedenti post (1894 e 1895), non è stato individuato il possibile autore, nemmeno in via ipotetica. Esistono anche due ulteriori versioni di Bernardo Giambullari e di Bartolomeo Davanzati e può darsi che le pubblicherò in futuro.
La novella del Grasso legniajuolo
riscontrata col manoscritto e purgata da molti e gravissimi dubbi.
A Monsignore Giuseppe Montanari di Bologna, Dottore nel Diritto canonico e civile, Protonotario apostolico, Canonico della Metropolitana ec. ec.
Son tanti gli argomenti di benevolenza che Ella mi ha dato in questi ultimi anni: tante volte mi ha Ella dato cagione di ammirare la sua molta dottrina unita a sì rara modestia: con tanto senno e con tanta cortesia mi ha fatto or prima or poi delle osservazioni intorno a poveri lavori miei, che non voglio lasciar passare la congiuntura che ho di mostrargliene pubblicamente il mio grato animo dedicandole questo libriccino. Altri forse dirà non essere tale offerta conveniente ad un suo pari; ma io son certo che non parrà così a V. S. Ill.ma e Rever.ma, la quale sa aver l’occhio, non al dono, ma alla pura intenzione del donatore; ed alla quale, amante come è della cara nostra lingua, non può tornare se non accettassimo il dono di uno scritto che di lingua è proprio una leccornia, e che dagli Accademici della Crusca è registrato fra quegli che fanno testo.
Comecchessia, lo accetti per piccolo segno di estimazione e di amicizia, e mi tenga nella sua grazia
Firenze, 12 agosto 1836.
tutto suo Pietro Fanfani.
AL LETTORE,
Chi ponesse a riscontro il viver de’ Fiorentini ne’ secoli XIV e XV col vivere di essi nel secolo presente, vedrebbe singolarissimo contrasto, e potrebbe coglierne materia di parecchi salutevoli ammaestramenti. Erano essi feroci nelle contese civili perchè così davan le maledette parti che laceravano allora tutta l’Italia, ma eran prodi e prudentissimi in guerra; e que’ medesimi poi, tornati a casa, erano o letterati, o politici, o ricchi e solerti mercatanti, o artisti sublimi: e in cima di tutti i pensieri aveva ciascuno il decoro della patria e il lustro della religione. I quali affetti santissimi furon sola cagione che senza fatica sorgessero Palazzo Vecchio, Santa Maria del Fiore, Santa Maria Novella, Santa Croce, la Loggia dell’Orcagna, Orsammichele, e altri miracoli di Arte, d’un solo de’ quali, ora che tali affetti più non accendono i nostri cuori, non giungerebbesi a far la minima parte, come può aversene prova nella Facciata del Duomo, tante volte tentata di fare, e non mai riuscita. Tutto ciò rendea famoso presso gli altri popoli il nome fiorentino, e ben a ragione poteron gli scrittori celebrarlo con altissime lodi: ma se bello e glorioso era il viver pubblico, dirò così, non era men bello e meno attrattivo il viver privato. I grandi, che erano generalmente ricchissimi e non aborrivano dalla mercatura, fiorian Firenze d’ogni lieto spettacolo, raccogliendosi spesso in allegre brigate che rallegravano la città di canti, di suoni, di tornèi, di giostre e di splendide cavalcate. I popolani, tutti dati al lavoro e alla mercatura, tutti istruiti nell’arte di governare, oggi gli vedevi de’ signori, o in nobili ambascerie degnamente rappresentare la maestà della repubblica, e poscia gli trovavi o al fondaco o a bottega, piacevoli ed alla mano come si conviene al più umile cittadino. I letterati erano pochi; ma que’ pochi erano eccellenti, e scrivevano eccellenti cose in parole d’oro. Gli artisti poi erano la più cara e più amabil cosa di Firenze. Innamorati tutti quanti dell’arte come arte, e non come fonte di guadagno, tutta la vita in lei e per lei spendevano: l’uno ne conferiva con l’altro, studiandosi di giungere all’eccellenza: non era ancora venuta la peste delle accademie a ridur l’arte artifizio; ma chi a quella sentiasi chiamato andava in bottega d’un buon maestro, e sotto di lui, cominciando dal mesticare i colori, e andando su su, facevasi anch’egli maestro eccellente. Quel che allora dicevasi bottega, oggi più gentilmente dicesi studio, ma i lavori che uscivano da quelle botteghe non si son più veduti uscir dagli studj. Tutti gli artisti poi si tenean fra loro come tanti fratelli: lo scultore non teneasi da più che il pittore e l’architetto, nè quegli di questo: il lavoratore di tarsie o di niello non era reputato più vile degli altri: chiunque esercitava un’arte del disegno era fratello, e bastava. La sera, finito il lavorare, si raccoglievano in bottega di alcuno di loro; e quivi, data parte conveniente a’ ragionamenti dell’arte, o si sollazzavano con lieti racconti, o per qualcun de’ più semplici ordinavano piacevoli beffe, le più delle quali finivano in risa ed in cene: e se non aveano fine sì lieto, non aveanlo certo nè tristo nè doloroso.
Questo bello e riposato vivere più che dalla storia si ricava dalle novelle, le quali, per questo rispetto, se non per altro, sono di lettura rilevantissima: e la prova di ciò che ho detto, specialmente circa gli artisti, più forse che da qualsiasi novella, si raccoglie da questa qui che adesso ripubblico. Per la qual cosa, anche quando essa non fosse di niuna importanza per altro, sì dovrebbe tornare gratissima per questo solo; ma sopra questo essa è lettura piacevole e cara così, che a qualunque più grave barbassoro cava per forza le risa, ed è scritta in ottima lingua popolar fiorentina di quel tempo, ricchissima di fiori e di grazie ineffabili, tutto che rozza alquanto e negletta.
Contiene essa il racconto di una solenne burla fatta dal Brunellesco, dal Donatello e da altri artisti, a un Manetto Ammannatìni lavorator di tarsie, detto il Grasso legniajuolo, con la quale gli fu fatto credere ch’ e’ fosse diventato un cotal Matteo, e per Matteo fu messo in prigione per debito, ne fu liberato da’ proprj fratelli di esso, che pagaron per lui, e come loro fratello sel rimenarono a casa: gli fu insomma così accortamente colorita la cosa, e tanti accidenti seppersi far nascere, che, non che il Grasso, uomo piuttosto semplice, ma chicchessia sarebbe rimasto almeno perplesso dell’esser più lui, o esser diventato un altro. Comecchè il fatto di questo Grasso fosse già passato in proverbio nel secolo XV, tuttavia la cosa incredibile fecelo sempre tenere per favola e non per altro; quando nel secolo passato venne fatto al Manni di chiarirlo per vera storia con documenti certissimi: il che fu a’ tempi nostri confermato dal Moreni, il qual conjetturò, e la conjettura fondò su buoni argomenti, autore di questa novella dover esser Feo Belcari. Ora, dovendo parlare del codice da cui il Moreni trasse questa novella, e delle varie edizioni che essa ha avuto ne’ varj secoli, non posso lasciar di trascrivere le parole che il Moreni stesso usò in questa materia nella Prefazione della edizione sua, che sono le seguenti.
« Quello, di cui noi ora ci serviamo, appartenea già a Giovanni Mazzuoli, comunemente appellato il Padre Stradino, sì per essere oriundo di Strada, luogo distante da Firenze circa a sei miglia, che per essersi dimostrato, sinch’ei visse, padre affezionatissimo delle due nostre illustri Accademie, degli Umidi, cioè, della quale ne fu egli o già l’istitutore nel 1540, e della Fiorentina, per le quali dimostrò mai sempre quell’istesso parzialissimo affetto, che in avanti da tanto tempo dimostrato avea l’architetto della nostra Novella in quelle frequenti adunanze, o accademie private che le si fossero, nelle quali, al dir del nostro Anonimo, di varie e piacevoli cose ragionando, conferivano infra loro la maggior parte dell’arte e professione sua. Nei margini della prima pagina di esso codice, lo Stradino notò le seguenti cose, le quali, comecchè isteriche, benchè aliene dal soggetto, le vogliamo qui riportare: «Questo libretto è di me Giovanni di Domenico di ser Giovanni di Mazzuolo da Strada detto Stradino, cittadino senza istato, soldato sanza condizione, profeta come Cassandra di nostra prima patria. Donòmmelo el mio amico Liosardo d’Alessandro Barducci, bisnipote del nobilissimo Cavaliere a Spron d’oro, che a salute di sua anima, e de sua anticessori e successori, fece fabbricare lo Spedale di San Matteo detto di Legno, per memoria del suo nome, ed il Munistero di San Niccolò colle lor chiese, che costò tutta detta fabbrica scudi 24,000 d’oro. Scudi 42,000 donò in beni per sostentare gl’infermi, chi gli governa, e le monache. Questo ho io fatto per dimostrare a chi leggerà questa opera pia possa imparare a salvar l’anima sua, de’ sua passati, presenti e futuri con lasciare fama eterna; perchè no’ siam tutti ministri della natura, la quale si contenta di poco; no’ n’ abbiamo a cavare solamente vitto e vestito di questo mondaccio qual c’ è presentato, e non s’è comperato, poveracci che noi siamo: facciamoci lume innanzi no’ ci muojamo. Lo ricorda Stradino, che sen’ contenta.» Nel margine interno poi all’estremità inferiore del Codice, ha il medesimo delineate, in mezzo ad emblemi, le armi accollate de’ Medici, de’ Visconti di Milano, e de’ Salviati: prossima a queste ha posta la sua di due mazzuoli alla schisa. Nel mezzo del margine inferiore sono le armi accollate de’ Medici, e di Toledo, nell’ornamento delle quali ha aggiunto altra arme de’ Medici di sette palle, quella de’ Salviati, e la sua propria descritta, e stanno in mezzo ad alcuni versi cui poco interessa il riportare. Queste sembreranno minuzie, ma non lo sono per chi sa trarne ancora da esse all’uopo dei vantaggi e dei lumi.
Esaminato il Codice, passiamo ora a far rimembranza delle più e diverse edizioni, che di essa Novella sonosene fatte in più tempi. La più antica che siaci venuta alle mani, e di cui si abbia cognizione, sebben non persuasi ch’e’ non ve ne possa essere di un’epoca più remota, si è quella dei Giunti di Firenze dietro al Decamerone del Boccaccio del 1516, ripetuta nel 1522 dietro a quello d’Aldo. Di qui ne derivarono le posteriori fattene nel così detto Novellino, o siano Novelle antiche, e di bel parlar gentile, impresse dagli stessi Giunti nel 1572, e in seguito ivi, nel 1782 da Lorenzo Vanni, per opera del Manni con sua bella Prefazione, in Londra (in Livorno) 1795, per Riccardo Bancker, e tra le Novelle di alcuni autori fiorentini, impresse ivi nell’istesso anno per opera del valente bibliografo Gaetano Poggiali con sue prefazioni premesse a ciascuno autore delle medesime. Fu ella più volte nel secolo XVI pubblicata anche a parte, cioè in Firenze nel 1566 e 1576, in-4, senza nome dello stampatore, e nel 1588 per Gio. Baleni in-4, con stampa in legno nel frontispizio analoga alla professione del Grasso, e con un sonetto caudato in fine il quale, non avendo nulla che fare col soggetto, fa dinotare quanto ella fosse madornale l’ignoranza dell’editore, e quanta poca scaltrezza egli avesse per render più accreditata la sua ristampa con sì ridicola aggiunta. Altre posteriori edizioni abbiam veduto, fatte fra noi, del secolo successivo, tra le quali quella del 1603 per Zanobi Pignoni, in-4; » del 1646, per Stefano Fantucci Tosi alle Scalee di Badia in-4; e del 1622 per il Sermartelli in-4: ma queste, per vero dire, senza che mai alcun vi abbia posto mente, sono del tutto conformi a quella già di sopra indicata del 1588, vale a dire sono una edizione istessa col solo cangiamento del frontispizio, solita impostura dei librai per ingannare i semplici, e per ismerciarne con più facilità le copie rimaste loro invendute e incagliate; del qual vizio erane imbrattato ancora il nostro valente tipografo Lorenzo Torrentino, come più volte noi abbiam rilevato nelle due edizioni degli Annali della Tipografia di esso stampatore. La più accreditata però che abbiasi, e che al dir del ch. signor Bartolommeo Gamba nel tomo 1 della ediz. II dei Testi di Lingua, è un’ottima ristampa emendata coll’ ajuto di buoni testi, si è quella, omai per la pochezza delle copie divenuta alquanto rara, procurataci dal ch. nostro Domenico Maria Manni, col titolo: Novella antica del Grasso legnaiuolo, scritta in pura toscana favella, ed ora ritrovata Istoria ec, illustrata e coll’ ajuto di buoni testi emendata, in Firenze 1744 in-4, con ristretta sì, ma erudita ed assennata prefazione, nella quale, colla sua solita e propria squisitezza di vetuste carte, e d’attestazioni autentiche e minute, del Grasso parlasi e de’ di lui antenati, e ad evidenza dimostrasi esser egli stato della famiglia Ammannatini, e non già Adamantini, come leggesi erroneamente in alcune delle più vetuste edizioni. »
Fin qui il Moreni: ed io aggiungerò che un’altra volta fu stampata, insieme con le Novelle del Sacchetti, a Venezia, nel 1830, Tipografia di Alvisopoli; ma che tale edizione, detta dal Gamba più emendata di quella del Moreni medesimo, non mi è venuto fatto di vederla; e non mi è paruto necessario il farne altra inchiesta più minuta, quando per la edizione presente io ho fatto capo al puro fonte del Ms., ed ho usato quanta diligenza era da me, nel modo che, conchiudendo, sono per dire. Mi sono servito, com’era naturale, della edizione del Moreni; ma prima di darla a stampare la ho parola per parola gelosamente riscontrata col codice magliabechiano già descritto; il qual riscontro mi ha ottimamente servito, come quello che mi ha procacciato parecchie correzioni, un saggio delle quali, perchè il lettore vegga ad un’occhiata la loro importanza, io registrerò in fine di questo discorso. Particolar cura poi ho messo nella punteggiatura e nel collocamento dei segni ortografici: cosa di gran momento in ogni scrittura a renderne chiara la intelligenza, ma in questa Novella massimamente, la quale passa così spesso dal narrativo al drammatico, è così piena di modi popolari e di costrutti oggi disusati, e qualche volta è anche così infruscata la sintassi, che senza il timone della ortografia, ci sarebbe stato da rimaner nelle secche, come alle volte ci fa rimanere il Moreni. E vedendo poi che molte voci, frasi e costrutti avean bisogno veramente di una dichiarazione, io ci ho fatto qua e colà delle note, aggiungendole alle pochissime del Moreni, le quali per altro, a conoscerle dalle mie, ho segnate con lettera M. Insomma pare a me di non aver lasciato indietro diligenza veruna: resta che tu, o Lettore, giudichi se la mia diligenza è riuscita a buon fine.
Anonimo
Edizione di riferimento
Novella del grasso legniajuolo, riscontrata col manoscritto e purgata da molti e gravissimi errori, a cura di Pietro Fanfani. Ed. Felice le Monnier, Firenze 1856
Fonte: Biblioteca dei Classici Italiani di Giuseppe Bonghi da Lucera
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