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« Andrea NavageroIacopo Marmitta »

De claris mulieribus 25

CAPITOLO XXV.
Nicostrata, chiamata Carmenta.

Nicostrata, la quale poi fu chiamata Carmenta in Italia, fu figliuola di Iano, re d’Arcadia, e secondo altri fu sua nuora. E non fu solamente maravigliosa di reame, ma fu ammaestrata in litteratura greca; e fu di sì sottile ingegno, che con sollecito studio imperò infino all’arte del vaticinio, intanto che diventò famosa indovina; la quale usata alcuna volta da sè medesima manifestare in versi cose future, fu domandata dai Latini Carmenta, quasi tolto via il primo nome di Nicostrata. E questa fu madre d’Evandro, re d’Arcadia, il quale, si dice per le favole degli antichi, essere stato figliuolo di Mercurio, o che sia perchè egli fu pronto e eloquente, o che egli fu sagace. Il quale, secondo che dicono alcuni, perchè a caso egli aveva morto il suo vero padre, o che fusse (secondo che piace ad alcuni altri) per altra cagione nata discordia fra i suoi cittadini, fu cacciato del regno de’ suoi passati. E confortandolo Carmenta sua madre, e promettendogli per augurio gran cose, se egli andasse a quel paese che ella gli mostrasse, in compagnia di lei entrò in nave con parte de’ suoi popoli, e con prospero vento dal Peloponneso per guida di sua madre arrivò al porto del Tevere, e posesi al monte Palatino, il quale dal nome di suo padre ovvero di Pallante suo figliuolo chiamò Palatino. E trovando Carmenta gli abitatori del luogo quasi uomini salvatichi, benchè già innanzi per industria di Saturno, fuggito di quel luogo, avessero apparato a seminare le biade; guardando quegli non avere alcuno uso di lettere, ovvero poco, e quello di lettere greche; e considerando con la divina mente quanta fama restasse a quel luogo e a quella regione, pensò che fusse indegna cosa che i suoi gran fatti fussero mostrati con aiutorio di lettere d’altra gente, per li tempi futuri e con tutta forza di suo ingegno si convertì a dare a quegli popoli proprie lettere, e al postutto diverse dalle altre nazioni: alla quale impresa non mancò Dio; per la cui grazia avvenne che, trovato da quella nuove lettere, secondo lo volgare d’Italia, insegnò come quelle si dovessero giugnere insieme, contenta solamente di sedici lettere, come per innanzi Cadmo, edificatore di Tebe avea trovato a’ Greci, le quali noi insino a qui tegniamo per doni di quella, e chiamiamo Latino, benchè alcuni altri savi ci ebbero aggiunte alcune altre utili, non mutando alcuna delle prime: questa invenzione parve tanto maravigliosa, che certamente i grossi uomini credettero quella non essere stata femmina, ma piuttosto Dea. Per la qual cagione avendo onorata quella in vita con divini onori, poichè ella morì, edificarono un tempio sotto suo nome nella infima parte del monte Campidoglio, ove ella era venuta; e per fare perpetua la sua memoria dal suo nome chiamarono i luoghi vicini Carmentali. La qual cosa dopo Roma, fatta grande, non comportò che fusse tolta via; che anzi chiamarono una porta, fatta per necessità da’ cittadini, per molti secoli porta Carmentale per lo nome di Carmenta. Italia fu già innanzi all’altre regioni famosa per molte proprietadi, e quasi splendida di celestiale luce: nè fu cercata la sua chiarezza solarmente nella sua parte; perchè d’Asia vennero le ricchezze e gli ornamenti reali, la nobiltà venne primieramente da’ Troiani (benchè i Greci l’accrescessero molto), l’aritmetica e geometriche arti vennero d’Egitto, da’ sopraddetti Greci venne la filosofia, la eloquenza, e quasi ogni arte meccanica: l’agricoltura, ancora conosciuta da pochi, Saturno bandeggiato la insegnò, lo falso coltivare degli Iddii venne da’ Toscani e da Numa Pompilio; le pubbliche leggi vennero primamente d’Atene, dappoi fecele lo senato, e gl’imperadori; lo sommo sacerdozio, e la perfetta religione diede Santo Pietro; la disciplina militare fu trovata dagli Romani, con la quale per la fortezza dell’armi e degli uomini per intera carità verso la repubblica acquistarono la signoria di tutto il mondo; le forme delle lettere, assai è manifesto, per quello che è detto, che Carmenta le trovò a’ nostri antichi, poichè ella venne d’Arcadia. E poi fu creduto che ella desse la prima invenzione della grammatica, la quale in processo di tempo i passati fecero più abbondevole; ai quali Dio fu sì favorevole, che gran parte di sua gloria fu tolta alle lettere ebraiche e alle greche, e a tutta Europa quasi uscirono per ampio spazio le nostre lettere; per le quali sono iscritti infiniti volumi in ogni scienza de’ fatti degli uomini, e dei gran fatti di Dio, conservati a perpetua memoria degli uomini, acciocchè noi conosciamo per aiutorio di quelle cose che noi non potemmo vedere. Con queste mandiamo i nostri prieghi e conservamoli con l’altrui risposte; queste descrivono a noi Iddio, secondo che si può fare; queste disegnano lo cielo, la terra e il mare, e tutti gli animali; e non è alcuna cosa che per quella chi vole non possa imparare. E brevemente per opera di quelle, che per ampiezza dalla mente non si può comprendere ed ottenere, fidatissimamente si comanda a sua guardia. Le quali cose, benchè alcune convengono ad altre lettere e lingue non per questo è menomata alcuna cosa commendabile alle nostre. Finalmente di così nobili virtudi alcune n’avemo perdute, alcune n’avemo date, e alcune ancor tenemo, almeno piuttosto per lo nome che per l’effetto. E comechè sia adoperato dell’altre cose dalla fortuna, o per lo nostro difetto, non ha potuto torre sì maravigliosa e sì opportuna gloria alla nominanza d’Italia nè la ruberìa de’ Tedeschi, nè il furore dei Gallici, nè le cautele degli Angli, nè la ferocità degli Spagnoli, nè i barbari d’alcun’altra generazione col loro assalto: sicchè mai egli dicessero, e ardiron di dire, che per la loro virtù fussero trovate le prime lettere, e molto meno che eglino trovassero le grammatiche; le quali come noi abbiamo trovate, così gliele dessimo mai sempre disegnate col nostro vocabolo. Onde addiviene, che quanto più sono portate da lungi, tanto più sono ampliate le lodi del nome latino, e gli onori; e più chiaro fanno la testimonianza dell’antichissimo onore, nobiltà, e ingegno; e serbano incorrotto argomento di nostra sottilità, eziandio con la indegna azione dei barbari: della quale singolare gloria, benchè noi dobbiamo rendere grazie a Dio che l’ha date, nondimeno siamo tenuti a Carmenta di molta lode, carità e fè. Per la quale pietosa cosa è, che noi la magnifichiamo a nostro potere in eterna memoria, acciocchè d’alcuni non siamo reputati.

Giovanni Boccaccio

De claris muljeribus
VOLGARIZZAMENTO
DI MAESTRO DONATO ALBANZANI DA CASENTINO
[ca. 1336 - fine secolo XIV]

 
 
 
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Data di creazione: 26/04/2008
 

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