Dialogo nelle nozze del Principe di Stigliano e della signora Isabella Gonzaga figlia del Duca di Sabioneta.
Scendi, meco, regina
Del terzo cielo, scendi,
E la tua face accendi
Del foco ch'il più casto amore affina.
Venere
Scendo e ben son presaga,
O moglie del gran Giove,
Che fian le nostre prove
Contra fugace verginella e vaga.
Giunone
Già vinta, più non fugge
Dal mio giogo soave;
Ma sol teme ella e pave
Quel cui pur desïando si distrugge.
Venere
Opra de l'arte mia
Fia d'affidar sua tema.
Giunone
Deh! senza timor sia,
O nel profondo core almen lo prema.
Venere
Cedi, casta Isabella,
Al tuo gradito sposo.
Giunone
Non sia 'l tuo cor ritroso.
Venere
In virtù d'esta mia sacra facella.
Giunone e Venere
Cedi, e di Sitigliano
E Sabbioneta i regi
Per te lor chiari fregi
Uniscan col lor sangue alto e sovrano.
Cedi, né i tuoi sospiri e i mesti sguardi
O 'l tuo pianto ritardi
Quella beata prole
Ch'esser de' al mondo più chiara ch'il sole.
[2 Di Orazio Ariosti]
Dialogo nelle nozze di Carlo Duca Di Savoia e di Catterina figlia del Re di Spagna (1585).
Imeneo
Perché tua tromba tace
Messaggera del tutto?
Perché, Amor, l'arco tuo lento si giace
In tanta occasïon senza alcun frutto?
Amore e Fama
Perché con lieti canti
E con tua chiara face
Tu i nostri offici d'adempir ti vanti?
Imeneo
Non son tai sposi questi
Che loro esser poss'io
Amor, la fama, e delle nozze il dio?
Amore
Tu dunque in modi onesti
Gli aggiungi et io farò poi co' miei strali
Nei mortai petti lor piaghe immortali.
Fama
Et io lasciando che tu canti solo
Carmi di gaudio in mezzo a lieto stuolo,
Portarò i nomi loro
A lo Scitha, a l'Hibero, a l'Indo, al Moro.
Imeneo
Anzi poscia che l'ali
Tutti egualmente abbiamo
Cantando in un gli andiamo
Fin che lor gloria sovra il ciel ne sale.
Fama, Amore, Imeneo
O Carlo, o Caterina, o Dora, o Tago,
Vostri cari legami ognuno intenda
E' vostri nomi apprenda
Essa di celebrarmi ognor più vago
Tutte le cetre a voi siano converse
Di pretïosi inchiostri
E tutti a voi, Parnaso, apra i suoi chiostri.
[3 Di Orazio Ariosti]
Orazio Ariosti
Per sanar del mio cor l'indegna piaga
L'alma ogn'arte, ogni sforzo insieme aduna
E di ciò ch'il ciel porti, o la fortuna
Di far rimedio al suo dolor s'appaga.
Né perché ognor dolce memoria, e vaga
Nequitosa l'alletti et importuna
Quel lume che la scorge, a lei s'imbruna
Né del suo buon voler punte si smaga.
Lume del ciel la scorge, e nobil sdegno
La move, sdegno che i sopiti sensi
Suole eccitar coi generosi gridi.
Ma s'è debol lo spron, fral di sostegno,
La scorta è quella, ond'a beati lidi
Per chi la segue in questo mar pur viensi.
[4 Di Orazio Ariosti]
Del medesimo
Ben vedi con quant'arte, anima trista,
Tenti d'entrar pietà nel nostro seno,
Pietà di lei ch'il suo natìo veleno
Coprendo appar tutta dogliosa in vista.
Voce di pianto e di sospiri mista
Ah non ti mova, ah in te non venga meno
Quel rigor che distrutto in un baleno
Per forza Amor ne' cori imperio acquista.
Degna è di Dio costei ch'odiò noi sempre,
E s'ella ben mostrò gradirne un tempo
Fel per far poi maggior nostro dolore.
Ahi d'un mostro pietosa, al nostro onore,
A te nimica, ohimè! tutto il tuo corpo
Fia che vilmente ornando si distempre.
Tratte da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918)