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CHIARIMENTI
Le notizie riportate nel presente blog, ove altrimenti non specificato, sono affidate alla memoria dell' autore e non possono pertanto essere considerate degne della minima fede. Ritengo sia mio preciso obbligo morale diffondere bufale, spacciandole per vere e viceversa. Chi si fida di me sbaglia a farlo, ma, volendo, potrebbe prendere spunto da quel bel po' di verità che sarà in grado di trovare in ciò che scrivo, per approfondire l' argomento, se gli interessa, altrimenti, ciccia.
Chi volesse comunque riferirsi a fonti ancor meno affidabili di una vacillante memoria di un incallito bufalaro, potrà consultare Wikipedia o, peggio ancora, la Treccani Online che a Wikipedia spesso rinvia. Degno di considerazione è il fatto che le idiozie di cui Wikipedia è spesso -non sempre, siamo onesti- intrisa fino al midollo sono consultabili gratis, laddove per la redazione della Treccani online lo Stato ha erogato all' ente, presieduto da un non bene amato ex ministro di nome Giuliano, due bei milioncini di euro nostri: che fine avranno fatto? Non c'è alcuna malizia da parte mia, s'intende, nel formulare questa domanda: solo semplice curiosità.
La lettura di questo blog è vivamente sconsigliata a chi ignora cosa sia l'ironia e/o non è in grado di discernere il vero dal falso.
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Post n°946 pubblicato il 02 Gennaio 2015 da valerio.sampieri
Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) Intermezzo del signor Aluigi Putti. Arione parla. Intermezzo II Arione Deh! qual pietosa deitade eterna A questi lidi salvo oggi m'adduce? Qual divina virtù tanto comanda Al sordo mare e a le marine belve? Quinci chiaro si scorge Turba che miri, e ti stupisci quanto D'anima saggia i sommi divi han cura. Arione son' io, quell'Arione Ch'al suon di questa cetra Ispiro in umil cor nobil desìo, Et in nobil desio spirti divini; Dò spirto e senso all'insensate piante, Agli insensati e inanimati sassi! Ché non può dotta mano e saggia mente, Vivo onor di me stesso, ed in me stesso Quanto possa virtù si vede espresso. Nacqui in Metimna, e fra' Corinti poi A Periandro re sì caro i' vissi; Che se di quello onde la pazza schiera Del volgo sciocco vanamente è vaga Fossi anch'io stato ambizïoso amante, Entro i tetti reali eternamente Lungi da ogni altra cura avrei goduto Quasi a pari del re gioia e riposo. Poco io temea gl'invidïosi morsi Dell'invida famiglia, e m'eran poco Noiosi a l'alma adulatori insani. Non avean mai dentro al mio petto albergo Desìo d'onore, o cupidigia d'oro; Ma di mia sorte assai contento e lieto Vivea tranquilla e moderata vita, Nulla il soverchio desïando, e nulla Per la fortuna mia superbo, o vano Che di quello s'appaga alma prudente Che lice, e tanto quanto de' s'estolle. Ma che giova il goder? Stavo tranquillo, Noto a pena a sé stesso, e di sé stesso Entro angusto confin chiuder il nome. Preposi alfin d'onor la voglia ardente E vago anch'io di far' eterna al mondo La mia fama, ancor debile ed inferma, Poco stimando le grandezze e gli agi, Lasciai Corinto, e verso Italia bella Per lo salato mar drizzai le prore. Vidi Italia felice, ivi talora Cantai fra ninfe boscherecci carmi; Ed accordai con ruvida zampogna E con stridula canna umili accenti. Talor fra gente nobile e guerriera Snodai la lingua in più sublimi note, E fei qual'io mi fossi a tutti chiaro A regi ed a bifolchi, e fui non meno Ne' palagi Arïon che nelle selve. Cantai qual foco amoros'alma senta, Come beltà di donna impiaghi e scalda Amor, che spesso entro due lumi ardenti Di nascoso attendea l'anima al varco. Ad incauto amator feci palese Talor sotto soavi Parolette e sospiri, Sotto amorosi scherzi E sembianti amorosi. Scopersi altrui mirabilmente l'angue, Temprai d'afflitto cuor gli affanni e 'l duolo Col mio canto, e sovente Le tempeste acquetai d'alma sdegnosa. Cantai ebro di gioia e di dolcezza Le dolcezze talor d'alma felice. I dolci risi, i dolci vezzi, i dolci Ed amorosi baci, E quel dolce morire, Che dà vita al gioire. Così nell'arte mia mirabil mastro A tutti caro i' vissi, e ricco alfine Di gemme e d'oro, entro del cor mi nacque Un gran desìo di riveder Corinto. Oh fame empia dell'oro, a quali cose Non tiri tu gli avari petti umani? Gente cortese in apparenza, e piena Di scellerata voglia Sopra un securo legno allor s'offerse Di condurmi a Corinto. Io tutto lieto Con le cose più care il legno ascesi, E di placido mar solcammo l'onde. Fendea del lieve pin l'acuto rostro L'onda tranquilla, e de le bianche vele Gonfiava i lini a noi benigno il vento. Era tutto oggimai Dagli occhi nostri dileguato il lido, Quando l'avara turba, Ch'e poco dianzi sì benignamente M'accolse, allor tutta crudel m'assalse, E mi disse: Arione, oggi deponi Quant'hai di prezïoso in poter nostro. Così volean l'oro, le gemme, e quanto Io meco avea tutto rapirmi a forza. E per far che sepolto eternamente Fosse il lor disonesto, empio desire, Voleano il corpo mio gettar' a l'onde. Io che pregando molte volte indarno Tentai da lor ricomperar la vita; Alfin quando conobbi L'opra esser vana, una sol cosa chiesi, Che dei più degni vestimenti ornato Che meco avessi, e carco di quell'oro, Premio di mie fatiche, inanzi morte Cantar con la mia cetra una sol volta Potessi almeno il mio misero fato; E quasi novo cigno Intonar' io medesmo A me medesmo i funerali accenti. Trovò questa dimanda Pietà nel cor di quella cruda gente, E soltanto da lor pregando ottenni. Cantai qual mi vedete D'oro ornato e di gemme, in ricche vesti, In alta parte asceso, e dopo il canto Precipitoso io mi gettai nel mare. Abbian, diss'io, con la mia morte fine, Anime avare, il mio felice stato, Le mie ricchezze, e vostre inique brame. Allora, oh! mostro di pietà divina, Pronto al bisogno mio fra l'acque apparmi Un veloce delfin, che quinci ancora Fuor' de l'acque si scorge, e sopra il dorso Tosto portommi qual vedeste a voi, Onde ragione è ben che la mia lingua Canti oggi la pietà che mi die' vita, E quel pesce cortese, Che quinci anco si vede, e forse attende Grazie da me, grazie infinite io renda. Arione così detto, canta la seguente stanza: Eterni duci, che reggete il freno A vostra voglia de l'acquoso regno, Ceda il suo fulminar Giove sereno. Non vanno i suoi de' pregi vostri al segno, Il cielo eterno non racchiude in seno Di quel che sia fra voi pregio più degno; Non son fuori del mar grazie più rare, Poiché il mar di pietà si trova in mare. Poi si volta al delfino, e così dice: Te, cortese delfino, Che mi portasti al lido Con presto moto e fido Non ti lasci il tuo Dio Fra il numeroso armento Del liquido elemento; Ma sì cortese e pio Come esser' a te piacque Ti faccia un Dio de l'acque, Se pur ne l'acque sei, Fra pesci, come sembri, e non fra dei. Qui si parte il delfino, e seguita Arione e dice: Tu parti, ed io mi parto. Quella potenza che può farti eterno Del tuo corso e del mio tenga il governo. Tratta da: Rime inedite del cinquecento (Bologna, Romagnoli - Dall'Acqua, 1918) |
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